“Scusi, ma lei non ha nessuno che la accompagna? Lo sa che in casi del genere non si viene mai soli?”.
Il caso del genere sarei io con un piede ingessato e le stampelle che, seduta su una sedia a rotelle, devo spostarmi tra una zona e l’altra dell’ospedale. In ogni reparto in cui passo arriva puntuale la brontolata dell’infermiera di turno.
La stessa frase mi è stata detta dalla biondina col viso dolce dell’ortopedia, ripetuta dalla moretta severa di radiologia, per risentirla qua e là durante il percorso fra la fisioterapia e l’accettazione.
Che poi, sola. Mi hanno accompagnato e mi verranno a riprendere. E a dire il vero sono stata io a dire che non si fermassero, che me la sarei cavata. Insomma, non è che tutti gli amici hanno due o tre ore da spendere a spingere la tua carrozzella da una stanza all’altra. Poi, dico io, c’è gente che in carrozzella ci vive e si sposta da sola, perfino guidando l’auto. Vuoi che io per qualche ora, fra l’altro dentro un ospedale mica in mezzo a una strada, non riesca a farcela?
Ho imparato a far la faccia di tolla. A ogni infermiera ululante faccio finta di niente. Penseranno che sono ottusa, poco intelligente. Pensino quello che vogliono.
In realtà non pensano niente, credo. Di me in quanto persona, intendo. Penseranno semplicemente che sono un ostacolo, o un impiccio, di passaggio nella loro giornata di lavoro.
“Io posso accompagnarla fino a qui. Poi l’abbandono”.
“Mi abbandoni pure, non c’è problema”.
Si alza un signore.
“Dove deve andare? Posso aiutarla?”
“Volentieri, grazie”
Dopo aver attraversato il salone da sola spingendo le ruote di gran carriera (e insomma, un mese di stampelle almeno le braccia te le rinforza), trovo un tizio davanti alla colonna dei ticket al CUP.
“Chiedo scusa, dovrei passare”
È l’addetto all’assistenza.
“Che le serve?”
“Devo prendere un appuntamento”
“Allora guardi, le do il numero. Con questo ha la precedenza”.
La ruota sinistra scivola su un rialzo del pavimento e la sedia non si muove. Mi giro verso un uomo in piedi accanto a me. La moglie parla con l’assistente.
“Scusi, signore. Può aiutarmi?”
Mi spinge verso il corridoio della sala d’attesa. Mi porto avanti, per essere in pole position quando uscirà il mio numero. Non faccio in tempo ad arrivare che lo chiamano.
“Scusate, permesso… arrivo!” Dico a voce alta mentre il campanellino scatta sui numeri successivi.
Una ragazza dai lunghi capelli neri si alza. “Posso aiutarla?”
Mi spinge e raggiungo lo sportello.
Quando è il turno del prossimo, ho difficoltà ad uscire spostando la sedia. Subito arriva un signore ad aiutarmi. “Dove deve andare?”
“Nel salone, la ringrazio”
“Si figuri, tanto son qui che aspetto”
Faccio la mia telefonata e mi faccio venire a prendere al pronto soccorso, il punto più comodo per la sedia a rotelle.
Mi avvio verso il corridoio, seguendo la linea grigia. Chiedo a un volontario di un’associazione se mi dà una mano. Sembra non aspettasse altro.
“Dove deve andare?”
“Al pronto soccorso”
“L’accompagno fin lì, allora”
È finita. Ce l’abbiamo fatta.
Da sola sì, ma con l’aiuto di tanti.
E a dirla tutta, scoprire questa voglia di aiutare, questa disponibilità verso una persona in difficoltà, questa generosità sorridente, mi è sembrata la cosa più bella della giornata.
Oltre al fatto che l’osso (il terribile astràgalo, si, sempre lui) è guarito e che mi hanno tolto il gesso.
La prossima volta però mi farò accompagnare, tranquille infermiere.
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Io giro da sola (anche in ospedale, sì)
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Si fa presto a dire astragalo. Ma l’accento dove va?
Astragalo è una parola bellissima. Mi chiedo dove cada l’accento. Se è sdrucciola, astràgalo, la mente corre al cielo, alle stelle e all’astrologo. O all’astrolabio. E per simpatia finanche alla mandragora. O a Tantalo, al vandalo, all’acefalo, al bucefalo, al crotalo e al mesencefalo. A un cembalo.
Se è piana, astragàlo, mi vien da pensare a mondi antichi, alle storie lontane di assiri, sumeri e babilonesi. A Sardanapàlo, il lussurioso re che visse come se fosse stato una donna. A un regalo, a un palo, un narvalo che immortalo, intercalo e incanalo.
