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No plastic girls

La cotoletta aveva fatto un rumore diverso, quando era caduta nel cestino dei rifiuti. Un rumore secco e allo stesso tempo un po’ ovattato, a causa della sua consistenza, pensava Enrica. La crema di verdure invece era scivolata liscia. Il suono era stato quasi carezzevole, come quello di certe bacchette del batterista, quello che sembra un frullo di ali. La crema, viscida e appiccicosa, si era poi posata sui capelli sintetici della sua bambola preferita, Chetta, quella alla quale aveva spezzato le gambe, impiastricciandoli tutti. 

Anche quel giorno Enrica aveva mangiato due bocconi e il resto l’aveva buttato via, insieme ai fogli appallottolati del compito di italiano.

La prof le aveva fatto sapere che poteva farlo anche a casa, qualcuno sarebbe passato a prenderlo. Ma a lei non andava. Punto. Lo aveva già detto. Possibile che nessuno la ascoltasse?

Ormai l’anno era perso, la sorte non sarebbe cambiata con un compito di italiano in più. La cosa positiva, invece, sarebbe stata quella di perdere di vista Clau, Sammy e Ale. Loro avrebbero fatto la maturità e sarebbero andate all’università. Lei invece avrebbe passato un altro anno al liceo, ma senza di loro. E con un po’ di fortuna non le avrebbe incrociate mai più.

“Enrica ma che hai combinato? C’è un lago sotto al cestino…”

La mamma, con la sua ossessione per l’ordine e la pulizia.

“Enrica, non hai mangiato nulla nemmeno oggi…”

“Non è vero” disse Enrica a voce bassissima, guardando fuori dalla finestra, mentre la mamma correva avanti e indietro per pulire la chiazza sul parquet della camera e svuotare il cestino.

“E poi lo sai bene che gli avanzi vanno nell’umido e la carta da sola…”

“Milena”.

Il babbo. Bastava che pronunciasse il nome della moglie per calmarla quando si agitava.

In piedi, affacciato nel vano della porta, guardava la figlia, seduta alla finestra. 

Lei si girò. “Babbo”

“Non ti è piaciuta la cena, Enrichetta?”

“No, non è quello”.

“Ordino una pizza?”

“No no, non importa”.

“Davvero, non scherzo. La mangiamo insieme, a metà. Anche a me è rimasto un po’ di vuoto nella pancia”.

“Un’altra volta, davvero. Non scherzo” disse Enrica, che non permetteva a nessun altro di chiamarla Enrichetta, tornando a girarsi verso la finestra.

Era ancora giorno. Con l’ora legale faceva buio più tardi ma loro mangiavano sempre presto. Da mesi ormai Enrica non usciva più. Passava le giornate seduta davanti alla finestra della camera e osservava il mondo là fuori. 

La finestra dava su un piccolo parcheggio, occupato per un terzo dalle campane della raccolta differenziata. 

Enrica vedeva la gente arrivare con i sacchi dei rifiuti. Qualcuno era preciso e divideva il vetro dalla carta, gettava il sacchetto di plastica ben chiuso nel secco e quello biodegradabile nell’umido. Altri svuotavano il contenuto di intere automobili a casaccio nel secco, l’indifferenziato, senza dividere un bel niente. Qualcuno lasciava delle cose fuori, per terra, anche grandi. Reti con le doghe mezze saltate, vecchie lavatrici, orribili pensili da cucina in fòrmica. 

Fino a qualche mese prima Enrica si arrabbiava. Era una delle poche cose su cui si trovava d’accordo con la mamma. “La gente fa proprio schifo” dicevano passando davanti ai bidoni sommersi di rifiuti.

Ora però era cambiato tutto e a lei non importava più di niente, figurarsi dell’immondizia. 

Enrica era stata cresciuta nel rispetto dell’ambiente. Chiudeva l’acqua mentre si spazzolava i denti, non gettava fazzoletti e carte del gelato per terra. Per lei differenziare i rifiuti era naturale come inviare il messaggio di buonanotte alle amiche in chat, dopo i vari commenti sulla giornata. Ma tutto questo ora non valeva più.

D’improvviso la sua attenzione fu attratta da una vecchia macchina dal colore indefinito dalla quale uscirono tre ragazze. Sembravano più grandi di lei, ed erano vestite con abiti sportivi come per andare a correre. Parlavano e ridevano, avevano proprio l’aria di divertirsi. Una, quella con i ricci lunghi castani, aprì il bagagliaio e le altre si precipitarono ad aiutarla a prendere dei grossi sacchi di plastica. Dovevano pesare un bel po’ perché ce ne volevano due di loro per trasportare ogni sacco. Ne disposero quattro, tre grossi e uno più piccolo, davanti ai cassonetti e si misero in posa per farsi un selfie con l’immondizia. Prima però cercarono dentro i loro zainetti e ne trassero qualcosa di piccolo. Enrica si sporse in avanti stringendo gli occhi per cercare di capire che cosa fossero quegli oggetti che ognuna di loro teneva in mano mentre la riccia scattava. Il sole stava tramontando e non era facile vedere. 

Fatta la foto, le ragazze svuotarono il contenuto dei sacchi nei vari cassonetti, salirono in macchina e ripartirono. 

