il fatto è che io devo scrivere. è come un bisogno della mente che così traduce ciò che passa in forma di pensiero e fissa certi aspetti della realtà.
ma il più delle volte tutte queste frasi rimangono là, sospese, frutto della mente e mai trascritte su carta. peccato, perché poi il pensiero è volatile, le cose passano, qualcuna resta, altre vengono distorte dal tempo, dalla memoria, da chissà che
il fatto è anche che dopo che ho scritto riscriverei e riscriverei e non sono mai soddisfatta
la scrittura, molto più del discorso parlato, permette di creare un’armonia fra parole, puoi ricercare la perfezione, anche se non è detto che riesci a trovarla. puoi limare, tagliare, aggiungere. fino a che la frase esprime esattamente la forma del pensiero o dell’avvenimento che vuoi raccontare.
ma poi tutto cambia, appunto. e allora togli quell’aggettivo, insulso. quell’avverbio, pesante. rovesci la costruzione del discorso in cerca di un’illusione metrica, di una musicalità diversa
mi piace immaginare che le menti umane abbiano una propria disposizione naturale se messe nella condizione di lasciarsi andare alla creatività.
ci sarà quella che traduce in musica pensieri e fatti, quella pronta a trasferirlli in un disegno, in un’opera di pittura, quella che traduce tutto in poesia.
non parlo di veri e propri artisti, penso più a un atteggiamento dell’animo che non è detto si concretizzi. o che non è detto che diventi arte
ecco, per me credo che funzioni così per la scrittura.
è un po’ come una concretizzazione naturale del pensiero, che così si compie e assume un significato
il fatto è che scrivere è anche il mio lavoro. ma è una cosa del tutto diversa. scrivendo articoli giornalistici in realtà scrivo quasi per forza, costretta in spazi determinati, condizionata dai limiti orari della pubblicazione quotidiana oltre che obbligata dall’argomento
senza parlare delle interruzioni e delle distrazioni continue cui sei sottoposta nella vita di redazione, fra telefonate, domande dei colleghi, visite più o meno importune.
ricordo che quando ero piccola una delle cose che volevo assolutamente fare era imparare a leggere e a scrivere e per questo assillavo nonna Libe con la quale trascorrevo la maggior parte dei pomeriggi visto che i miei genitori lavoravano entrambi. non potevo sopportare di non capire quello che c’era scritto su libri e giornali che passavano per casa.
ora, non voglio dire che a quattro anni leggessi il corriere della sera. però imparai a leggere e a scrivere. per me, ovviamente. intendo dire che era una mia necessità, non avevo il bisogno di dimostrare niente a nessuno tantomeno ai miei genitori che infatti mi iscrissero in prima elementare senza nemmeno pensare di farmi saltare direttamente in seconda dove andavano quelli che già sapevano leggere e scrivere
a scuola rimasi stupita che il maestro perdesse tanto tempo a farci mettere insieme delle letterine ritagliate nella carta per formare delle parole. io componevo le mie senza difficoltà e poi spostavo l’attenzione sulle letterine della mia compagna di banco che invece era ancora lì. il maestro se ne accorgeva e mi mandava fuori dalla classe perché non disturbassi i compagni. quanto tempo sprecato!
ero ancora alle elementari, ma in quarta o quinta, quando con la mia famiglia facemmo un viaggio di alcuni giorni a Roma in visita agli zii.
fui molto colpita dalla bellezza e dalla magnificenza della capitale e al ritorno scrissi su un quadernetto che mi era stato regalato alcune poesie.
ricordo solo alcuni argomenti: i gatti del colosseo, la cupola di san pietro. ricordo anche che forse la maestra mi fece leggere le poesie in classe, o forse le trascrissi su un foglio grande che poi venne appeso in classe. ora non saprei dire con precisione
quel quadernetto aveva le pagine bianche e una copertina gommata con un disegno composto di qualche linea e macchia fatto come con la vernice, rossa, nera e bianca. tipo un quadro astratto. ma non sono più riuscita a trovarlo. sarà stato buttato via in qualche trasloco, immagino. peccato.