Mamma dice: non la conosco questa parola, ma non mi piace per niente.
Io sono la più giovane in astanteria. Nell’angolo di destra, quello opposto al mio letto, c’è un anziano, magro, rinseccolito. Si lamenta di continuo. Aga, aga, aga, aga frishc. Pensavo recitasse una preghiera islamica, invece è un Sinagra dell’ultimo Montalbano che chiede acqua fresca. A lui, oltre all’infermiere, bada il figlio.
Accanto a me una donna, anziana anche lei. Ha la faccia tumefatta. Racconta la figlia: non ha trovato l’interruttore della luce, ha aperto la porta ed è andata giù dritta di testa per le scale. Aveva già un tutore alla spalla.
Un’altra anziana è nel letto davanti a me, a ore 12. Dice alla figlia: l’ho detto anche al dottore, con noi non c’è niente da fare. Siamo vecchi. E io ho cent’anni, sarò vecchia?
Macché cent’anni, dice la figlia come se parlasse a una bambina.
Eh, se un so’ cento son novantaquattro.
Portano un altro lettino con un’altra anziana, meridionale questa come il Sinagra. Ogni tanto le esce un rumorino secco, come di frittura. E ride, guardando soddisfatta verso la figlia.
La notte, fra un lamento e colpi di tosse catarrosa, si dorme.
Fossimo in una puntata di Grey’s Anatomy o di ER, sarebbe tutta un’altra storia.
La signora accanto a me, in rotta con la figlia da una vita, verrebbe salvata dalla morte, orribile e vicina, dalla provvidenziale donazione di sangue della stessa congiunta. O di midollo, dipende. E farebbero la pace con una musica piena di pathos in sottofondo, i primi piani e le infermiere commosse tutte intorno.
Al signor Sinagra anziché l’acqua fresca darebbero per errore un bel bicchiere di varechina, scatenando la macchina dell’emergenza fino al tragico epilogo. Si aprirebbe subito un’indagine interna per scoprire il responsabile dell’errore. Gli indizi punterebbero tutti sull’infermiere gentile, che verrà licenziato per poi essere scagionato e reintegrato quando si scoprirà che era tutta una macchinazione ben congegnata dalla cosca nemica. I Cuffaro.
Sarebbe andata nello stesso modo anche se l’uomo avesse chiesto un caffè.
La quasi centenaria, salvata dall’abnegazione di medici e infermieri, deciderà di lasciare i suoi insospettati averi all’amministrazione dell’ospedale. La mamma tornerà a casa circondata dalla riconoscenza dei sanitari, mentre la figlia badante, oberata dai debiti, sarà stroncata da un infarto fulminante prima ancora di poter impugnare il testamento.
Alla vecchietta che frigge con il didietro verrà diagnostica una malattia rarissima al cui studio verranno devoluti i fondi che l’ospedale ha ricevuto in eredità. E arriveranno ministri e medici e studiosi da ogni dove interessati al caso e ai fondi che gli gravitano intorno.
Invece siamo solo a Campostaggia e, a parte lamenti, catarri e flatulenze, non succede un accidente. Niente aerei che cadono sulle scuole o pullman carichi di badanti ungheresi in gita che finiscono fuori strada per un malore dell’autista dopo aver travolto decine di macchine in autostrada. Nemmeno un paziente trafitto da una fiocina durante la caccia allo squalo.
L’infermiere dice. Fino alle 8.30 non si dimette nessuno. Sottinteso, fino a quando non arriverà un medico. Siamo tutti in ostaggio, qui.
Le anziane magre come grissini con le loro figlie dai grossi sederi compressi in pantaloni di maglia nera elastica. Il vecchio Sinagra e un tizio che si aggira da ore con la pancia scoperta chiedendo una flebo. Nessuno si allontani, prego.
Posso avere almeno un antidolorifico? Chiedo, quando mi trasferiscono dalla sedia a rotelle alla lettiga sulla quale passerò la nottata.
Sono qua perché la sera prima, di ritorno dal cinema (c’era il bellissimo ma noiosetto Pinocchio di Garrone) sono inciampata in una buca, in un sasso, non so. Era buio e pioveva e son finita a terra. Ho sentito un rumorino arrivare dal piede, una specie di croc. Ma mi sono rialzata e sono tornata a casa che c’era da accompagnare un’amica. Poi però son dovuta venire qui, in preda a dolori insopportabili.
Alle quattro arriva il radiologo.
Infrazione dell’astragàlo, dice. Domattina la visiterà l’ortopedico.
È una parola piana, allora.
Avrei detto più sdrucciola, vista da terra.
(P.S. La pronuncia corretta è sdrucciola, astràgalo)
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