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I miei Capodanni lontani

Quando ero piccola per l’ultimo dell’anno avevamo sempre degli ospiti. All’epoca abitavamo ancora in Campolungo, nella casa al secondo piano di una palazzina di tre con un corridoio e tante terrazze. 

Gli invitati erano amici di babbo e mamma, per lo più legati al mondo della scuola, ma non solo. L’avvocato Oreste Mattone Vezzi con la moglie Franca appartenevano alla schiera degli amici di gioventù di babbo. Con loro non ho ricordi particolari se non per il fatto che li guardavo con una certa soggezione di bambina, ammirandoli, specialmente la signora, che sfoggiava sempre mise di gran classe. 

La signorina Iser era la maestra di Paola e a lei si devono alcuni dei regali più belli che abbiamo mai ricevuto, dalla bambola Bettina, al pupazzo Giannino, alla Collina dei Conigli, uno dei libri che ho prestato non ricordo a chi, ma che ho ricomprato tanto mi aveva fatto stare con il fiato sospeso. 

La sera della cena l’aria si faceva frizzante e piena di aspettative. Ogni volta che suonava il campanello e babbo andava ad aprire era una festa. Per me era come essere al cinema. Gli ospiti entravano in casa portando con sè l’aria fredda di fuori mista al loro profumo.

Non c’erano altri bambini e i patti erano che mangiavamo e poi a letto. Ma io non volevo mai andare perché avevo paura di perdermi discorsi, risate e brindisi.

I figli li avevano solo i Mattone Vezzi e non li portavano. 

C’era la Direttrice, Anna Betti, con i suoi cappelli di velluto chiusi da uno spillone con la perla. C’era Robusto Solari, che più tardi diventò lui il Direttore. C’erano Mario Cappelli e Gioli, anche lui insegnante e più tardi Direttore dello stesso circolo didattico di Colle.

Il salotto della casa di Campolungo era arredato con i mobili in teak che andavano di moda negli anni Sessanta. C’era il tavolo che si allungava aprendolo a metà e facendo emergere una giunta dal centro. Le sedie erano foderate di una stoffa nera ruvida con delle piccole escrescenze bianche, così come il divano e le poltrone.

C’era un mobiletto lungo poggiato a terra dove si tenevano i serviti da apparecchiatura più eleganti e dei mobiletti appesi al muro con i bicchieri e i liquori. 

L’illuminazione era a parete, con dei lampadari in legno divisi in quadrati. Ogni quadrato poi o era vuoto o aveva la lampadina. Quelli con la lampada avevano una copertura di plastica bianca o nera per gli effetti di luce. 

Sotto il tavolino basso da fumo un tappeto giallo, alle pareti alcuni quadri e delle stampe giapponesi su delle specie di stuoie.

Mamma cucinava, babbo stappava le bottiglie, spalmava i crostini e aiutava ad apparecchiare.

I pezzi forti di quegli anni erano il vitel tonné e l’insalata russa. Una volta c’era il pollo in galantina. Quello me lo ricordo bene perché il giorno prima era venuto un cuoco a casa nostra a prepararlo. Si chiamava Imolo e nei miei ricordi di bambina doveva essere per forza emiliano come la città. Faceva il cuoco in un ristorante a Pancole nel periodo in cui mamma e una sua collega ci insegnavano .

Quel pomeriggio non mi allontanai nemmeno un minuto dalla cucina. Guardavo le mani di Imolo, vestito di bianco, che disossavano il pollo, preparavano il ripieno e infine riempivano la sacca di carne che poi veniva avvolta in un tovagliolo bianco e legato con lo spago prima di finire in pentola a bollire.

Io seguivo tutta la procedura senza perdermi un passaggio e chiedendo perché faceva questo e perché faceva quello. 

Imolo pensava di insegnare a mamma quella ricetta, ma dopo di lui in realtà nessuno ha mai più preparato il pollo in galantina, a casa nostra.