Le giornate di Enrica si ripetevano uguali. Costringeva la mamma a ripetere alle amiche che la passavano a trovare dal momento che lei non rispondeva più ai loro messaggi o alle loro chiamate, che stava dormendo o che era in bagno. Mangiava svogliatamente, aveva smesso di lavarsi. Ormai la sua divisa era un vecchio paio di pantaloni grigi sformati con una maglietta presa a caso dall’armadio. I capelli andavano dove volevano loro.

Enrica alla finestra osservava la vita degli altri che scorreva. Il pensionato del palazzo di fronte che portava il cagnetto a spasso. I ragazzini che si scapicollavano in bicicletta dopo la scuola. La ragazza ben vestita che barcollava sui tacchi alti verso l’auto del fidanzato. E il solito mondo di quelli che gettavano la loro immondizia, dentro e fuori i cassonetti. Una cosa anche se piccola era cambiata, però. Ora coltivava una speranza, quella di rivedere le ragazze con i grandi sacchi.

Una sera arrivò un grosso furgone rosso, che entrò nella piazzola con una manovra secca, inchiodando davanti alle campane colorate. Enrica pensò che il conducente fosse ubriaco. Si aprirono i portelloni posteriori e ne uscirono alcuni ragazzi fra cui, non ci poteva credere, le tre dell’altra volta. Cominciarono a scaricare grossi sacchi pieni di plastica e cartacce, mentre parlavano e ridevano. Sembrava che si divertissero un mondo. 

Poi le solite tre fecero la stessa cosa dell’altra volta. Tirarono fuori ognuna un piccolo oggetto dagli zaini e si misero in posa accanto al furgone per la foto, davanti ai grandi sacchi, insieme agli altri amici.   

Stavolta però erano più vicine e forse, approfittando del fatto che ci fosse più luce e che il furgone era posteggiato proprio sotto casa, Enrica avrebbe capito che cos’era quell’oggetto misterioso. Infatti lo vide. Erano tre bambolette, tre bambolette di plastica come tante non fosse per il fatto che ognuna era simile alla ragazza che la teneva. Riccioloni castani per quella che l’altra volta guidava la macchina, caschetto biondo per la piccoletta in maglia celeste, capelli lunghi neri e lisci per quella più alta. Quelle ragazze erano come lei e le sue amiche, si erano scelte un avatar anche se non giocavano più con le bambole. Enrica pensò a Chetta e alla fine che le aveva fatto fare. Spezzandole le gambe e buttandola nel cestino, aveva detto addio anche a tutto questo. 

Il furgone rosso fece manovra, i ragazzi erano già saliti su. Dalla fiancata sinistra, la parte che prima rimaneva nascosta, pendeva una specie di striscione bianco. C’era scritto #noplasticgirls.

Enrica accese lo smartphone e fece una rapida ricerca sui social ignorando il suono continuo dei messaggi accumulati nelle ultime settimane. Trovò l’hashtag che cercava. Corrispondeva a un gruppo Facebook. Finalmente poteva vedere i volti di quelle ragazze da vicino, anche se solo in foto. Ora poteva seguire le sue “amiche” a distanza osservandole durante i loro giri di pulizia. Le vedeva addentrarsi nei parchi, gironzolare nei boschi, salire sulle colline, battere le rive dei fiumi per raccogliere le immondizie gettate ovunque. Le immaginava partire con lo spirito leggero di chi fa una gita in campagna, allegre e sorridenti, con i loro guanti e i grossi sacchi. Raccoglievano bottiglie di vetro e di plastica, lattine, cartacce. Di tutto. Quelle ragazze erano fenomenali, partendo da un gioco fra amiche erano riuscite a creare un movimento a cui partecipavano amici ma anche sconosciuti, attirati dalla loro attività pubblicizzata sui social.

Enrica non perse tempo. Scrisse un messaggio di presentazione e fu invitata a unirsi a loro. Decisero che lei avrebbe presidiato il furgone e scattato le foto di inizio e fine giornata.

Per lei era un cambiamento immenso. Significava tornare alla vita. Intanto aveva ripreso a mangiare e a lavarsi. 

I suoi genitori non avevano quasi il coraggio di chiederle a che cosa fosse dovuto il cambiamento, per il timore di vederla rinchiudersi a riccio come negli ultimi mesi. 

Enrica aprì la chat e scrisse a Clau, Sammy e Ale scusandosi per averle messe da parte. Loro le risposero con l’affetto di sempre. Enrica rimase stupita quando le amiche accettarono la sua proposta.

“Mamma, domani mattina esco. Mi aiuti te con le protesi?”

“Certo bambina mia” rispose, incredula, la donna.

“Peccato che ho buttato via Chetta, dovremo comprarne un’altra, anche se non sarà la stessa cosa”.

La mamma uscì in fretta dalla stanza e rientrò con in mano la bambolina. Era stata pulita, rivestita e le gambe erano state incollate alla perfezione.  

Enrica fece un urlo di gioia.

In quel mentre la porta si spalancò. “Stasera prendo le pizze e vieni di là a mangiare con noi” disse il padre. Enrica non riuscì a trattenere le lacrime. Piangeva e rideva. 