Alle cene di Capodanno si apparecchiava con la tovaglia di cotone rosso ricamata di bianco. I piatti, i bicchieri, i vassoi e le zuppiere erano quelli dei serviti del matrimonio di mamma e babbo. I bicchieri in cristallo erano molati, tutti sfaccettati, e lo spumante si beveva nelle coppe. 

Babbo nel pomeriggio sbucciava un ananas e lo tagliava a fette che adagiava in una insalatiera e ci versava sopra lo spumante. Qualche volta c’erano anche delle ciliegine sotto spirito.

Gioli portava uno dei suoi dolci capolavoro. La Direttrice ci regalava dei libri di mitologia greca e romana dopo aver saputo della mia passione per il mondo degli dei.

Mangiando e parlando si aspettava la mezzanotte per brindare e farsi gli auguri. Io però a quell’ora sarei dovuta già essere a letto da un bel po’. Paola andava a dormire senza fare storie. Io invece mi impuntavo, all’inizio chiedendo, per finire supplicando, che mi lasciassero stare ancora un po’ con i grandi.

Per agevolare il trasferimento in camera da letto, mamma ci vestiva già da notte per la cena ma evidentemente, almeno con me, lo stratagemma non funzionava.

Lo facevo anche per Natale e per la Befana, di non andare mai a dormire perché volevo vedere di persona chi veniva a portare i regali. Babbo era disperato perché non poteva andare a letto e doveva aspettare che io crollassi. Ma questo l’ho saputo solo molti anni dopo. 

In ogni caso anche alle cene di Capodanno a una certa ora ce la facevano e mi mettevano sotto le coperte, dopo che avevo salutato tutti con un bacino. 

La nostra camera era in fondo al corridoio, il salotto subito dopo la porta d’ingresso, sulla destra, e non aveva una porta come le altre stanze. Quella del salotto era a vetrata.

Così io, mentre mi credevano a letto, mi alzavo e mi avvicinavo quatta quatta. Poi mi nascondevo rimanendo accucciata tra il muro e la porta, per poter continuare ad ascoltare.

Pare che una volta, al momento dei saluti, mi abbiano trovata addormentata per terra.

Ma il mio obiettivo l’avevo raggiunto.      

(In foto: l’avvocato Oreste Mattone Vezzi e la moglie Franca, Simona con la bambola Bettina e, dietro, la signorina Iser)

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La Mazda rossa

Nei primi mesi del Duemila comprai la macchina dei miei sogni. Era una cabrio rossa, con tettuccio nero e fari a palpebra, usata. Avevo trovato questa occasione grazie alla segnalazione di un’amica. 

In quel periodo però il lavoro vacillava e non avevo i soldi sufficienti. Mamma si rifiutò di prestarmeli, per lei si trattava di un acquisto del tutto inutile.

Babbo invece disse, ti aiuto io; ti capisco, avrei sempre voluto una macchinina così.

Così portai a casa la Mazda Mx5 1800 rossa fiammante e mentre babbo la guardava ammirato perdendosi nelle rifiniture, mamma sbraitava contro una figlia che viveva al di sopra delle sue possibilità. 

Quando andai dal rivenditore a concludere l’acquisto non la finiva più di congratularsi. 

  • Ora però la deve provare.

Io ero pietrificata. Era una macchina troppo bella per guidarla, avrei quasi preferito farmela trasportare fino a casa per avere tutto il tempo di conoscerla e imparare a guidarla.

Il signore prese le chiavi e si mise dietro al volante. Io, in preda all’emozione, mi sedetti al suo fianco.

Partì.

La concessionaria era già vicina alla campagna. Non ci volle niente ad infilarsi nelle strade secondarie che passavano in mezzo a campi e boschi. La giornata era bella, da poco si era in primavera e l’aria frizzava in mezzo alla natura nel pieno del risveglio.

Era bellissimo sentire il vento che scompigliava i capelli. 

Il tizio però guidava sempre più forte e io morivo dalla paura.