Si sentiva come se qualcuno le avesse incollato qualcosa che aveva perso un po’ di tempo fa. 

(Questo racconto ha partecipato alla prima edizione del concorso Ambiente e territorio indetto da Sienambiente, aggiudicandosi il primo premio)

(Le #noplasticgirls sono reali. Le trovate su Facebook. Seguitele nelle loro imprese di pulizia del mondo e, se potete, mettete in pratica il loro esempio)

Augh!


https://www.sienambiente.it/it/news/9238/?fbclid=IwAR19D_nOyMNAXzfKY-pHn4c7FcqW670Ate3EgeqVKsPi775wCo0mvwkmDPo

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lettera non d’amore

Probabilmente avresti preferito un’auto diversa da quell’Alfa rosso Alfa così vistosa ed eccentrica. E impegnativa. Prendi il fatto delle catene. Quelle ruote proprio non le tollerano. E così, ogni primavera, c’è da cambiare le gomme. Metti quelle estive, leggere, fresche, quelle adatte per correre fino in spiaggia e tuffarsi nel blu. Sì, anche tante altre cose ci si possono fare, certo. Ma a me piace ricordare quella. Sono le ruote per partire dopo aver caricato tenda, zaino e via. Quelle delle notti in pineta, del canto delle cicale e dei gabbiani. Quelle che non hai bisogno di tutto il resto. Quelle che durano sempre troppo poco e che arriva subito l’autunno ed è già tempo di montare le altre, quelle da neve.

Pesanti. Fanno venire freddo solo a vederle. Però anche quelle hanno il loro perché. A me fanno venire in mente il camino acceso, un piumone caldo, un libro, un gatto addormentato. E te.

L’autunno è troppo più lungo della primavera e l’inverno dura anni rispetto all’estate, c’è poco da fare. Ma anche loro finiscono. E siamo punto e a capo. Porta l’auto dal meccanico, cambia le gomme, lascia che l’estate entri di nuovo in te. Dici che noia star sempre lì a cambiarle. Ma dimmi un po’, avresti forse preferito la costrizione di un paio di catene? E non pensi a tutte le stagioni che ti saresti perso?

Mesi lunghi e uguali l’uno all’altro, con il sole o con il gelo. Invece, guarda, se apri la finestra te ne accorgi, l’estate è finita e l’autunno è arrivato. Come lo so? Facile. E’ tempo di tornare in officina. Ecco qua. Queste sono le chiavi. Ormai lo sai bene come funziona. Stavolta però ricordati di chiedere al gommista per quanto tempo ancora potranno andare avanti, prima di doverli ricomprare, quei benedetti pneumatici.

 

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Un sabato di ordinaria follia

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Da giorni la radio, i giornali e la tv annunciavano l’arrivo di un freddo glaciale. Siberiano. Qualcosa a cui quella gente non era più abituata, tutta presa com’era tra l’idea del riscaldamento globale, lo scioglimento dei ghiacciai e l’innalzamento delle maree. Da qualche parte aveva già cominciato a nevicare. A quote basse, che sulle montagne non faceva notizia.
Si respirava un senso di impotente attesa nei confronti del tempo ma misto a una rabbia strisciante, un mostro a più teste che premeva per uscire allo scoperto.
Di lì a poco ci sarebbero state le elezioni per il nuovo governo. I rappresentanti dei partiti urlavano dagli schermi delle tv, davanti a conduttrici con labbra rifatte e capelli immobili. Ognuno, nello sforzo di far prevalere la propria voce, urlava più forte, per sovrastare le altre. Poi c’erano le promesse, grottesche promesse fatte da probabili governanti di un paese allo sbando. Non era come in tutte le altre elezioni. Stavolta si urlava forte davvero. L’aria era elettrica e i cittadini, surriscaldati dalle frasi sui social, vivevano come il pubblico davanti ai gladiatori nell’arena. La violenza dilagava lenta ma continua come un’ondata di fango. Ormai si era perso il senso della comunità con cui quella nazione si era fatta forza e si era ricostruita dopo essere stata distrutta.

La mattina del sabato la gente si riversava nei supermercati della città. Faceva lunghe file al posteggio suonando il clacson e insultando gli automobilisti in coda, colpevoli di ostruire il passaggio delle loro vetture. Litigavano appena si liberava un posto, urlavano e inveivano contro il malcapitato di turno.
Due donne litigavano per un carrello vuoto. “Lo lasci, è mio” gridava una voce stridula. Un uomo, seduto nella sua utilitaria, inveiva contro quello che gli aveva soffiato il posto sotto il naso.
Occorreva farsi forza, prima di affrontare il momento della spesa.
All’interno del negozio le cose non erano granché diverse. Ognuno guidava il proprio carrello stracolmo cozzando contro friabili anche di anziani tremolanti, sfiorando le fragili teste di bambini nei loro passeggini, spingendo gli altri carrelli. Le corsie erano ostruite da carrelli stracolmi abbandonati per andare in cerca dell’acqua minerale o di un formaggio al banco degli affettati.
Uomini e donne portavano in volto l’ansia stupefatta di chi vede il proprio mondo minacciato da qualcosa di irriconoscibile. L’espressione pronta a virare in un ghigno non appena si trovava a contatto con un proprio simile. Era quello il nemico più facile da combattere, in mancanza di altri.
Fra lo scampanellio delle casse e gli annunci degli altoparlanti che invitavano i proprietari a recuperare i propri carrelli, l’aria friggeva di una tensione che si faceva sempre più palpabile.

Non si sorrideva più. Se qualcuno si fosse preso a botte c’è da scommettere che nessuno se ne sarebbe stupito.

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Decreto vaccini: i giornalisti del Miao fra le prime vittime

Sono almeno due i giornalisti del Miao sottoposti a vaccino obbligatorio dopo l’entrata in vigore del decreto ministeriale. L’imposizione sanitaria è stata accolta con grande malessere dai professionisti interessati. Per il momento, a quanto ci risulta, a dover seguire tutta la trafila delle vaccinazioni sono stati solo il direttore responsabile della testata Ercolino e l’inviata speciale Agatha.
L’intervento è stato eseguito nel corso di una visita aziendale a sorpresa.
In seguito all’increscioso fatto è stato pubblicato un durissimo editoriale del direttore.
“Se non siamo liberi di scegliere se essere vaccinati o no, come possiamo ritenerci liberi di riportare obiettivamente le notizie e di esporre le nostre opinioni?” ha scritto, fra l’altro, Ercolino.
Il direttore ha inviato lettere di fuoco anche all’Ordine dei giornalisti e alla Federazione della stampa denunciando quello che è apparso come “un vero e proprio attacco alla libertà di stampa, perpetrato subdolamente ai danni di chi ogni giorno combatte perché sia rispettato il diritto di cronaca”.

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Le fervide proteste del direttore non sembrano però del tutto condivise dall’inviata speciale, Agatha, la quale ha invece ritenuto utile esser vaccinata a causa dei molteplici rischi che quotidianamente affronta proprio a causa dell’attività professionale. Nel momento in cui le è stato inoculato il siero si sono registrate tuttavia delle critiche, quantomeno sui modi con i quali è stata condotta la campagna.

Sulla vicenda non si esprimono gli altri componenti della redazione del Miao, la segretaria di redazione Miciona, l’addetta alla cronaca Musetta, il giornalista sportivo Ercole e la cronista di nera e giudiziaria Gattaccina, avallando dunque quanto sostenuto dal loro direttore responsabile.

“Il blitz della forza sanitaria ai danni della redazione del Miao – si legge infine in una nota diffusa da Ercolino – costituisce un grave esempio di discriminazione in quanto siamo certi che lo stesso provvedimento non verrà mai preso nei confronti del concorrente Gattaccio, redattore e direttore della testata L’Unghiata, a causa del suo stato di clandestinità”.
“Su questo – ha concluso Ercolino – sono pronto a scommettere la mia razione mensile di croccantini e quella dei miei colleghi”.

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Il Miao, una nuova testata nel panorama dell’editoria

La comunità felina di Vallecapocchi avrà presto il proprio giornale. Si tratta del quotidiano “Il Miao”, che verrà stampato a colori su carta oleata e avrà anche un proprio sito internet.
Direttore responsabile della testata sarà Ercolino, giornalista professionista di comprovata esperienza. Ercolino ha dato prova più volte di avere anche una eccellente capacità di gestire il gruppo dei propri collaboratori, tutti professionisti raccolti dalle redazioni più titolate. Il suo carattere forte e deciso lo porta ad affrontare con la giusta dose di energia anche le interferenze esterne, pur senza dimenticare l’importanza della mediazione e della diplomazia, qualità importantissime per ottenere gli auspicati risultati.

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Inviata speciale: Agatha, professionista giovane ma intraprendente con una spiccata predisposizione a lavorare anche nelle ore notturne, così da poter cogliere le notizie di sorpresa e farle sue. La disponibilità a muoversi e a percorrere lunghe distanze senza curarsi delle condizioni della trasferta ne fa una perfetta inviata di guerra, all’occorrenza.

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Segretaria di redazione: Di carattere schivo ma non per questo meno capace Miciona è stata scelta dall’editore per ricoprire il delicato ruolo. Sarà il frontcat dell’ufficio, quello addetto ai rapporti con il pubblico, pronta all’occorrenza a coordinare i giornalisti, naturalmente su input del direttore responsabile.

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Sport: Agile e scattante, sempre pronto a seguire squadre e atleti ovunque li portino le trasferte di campionato, Ettore, ne siamo convinti, saprà redigere affascinanti reportage sportivi senza dimenticare di aggiungere quelle note di colore che li renderanno fruibili da qualsiasi tipo di lettore. La sua spiccata tendenza al brontolio rappresenta quel valore aggiunto che lo farà sicuramente entrare più facilmente in sintonia con allenatori, giocatori e presidenti di squadra.

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Cronaca: al centro della redazione ci sarà Musetta che, con il suo fondamentale apporto, coordinerà le notizie provenienti dalle istituzioni e dalle associazioni. Il suo carattere calmo e riflessivo la rendono la perfetta testa di punta per le interviste ai grandi personaggi del nostro tempo.