  • Va bene, va bene, ho visto. Ora rientriamo per favore.
  • Voglio insegnarle la guida sportiva. Una macchina così non si guida come tutte le altre. Vede? In curva si accelera. Sente come stanno attaccate alla strada le gomme? Questa macchina è un compasso.

E intanto accelerava e accelerava. E io sudavo freddo, anzi ghiacciato.

Può darsi che alla fine abbia accettato di guidare un po’ anch’io, ma sinceramente non credo, da come mi tremavano le gambe. Di sicuro però per tornare a casa dovetti mettermi dietro al volante.

Durante l’estate andai a lavorare a Pordenone. In macchina c’entrava poca roba, per cui dovetti spedirmi scatoloni di vestiti per posta.  

La tipa con cui coabitai per pochi mesi sembrava un po’ scocciata dalla mia macchina e non voleva darmi soddisfazione. 

  • Non è mica la prima volta che vedo una cabrio, sai. Un amico ha la Golf scoperta e ci sono salita un sacco di volte.

Io facevo finta di niente e la scarrozzavo di qua e di là. Finché cominciò a trovare la scusa del mal di testa. 

Poi capitò che al giornale mi dessero un intero weekend di festa e io, per non dover passare tutto il tempo con lei, andai alle terme di Montegrotto. Una mattina, uscendo dal posteggio, sentii un gran botto. Scesi subito per controllare se avevo sbattuto contro qualcosa, ma la parte posteriore della macchina era perfetta. Mi accorsi dopo che, facendo retromarcia, avevo sbattuto la parte anteriore destra contro un pilone. Un vero disastro.

Per fortuna di lì a poco sarei tornata a casa e avrei fatto rimettere a posto la carrozzeria. Nel frattempo feci di tutto perché la coinquilina non si accorgesse del danno, tanto per toglierle una possibilità di gioire sulle mie disgrazie. 

Nel periodo della Mazda, grazie sempre alla stessa amica, ci fu anche l’innamoramento con Gastone.

Un giorno mi chiamò, mentre faceva la volontaria al canile e mi disse che da loro c’era un setter irlandese bellissimo.

  • Devi venire a vederlo.

A casa avevamo già Vanessa, della stessa razza, per cui cominciai a cullare l’idea di prendere anche lui. Ipotesi alla quale mamma si oppose fermamente.

Gastone però cominciò a venire a casa ogni tanto. Lo facevo sistemare sul sedile del passeggero della Mazda e poi partivo, pregando dentro di me di non incontrare vigili carabinieri e simili e sperando che rimanesse giù accucciato senza alzare la testa.

Ci andò sempre bene.

Alla fine Gastone rimase a casa nostra e mamma ebbe da ridire per anche per il cane, oltre che per il fatto che io continuavo a vivere al di sopra delle mie possibilità.

Anche su questo facevo finta di nulla, salvo riderci con gli amici che mi prendevano in giro ripetendo la frase di mamma per scherzarci un po’ su.

Una volta con una collega partimmo da Firenze con la Mazda alla volta dei colli del Prosecco per organizzare un evento giornalistico. Lei era convinta che non ci saremmo mai entrate in due con i bagagli. Ma io legai il mio trolley al portapacchi fissato dietro e infilai la sua valigia nel bagagliaio. Rimaneva da sistemare la sua pelliccia, che rincantucciammo dietro i sedili.

Alla fine andò tutto bene anche quella volta.

Poi purtroppo arrivò il momento di dare via quella meraviglia di macchina. Già stando a casa mi era diventato abbastanza complicato gestire il trasporto di due cani grandi e ogni volta che andavamo dal veterinario dovevo chiedere in prestito la macchina a babbo o a mamma. 

Poi capitò che dovessi trasferirmi a Belluno per lavoro. A quel punto dovetti farmi forza e rinunciare alla cabrio a favore di una monovolume.

Prima di vendere la Mazda la mia amica Gigliola mi chiese se ci si facevano le foto insieme. 