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Cronaca nera e giudiziaria: Entrambi gli importanti settori saranno curati da Gattaccina, l’ultima arrivata ma non per questo meno intraprendente e capace degli altri colleghi. La sua capacità di essere sempre presente senza dare troppo nell’occhio la rendono la professionista ideale per battere questure, caserme dei carabinieri e tribunali ottenendo informazioni riservate e irraggiungibili ai più.

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Il Miao non sarà l’unica testata ad affrontare la piazza cittadina. Si troverà infatti a combattere con l’accanita concorrenza di un altro quotidiano, “L’unghiata”, scritto e diretto integralmente da Gattaccio, giornalista poliedrico conosciuto per la sua tempestività e aggressività. Recenti notizie che lo davano debilitato da una misteriosa malattia sembrerebbero smentite dalle sue ultime apparizioni in pubblico. Gattaccio, professionista dal carattere solitario, si è mostrato ultimamente con una forma che, per quanto lontana da quella in cui eravamo abituati a vederlo, appariva quantunque migliorata. Gattaccio, da inguaribile guascone, non accenna nemmeno a nascondere le ferite che ancora devastano il suo corpo e che avevano fatto temere per il suo stato di salute se non addirittura per la sua stessa vita.

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Salutiamo le due nuove testate con grande gioia confidando che l’entusiasmo e le capacità di tutti i giornalisti, nessuno escluso, portino notevoli contributi alla diffusione delle notizie e alla pluralità di opinioni, aspetti di cui la nostra società ha sempre un gran bisogno.
Concludendo auguriamo buon lavoro ai redattori del Miao e dell’Unghiata aspettando di leggerli presto in edicola e on line.

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coppie aromatiche/ i signori rosmarino e melissa

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“Mo’ vien qua bel Rosmarino mio che oggi ti ho fatto dei tortellini buoni buoni proprio come piacciono a te”
Melissa era così. Avvolgente profumata e piena del calore della sua terra di origine

Rosmarino non poteva chiedere di meglio
ormai era una vita che stavano insieme quei due e niente e nessuno avrebbe potuto separarli

Rosmarino, scuro, piccoletto e una grande nobiltà d’animo, faceva la sua parte nella vita
Melissa, che lo sovrastava di una spanna e più, lo inondava del colore e del profumo delle sue foglie che crescevano forti e prosperose
lui accanto a lei si sentiva accudito e amato
non avevano avuto figli, chissà perché
Rosmarino adesso nemmeno se lo ricordava
Forse non erano venuti o forse non li avevano cercati
lui non se ne faceva un cruccio, anzi
per tutta la vita, per tutto il tempo che avevano trascorso insieme e che ancora ci sarebbe stato, aveva avuto le attenzioni di Melissa tutte per sé
che donna quella Melissa là
e che profumo ragazzi

rosmarino

era il primo segno della sua presenza, quando apriva gli occhi al mattino
di notte il suo profumo lo confortava perché gli rammentava che lei era sempre lì, accanto a lui

Rosmarino non era uno che prendeva le cose così come venivano
no, lui ci ragionava su, ci rifletteva
ogni tanto si chiedeva perché mai avesse avuto la fortuna di ritrovarsi accanto una come la sua Melissa
perché proprio lui
questo pensiero lo faceva gioire ma allo stesso tempo gli dava una sorta di preoccupazione, una specie di insicurezza, un sentimento che faceva un rumore come di cigolio nel suo stomaco
insomma, aveva paura di perderla
tanta paura

ma non si pensi che Rosmarino non si godesse la sua Melissa
lui ringraziava ogni giorno il cielo per avergli concesso la fortuna di averla accanto a sé
c’era però un tarlo che gli rodeva dentro e che si affacciava quando meno se lo aspettava facendogli temere tutto all’improvviso e senza alcun motivo preciso di perderla

ogni tanto pensava al suo amico, il signor Salvia, che gli era toccata quella palla al piede della signora Origano
all’inizio non sembrava tanto male, ma poi quella era diventata sempre più pesante
qualche giorno fa l’aveva vista però e gli aveva fatto un’impressione migliore con la rasata che si era fatta dare ai vecchi rami e le foglioline nuove che le spuntavano dappertutto
(forse anche al Signor Salvia una bella tagliata non gli avrebbe mica fatto poi tanto male…)

oppure pensava allo scampato pericolo della Santoreggia
superba quella lì, altezzosa e saccente
da scansare e ringraziare sì, ma di non averla fra i piedi
vabbè, ogni tanto veniva a prendere il tè a casa, con Melissa che preparava i pasticcini colorati e profumati che erano una gioia per il palato e per lo spirito
ma allora lui passava giusto per un rapido saluto, così come si conviene, e si ritirava nelle sue stanze, mentre le amiche di là bevevano tè caldo e chiacchieravano

lui, in quei lunghi pomeriggi, rimaneva da solo ma si consolava con un piattino dei dolcetti di Melissa che gli facevano compagnia mentre leggeva un libro in attesa di riavere la sua compagna tutta per sé

melissa

Un giorno Rosmarino si prese un bello spavento
successe tanto tempo prima, quando erano entrambi giovani e spensierati
lui era già innamorato della sua Melissa e sapeva che quel sentimento non sarebbe mai cambiato
lei era una pianta dolce e teneramente profumata, ma niente a che vedere con la Melissa forte e sicura di sé che era diventata oggi
delicata e timorosa si appoggiava a lui per qualunque decisione dovesse prendere o per qualsiasi dubbio l’assillasse

una notte si alzò un forte vento
le raffiche arrivavano sibilando, sembrava che prendessero la rincorsa e spazzavano via tutto quello che trovavano
tutt’intorno foglie e rami volavano e mulinavano
a un certo punto si scatenò anche la grandine
chicchi grossi come uova di gallina cadevano tutti intorno come le bombe durante un attacco dei nemici

Rosmarino era abituato a tutto
anche se non era mai cresciuto tanto in altezza, il suo tronco era forte e stabile e niente, né pioggia né vento, avrebbe potuto fargli del male
Melissa no, Melissa non era così
Lei era bella e delicata, ma le sue foglie e il suo stelo erano molto più deboli
nonostante lui cercasse di proteggerla come poteva non potè impedire che venisse colpita da qualche chicco

quella notte Melissa perse molte foglie
altre rimasero danneggiate e il suo stelo si piegò, anche se di poco
il giorno dopo, quando la tempesta si calmò, Rosmarino chiamò aiuto ma tutti erano occupati a curare le proprie ferite
allora si prese cura lui di Melissa
accarezzò ogni sua fogliolina, ne baciò tutta la superficie martoriata dalla furia del maltempo, le offrì il suo sostegno perché potesse raddrizzarsi
fu dura e all’inizio Rosmarino si sentì prendere dallo sconforto più di una volta
ma alla fine i suoi sforzi cominciarono a dare frutti
Melissa tornò a rialzarsi, pian piano
le sue foglie si cicatrizzarono, ne spuntarono di nuove
con il tempo diventò la pianta forte e prosperosa che è oggi
Rosmarino, che non stava in sé dalla gioia, le fece spazio perché potesse crescere anche più di lui che così poteva godere dell’ombra delle sue foglie

non ci furono più tempeste come quella notte
ma Rosmarino e Melissa furono segnati per sempre da quell’esperienza
e in nome di tutto quello che era avvenuto decisero che niente e nessuno li avrebbe mai divisi
per tutto il tempo che avrebbero avuto in dono su questa terra

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coppie aromatiche/la signora origano e il signor salvia

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Ormai c’era ben poco da fare, la Signora Origano diventava ogni giorno più pesante e il Signor Salvia era sempre più tentato dal guardare fuori dai suoi consueti orizzonti
Non sapeva dire con precisione quando fosse iniziato il lento ma inesorabile declino di sua moglie
Non ricorda se c’era stata qualche avvisaglia
Tutto d’un tratto le erano crollati i rami e il nucleo della pianta si era inaridito trasformandosi in un piccolo cespuglio nodoso e rinsecchito
“Mi sarei dovuto accorgere subito di quanto era selvatica”

salvia

Il Signor Salvia era convinto di appartenere ad una specie superiore
La rassicurante famiglia dalla quale proveniva, con la costante presenza nei migliori orti e giardini, gli appariva come una nobile stirpe al confronto degli avi della Signora Origano, più adusi a frequentare selvaggi territori, come quelle distese sterminate sabbiose e aspre delle terre del sud
Il Signor Salvia si sentiva al di sopra senza alcun dubbio, tanto più da quando la Signora Origano aveva avuto quel crollo improvviso
Lui ormai desiderava soltanto allontanarsi da lei
Gli sarebbe tanto piaciuta quell’Erba cipollina del vaso accanto e ogni tanto protendeva i suoi rami in quella direzione provando ad attaccar discorso ma lei nemmeno lo vedeva tutta presa com’era da Timo, quello bassetto e con le foglie fini fini
Mah? Chissà che ci trovava mai una come lei in uno come quel tipo là

E invece a lui era toccata la Signora Origano
Insomma qui c’era da prendere una decisione
Separarsi. Ormai non c’era più niente da fare
Ognuno dei due guardava in direzioni opposte e sembravano non aver più niente in comune
Insistere a stare insieme non faceva nemmeno tanto bene alla loro salute
Se alla Signora Origano era successo quello che era successo il Signor Salvia non è che se la passasse meglio
Con quell’aspetto nodoso, i rami spogli, le foglie ormai limitate alla parte superiore, tutto proteso verso l’esterno, il più lontano possibile dalla Signora Origano

origano

Che senso aveva continuare a stare insieme?
Tanto valeva stare con un qualsiasi Basilico o magari anche con un Prezzemolo se proprio non era possibile ritrovare il suo amico Rosmarino
Eh sì, con lui sì che avrebbe saputo come trascorrere il tempo
Avevano sempre qualcosa da dirsi quei due
Parlavano la stessa lingua, non come questa palla al piede che era diventata la Signora Origano che ormai era così pesante ma così pesante
Se apriva bocca lo faceva solo per far uscire battute taglienti o per recriminare con il Signor Salvia, immaginando che le avesse detto cose che in realtà a lui non erano nemmeno mai passate per la testa
Ormai la convivenza nella vaschetta matrimoniale era diventata impossibile
Forse era giunto il momento di trovarsi un bel vaso singolo e provare a stare da solo per un po’
Non gli avrebbe fatto male, no
E lei, che lei si arrangiasse una buona volta perdio
Magari non se la sarebbe nemmeno presa troppo
avrebbe invitato la sua amica Santoreggia e così avrebbero potuto passare il tempo sparlando di lui
ma cosa importa poi
tanto un pezzo di terra, un posto al sole e un po’ d’acqua lui, il Signor Salvia, li avrebbe trovati sempre