Babbo fu ben lieto di farcele. E per fortuna, visto che oggi rappresentano un bel ricordo, utile anche per stemperare il rimpianto.

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Mamma e le avventure nella neve

Quando mamma iniziò a insegnare, verso la fine degli anni ‘50, le toccarono incarichi in varie zone della provincia, mai troppo vicini a casa. A Palazzetto, a scuola non avevano nemmeno il telefono. Le comunicazioni dal plesso centrale di Chiusdino arrivavano al bar del paese. Da lì qualcuno correva alla scuola ad avvisare la maestra, che lasciava i bambini da soli e andava a rispondere. Le circolari del direttore venivano consegnate in macchina dal segretario. Mamma aspettava lungo la strada e quando passava prendeva il foglio al volo, come nel Far West all’attesa della diligenza.

All’epoca le auto non erano come oggi. Non c’erano nemmeno le cinture di sicurezza, figurarsi le gomme da neve e altre facilitazioni, tipo servosterzo o servofreno.

Una volta, mentre faceva un periodo di supplenza in una scuola di campagna dalle parti di San Gimignano, nevicò. 

Mamma lasciò la macchina a Pietrafitta e si avviò a piedi lungo la strada che portava alla salita sterrata fino alla scuolina.  

Peccato che quando arrivò, la trovò chiusa, senza che nessuno la avesse avvertita di niente. Fece presente la cosa alla direttrice che richiamò la bidella per non aver aperto l’edificio.

Questa si arrabbiò tantissimo e se la rifece con mamma. Che le disse, ma scusi, lei doveva essere in servizio. Le era stato forse comunicato da qualcuno di non aprire la scuola?

In ogni caso, evidentemente da quelle parti funzionava così. Perché quel giorno, con la neve, a scuola c’era soltanto lei e nemmeno uno dei ragazzi.

Quando entrò di ruolo le toccò il posto a Rapolano. Mamma andava con la sua macchina e portava un’altra insegnante di Poggibonsi. Un giorno nevicò. A quell’epoca era già sposata con babbo ed eravamo nate noi. Al momento di partire l’automobile aveva un qualche problema, forse non aveva le catene, così gliela prestò una vicina.

Fecero tutta la strada senza incontrare anima viva, nemmeno sulla Siena-Bettolle. 

Arrivate alla meta mamma frenò e la macchina andò in testacoda, ma non successe niente di grave. Però la scuola era chiusa. 

Chiamarono la custode perché aprisse la porta. A quel punto arrivarono anche le altre maestre, che erano tutte del posto. I ragazzi invece c’erano già. Da allora a mamma e all’altra insegnante di Poggibonsi furono riservati gli sguardi in cagnesco delle colleghe.

C’era un altro motivo per cui le colleghe ce l’avevano con mamma. 

Essendoci la possibilità di richiedere il doposcuola, lei lo fece e il direttore le disse di sì.

Era un’occasione per i ragazzi, visto che in zona non c’era nulla. Però lo faceva solo la classe di mamma perché le altre maestre preferivano arrabbiarsi con lei per la novità, anziché provare a cambiare qualcosa anche loro. 

Ce l’avevano anche con la maestra che faceva il doposcuola, un’insegnante molto brava.

Mamma la mise in guardia. Mi raccomando, controllali bene i ragazzi, che non succeda nulla, perché lo sai come sono qui. Sono conformisti e tutto quello che è nuovo non gli va bene. Bisogna andare in conformità a quello che hanno sempre fatto. 

Quando tornammo a stare in campagna mamma si appassionò ai lavori in mezzo alla natura. Non stava mai ferma, nemmeno con la neve. Una volta scivolò e sbattè forte a terra. Non si ruppe niente, ma aveva talmente tanti dolori che dovette appoggiarsi alle stampelle per un bel po’, con babbo che le faceva da chaperon e la portava a fare la spesa e tutto il resto.

La volta di Rapolano era una delle ultime in giro per la provincia. Da lì a poco mamma avrebbe scambiato la sede di lavoro con babbo, più vicina, per occuparsi di me e mia sorella. Il giorno che nevicò, quando finalmente tornò a casa, vide babbo sulla terrazza che mi teneva stretta in braccio e guardava all’orizzonte, come le mogli dei pescatori sulla scogliera davanti al mare in tempesta. Sembrava un povero vedovo abbandonato nel grande oceano delle difficoltà. Con figli a carico.

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Gli alberi e babbo

Da una parte del giardino di casa, volendo, si può scavalcare un cancelletto e prendere un viottolino che scende giù ai campi. Il sentiero va diretto all’ultimo pezzo di campo che abbiamo comprato, evitandoci di fare il giro lungo dal cancello. L’anno scorso, quando ancora non avevamo il nuovo campetto, ero scesa giù e avevo raccolto diversi rifiuti dalla piaggia. Vecchie bottiglie, pezzi di plastica, il sopra di una caffettiera di ceramica che ho trasformato in vasetto per fiori. Avevo notato anche che c’erano dei grossi tronchi di albero, tagliati e lasciati lì. 

Con mamma avevamo anche riso di quelli che ogni tanto vengono a darci una mano con la legna, tagliano gli alberi e poi magari li lasciano perché fa fatica portarli su. 

Poi con l’arrivo dell’estate, un giorno che c’era uno degli aiutanti, avevo proposto di andare giù insieme a recuperare questi ceppi. Ma a quel punto l’erba era cresciuta, il sentiero era impraticabile e ci stava anche di incontrare qualche vipera. 

Qualche settimana dopo lo abbiamo pulito, io con la falce, mamma con la zappa, un aiutante con il decespugliatore, e ora ci si passa che è una meraviglia. Ma i tronchi son rimasti giù.

L’altro giorno mi è tornata in mente quella faccenda della legna, dopo che mamma mi aveva detto che aveva già consumato tutta quella che avevo accatastato fuori dalla cucina.

Sono scesa nel pendio e ho cominciato a liberare i tronchi dalla vegetazione, soprattutto rovi, che li aveva avvolti. All’inizio ho usato le mie forbici da potatura, poi mi sono decisa ad andare giù, nel campetto dove vive Rosellina, a prendere la falce fienaia. 

Man mano che pulivo, spuntavano sempre più pezzi di legno. Rami piccoli, medi, tronchi grossi, già tagliati, da tagliare.

A un certo punto ho trovato un pezzo di corda, una cima bella resistente. Ho immaginato che fosse legata a uno dei tronchi con cui qualcuno aveva cercato di tirarlo su. Ho seguito il filo, continuando a tagliare rovi ed erbacce, e alla fine ho trovato il capo. La corda era legata intorno a un tronco di medie dimensioni, con i rami attaccati. Doveva essere un cipresso, c’erano ancora le coccole.

All’improvviso ho capito.

Quello era un lavoro di babbo. L’ultimo. E non è rimasto incompiuto per negligenza.

Successe un 7 novembre di tanti anni fa. Tredici anni fa. 

Babbo stava bene, faceva tutti i suoi lavori intorno casa, di cui, dopo una vita da maestro e negoziante, andava orgoglioso. Motosega, tagliaerba, zappa, accetta. Era instancabile, nonostante l’età.

Quel giorno era andato anche in Piano con il motorino a prendere il pane, come al solito. Poi, dopo pranzo, seduto sulla sua poltrona, l’urlo. 

Io non c’ero. Vivevo sempre a Belluno. 

Fu portato in ospedale con l’ambulanza. Dice mamma che al momento di salire aveva ancora la forza di scherzare con l’infermiera.

Poi ci fu l’intervento, la rianimazione, l’ospedale di comunità. Fino a quando, quasi un mese dopo, il 6 dicembre, mamma mi telefonò al lavoro. Ricordo la sua voce rotta e la botta al cuore.