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coppie aromatiche/timo e cipollina

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Erba cipollina scosse la testa mentre si guardava allo specchio
“Uff sono sempre spettinata, tanto vale arruffarmi questi stecchi che stanno dritti come spinaci”
Timo la guardava poco distante e rìdeva di cuore.
Da quando stavano insieme, praticamente da sempre o almeno così gli sembrava, non riusciva a trovare nemmeno un difetto alla sua compagna.
E sì che Erba cipollina, profumata di quel profumo un po’ selvatico che hanno i cavalli di razza e le verdure con una certa personalità, qualche difettuccio lo aveva. Impossibile negarlo.
Aveva una sua, come dire, rigidità che con il passare del tempo si accentuava.

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E il sapore. Sarà perché veniva da quella famiglia lì, con tutte quelle cipolle e quegli agli…
Lei era più delicata, brillante e versatile, non si poteva proprio paragonare a quei parenti, diciamolo anche un po’ rozzetti, dozzinali dai, diciamo anche questo. Però alla fine il dna era quello.

Timo solo a sentire il profumo di Erba cipollina impazziva. Letteralmente.
E lui, che discendeva da una vasta famiglia di piante odorose, di profumi se ne intendeva.

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“Cipollina sei pronta? Ti vuoi sbrigare…”
“Timo non mettermi fretta, ti prego. Lo sai che poi mi confondo ed è anche peggio”
“Macché fretta e fretta dai… Sono ore che stai lì davanti a quello specchio a toglierti i fili secchi dai capelli. Avrai finito ora? E poi lo sai che per me sei sempre bellissima”
Quando timo faceva così a erba cipollina il cuore faceva un balzo nel petto. Era come se se lo sentisse dire per la prima volta. Anche se non era affatto così
Cipollina era stata fortunata a incontrare Timo

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Era accaduto tanti, ma tanti anni prima.
I due si erano subito piaciuti, a pelle, ma ci avevano messo un po’ a decidere di stare insieme
Poi lo avevano fatto e da allora non si erano più lasciati
Timo adorava la sua Erba cipollina
Per lui nessuna poteva competere con lei.
Nemmeno l’altezzosa Santoreggia o la spocchiosa Melissa
Erba cipollina era diversa
Lei era così, adatta a tutte le occasioni. Interessante, piena di verve e sempre con nuove idee che le giravano per quella testolina spettinata

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Con lei era impossibile annoiarsi ma non era nemmeno una di quelle compagne stressanti che ti costringono a estenuanti tour de force. Lei era semplicemente se stessa e questo le bastava
E poi non si curava del giudizio degli altri e questo la rendeva ancor più libera e bella, di una bellezza naturale e spontanea come quella delle sue amiche Erbette di campo
“Eccomi qua. Sono pronta”
“Finalmente” esclamò Timo e sorridendo le sfiorò i capelli con un bacio leggero.
“Andiamo”

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“A proposito amore mio, ma dov’è che si va?”
“Non te l’ho detto tesoro bello? è una sorpresa”
“Fai tu, io con te verrei in capo al mondo. Lo sai. Per me l’importante è stare con te, non mi importa dove”
Anche per Timo le parole di Erba cipollina erano come una doccia di acqua fresca. Stimolanti, purificanti e rinfrescanti. Non importa quante volte le aveva sentite.
Anche per lui ogni volta era come la prima.
In un attimo Timo fu circondato da una nuvoletta odorosa, che emanava dalle sue stesse foglie.
“Vieni amore mio – gli disse Erba cipollina – che è ora”
E così dicendo lo prese a braccetto e insieme si incamminarono verso la loro meta.
Ovunque avesse intenzione di portarla.

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Archiviato in fiction, storie di piante ed erbe aromatiche

il grande pioppo

Avevo sempre pensato che fosse solo un albero. Un albero grande e bello. I suoi rami vibranti alle carezze del vento portavano ombra negli assolati pomeriggi estivi, le sue profonde radici arpionavano il terreno preservandolo da frani e cedimenti. La sua presenza maestosa rassicurava come una sentinella di guardia davanti alla casa immersa nella solitudine della campagna.
Un giorno, mentre sedevo pensieroso sotto a quelle fronde, sentii una voce. Mi girai per capire da dove venisse ma non vidi nessuno.
Ero solo in casa, non avevo sentito arrivare automobili né persone a piedi e il grande cancello in ferro battuto, unica porta d’accesso alla casa, era chiuso.
Eppure c’era una voce di donna nell’aria. Nel silenzio, rotto solo dal fruscio delle foglie mosse dal vento, quella voce parlava. Parole si diffondevano tutto intorno nell’aria e io non vedevo chi le pronunciava.
Pensai a uno scherzo, a qualcuno che avesse acceso un apparecchio radio proprio per creare quell’effetto e trarmi in inganno. Ma a che scopo?