Tiro la fune ma è ancora bloccata in mezzo ai rovi. Continuo a tagliare e a sfilare rametti cercando di mantenere l’equilibrio sul pendìo scivoloso. C’è un altro capo dello stesso tipo di corda. Porta a un albero ancora in piedi. È legata al tronco a doppia mandata. Riesco a sciogliere la prima. La seconda è ormai incistata nel tronco e coperta di borraccina. 

Sono sempre più convinta, babbo. Questo è proprio un lavoro tuo.

Chissà come ti avrà innervosito non averlo potuto finire. Magari avresti anche voluto dircelo, se ci fossi riuscito. Avremmo potuto farlo fare a qualcuno.

E invece son passati tredici anni e la tua legna è rimasta laggiù sul pendio a prendere l’acqua e ad asciugarsi al sole. 

Sai babbo, forse ora lo sai anche te, ma io credo che il bosco ti faccia pensare strane cose. Mentre seguo la corda che mi porta fino a te, al novembre di tredici anni fa, al primo dolore assoluto e insanabile della mia vita, io immagino che qui non ci sono capitata per caso.

Sì, lo so che non serve fare questi discorsi, che tanto noi che stiamo quaggiù non lo sapremo mai come funziona davvero. È solo che certe cose le pensi più perché ti fa bene pensarle. E poi non fai mica del male a nessuno.

Comunque, l’importante è che ora ho capito come fare. I tronchi li butto giù e poi li recupero con la macchina. Per quelli tagliati a metà si vedrà di farsi aiutare 

Te stai tranquillo, il tuo lavoro lo finisco io.

È una promessa.  

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Il motoscafo

Il giorno che doveva arrivare il motoscafo eravamo tutti in spiaggia ad aspettare. Io, con mamma e Paola, e zia con il mio cugino. Babbo e zio si erano fatti accompagnare in macchina a Follonica per arrivare a Punta Ala via mare.

Alle elementari e alle medie le vacanze estive le passavamo in campeggio in una roulotte che avevamo a mezzo con zio. A luglio partivamo noi, prendevamo posto nella piazzola, montavamo la veranda e il cucinino, e rimanevamo tutto il mese. Ad agosto arrivava zio, con la zia e il mio cugino, e ci davamo il cambio.

Quell’anno fu deciso di comprare un motoscafo. 

Era una grossa novità. Babbo e zio presero la patente nautica in un qualche lago del Settentrione. 

Babbo diventò amico di Amedeo Duca d’Aosta che frequentava il corso insieme a lui e che gli disse, Asvero, chiamami per qualsiasi cosa dovessi avere bisogno. 

La barca era una specie di grossa vasca da bagno in vetroresina, piatta, bianca dentro e gialla fuori, con due panche in legno in orizzontale e un paio di sci d’acqua in dotazione con cui mi sarei divertita negli anni a venire.

Il giorno che doveva arrivare il motoscafo cominciò come una bella giornata di sole, ma il tempo virò ben presto con il cielo che si faceva sempre più grigio e le onde del mare che si alzavano spinte dal vento.

Noi, seduti in spiaggia, aspettavamo fiduciosi di vedere comparire la barca all’orizzonte.

Il tempo passava però e non si vedeva niente. Cominciava anche a fare freddino. Mamma e zia dissero che forse sarebbe stato meglio prenderlo un altro giorno, il motoscafo. Ma restavamo lì ad aspettare e nessuno si muoveva.    

Aspettavamo. Aspettavamo la barca, qualsiasi cosa. Una telefonata, una notizia. 

Perché piangi, mamma?

Perché mi è entrata la sabbia negli occhi. 

A un tratto era diventato tutto grigio, il cielo, il mare e dentro di me.

Stavamo lì, in spiaggia, a guardare il mare, e aspettavamo.

Non ricordo se fu mamma o zia, ma qualcuno andò in direzione per fare una telefonata al venditore del motoscafo. Disse che erano partiti da un bel po’.