La mia vita ormai isolata e solitaria non poteva ispirare voglia di scherzare a nessuno, né tantomeno alcuna curiosità. Ne ero più che convinto.
Ristetti in silenzio, seduto al tavolino in pietra, senza prestare l’orecchio a quella voce, ma cercando semmai di scacciare pensieri e timori per fare il vuoto dentro di me.
Fu così che l’enorme pioppo poté cominciare a parlare. Ma quel che più mi stupì fu il fatto che io riuscii a sentirlo.
Le parole non erano percepite tanto dalle mie orecchie. Sembrava invece che entrassero dentro di me attraverso i piedi, che poggiavano scalzi a terra. Risalivano poi per le gambe, passando dal mio ventre dove acquistavano risonanza. Quando la mente ne aveva compreso il senso le parole ormai erano già rotolate verso un nuovo discorso, una frase che rincorreva quelle appena pronunciate, inseguendole, sovrapponendosi, formando un canto armonico e dolce dal quale ogni tanto si stagliava una nota diversa, come isolata dal coro.
Non so ancora come poté accadere, ma ascoltando questi suoni, potei conoscere le storie di tante persone che erano vissute in quella grande casa prima che la mia famiglia vi si trasferisse, tanti anni prima.

Appoggiai le mani a quella corteccia spessa e ruvida preso da non so quale istinto.
Queste cominciarono subito a formicolare come se delle micro spazzole invisibili ne grattassero la superficie.
Non feci in tempo a prestare troppa attenzione a questa sensazione che subito se ne affacciò un’altra.
Il primo colpo ebbe l’effetto di un pugno nella pancia. Sentii diffondersi in tutto il mio essere una sofferenza, dapprima indefinita, poi sempre più delineata. Davanti ai miei occhi una donna ancora giovane giaceva a terra con le vesti lacere. Era piena di graffi e del sangue le colava fra le gambe. Vidi come in un fotogramma alcuni uomini in divisa militare, dovevano essere tedeschi. In un angolo a terra, rannicchiato e piangente, un bambino, avrà avuto 5 o 6 anni, cui era toccato assistere alle terribili violenze sulla madre.
La nube di angoscia e sofferenza si dissipò tutto d’un tratto e vidi la stessa donna pedalare in bicicletta, in una giornata di sole. Cantava felice mentre percorreva un sentiero di campagna. Il bosco da una parte, un campo di grano dall’altra. Nel cesto sospeso sul manubrio il figlio, molto più piccolo di come lo avevo appena visto, batteva le manine felice.
Erano spensierati, non sapevano ancora che cosa la vita avrebbe loro riservato.
Poi di colpo fui dentro una cucina, una stanza d’altri tempi, dove un’anziana ossuta, con un abito lungo a piccoli fiori e un grembiule bianco, preparava da mangiare circondata da alcuni ragazzini di diverse età. Mi sembrò di riconoscere una delle stanze della mia casa, anche se era arredata in modo del tutto diverso. Ma sì quella finestra che si apriva davanti al grande pioppo, già maestoso all’epoca, era proprio quella della stanza che oggi ospita uno dei saloni.
Entrarono due uomini, uno vecchio e uno più giovane e la famigliola si sedette attorno alla tavola apparecchiata.
Apparivano tutti molto sereni ma io sentivo che presto sarebbe successo qualcosa di terribile.

Non riuscivo a staccare le mani dal tronco di quell’albero. Le storie tremende che aveva immagazzinato e che ora custodiva, memoria del tempo e della vita degli uomini, mi accendevano una curiosità di cui ormai ero prigioniero.
Vidi altri militari entrare nella casa sbattendo la porta con violenza, il loro atteggiamento arrogante non lasciava alcun dubbio sulle loro intenzioni. Sentii il pianto dei bambini, vidi l’anziana prendersi il volto fra le mani, mentre i due uomini di casa si alzavano per fronteggiarli in un disperato quanto inutile tentativo di opporsi alle loro angherie.
Non so quanto tempo passai così, appoggiato a quell’albero, rivivendo
Le storie che aveva immagazzinato con le sue profonde radici.
Tornai a sedermi al tavolino di pietra davanti al quale trascorrevo ormai in solitudine le mie giornate. Almeno quando non pioveva.
Sapevo che la mia fine era vicina ma questo pensiero non mi suscitava più l’angoscia che sentivo prima.

Ora che avevo conosciuto il segreto dell’albero ero sicuro di una cosa. Che per quanti uomini e donne sarebbero passati sotto di lui, l’albero sarebbe rimasto, maestoso ed immortale, nutrendosi delle loro vite per trasmetterle ancora a chi sarebbe riuscito a coglierle, attraverso la robusta corteccia e lo stormire delle foglie.
E questo significava che nessuna di quelle storie sarebbe mai stata dimenticata.
(Racconto – 23 agosto 2011)

Questo è un racconto, un’opera di fantasia, ispiratomi nell’estate 2011 dal bando di un concorso a cui ho partecipato senza alcun risultato.
Il racconto era rimasto, dimenticato, nel computer fino a pochi giorni fa quando, parlando con una collega dell’argomento che vi è trattato mi è tornato alla mente. E’ stato allora che ho deciso di pubblicarlo nel blog pensando che certi temi possano essere di interesse anche per altre persone.
(si.p.)

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