Ma noi non li vedevamo arrivare, mentre il mare si trasformava in un ammasso di onde scure e cadde anche qualche goccia di pioggia.

Eravamo sospesi, incapaci di muoverci o fare alcunché se non aspettare.

Aspettare e sperare.

D’un tratto, nel mare plumbeo si stagliò una macchiolina gialla.

Erano loro o volevamo solo che lo fossero?

La macchiolina, in effetti, si avvicinava a riva nella nostra direzione.

Almeno quando riuscivamo a vederla, dietro alla muraglia delle onde che si alzavano dense. 

Sono loro, gridò mamma, seguita subito da zia.

Ma eravamo sicuri? Non riuscivamo quasi a crederci.

A noi bambini bastò un attimo per cancellare la nebbia dal cuore.

Erano loro. Arrivati alla boa scesero dalla barca e con l’acqua alla coscia la tirarono fino a riva con una cima. Erano completamente fradici.

Babbo cominciò il racconto, buttandola sul ridere. Erano partiti da Follonica con il sole ed erano sicuri che ce l’avrebbero fatta prima che peggiorasse. Ma non era stato così. Il mare aveva cominciato a muoversi sempre di più, il vento soffiava contro, ed era difficile procedere in direzione lineare.

Babbo disse che la tentazione per chiunque sarebbe stata quella di seguire le onde. Invece no, le onde andavano affrontate e spezzate di prua. Anche questa era una lezione appresa al corso con il Duca d’Aosta.

Qualcuno arrivò perfino dalla direzione del campeggio ad accoglierli, insieme al bagnino, tutti preoccupati.

Qualcuno disse, mare forza sei. Eh, in certi punti anche di più, disse qualcun altro.  

Non avevo mai sentito quell’espressione, prima di allora, ma nei giorni successivi divenne familiare, insieme a parole come cima e mezzo marinaio.

La barca fu issata a riva e spinta nella rimessa accanto al barrino. Babbo e zio andarono a cambiarsi. Non era rimasto niente di asciutto, nemmeno un fazzoletto. 

Babbo indossava un costume da bagno nero con un taschino interno dove teneva i soldi.

Quando tornammo alla roulotte, al filo dei panni c’erano stesi anche dei fogli da mille lire, la carta di identità e la patente nautica, fissati con le mollette da bucato.  

Rimasi incantata a guardarli, come si fa con i titoli di coda di un film che ci ha fatto stare con il fiato sospeso.

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La giornata della Sacra Ampolla

La mattina del 15 settembre 1996 stavo dormendo nella mia casa di Treviso, era domenica e non lavoravo, quando squillò il telefono. Era la mia amica Raffaella.
“Sono a Venezia in gita con il mio babbo. Ci si vede?”.
Saltai su per la sorpresa. Mi preparai in fretta e furia, salii sulla macchina e guidai fino a Venezia.
In realtà quel giorno, quella era l’unica città in cui non sarei voluta essere.
Era da mesi che ne scrivevamo. Quello era il giorno in cui Umberto Bossi sarebbe arrivato in barca dopo aver navigato lungo il Po per dichiarare l’indipendenza della Padania. Il rito, per il quale erano state scomodate persino le divinità celtiche, sarebbe consistito nel versare da un’ampolla l’acqua del grande fiume nel mare Adriatico, a suggello dell’unione di tutte le terre toccate da quelle acque.
Una pagliacciata che precedeva di alcuni mesi l’assalto al campanile di San Marco (9 maggio 1997), e che si sarebbe ripetuta per diversi anni. Quella era la prima volta. E io avevo avuto la fortuna di essere di corta.
Venezia, già strapiena di turisti, doveva sopportare anche l’assalto dei leghisti, giunti da ogni dove per celebrare il sacro evento.
Mentre camminavamo per le calli, io e Raffaella trascinate dalla folla, ci ritrovammo in Riva dei Sette Martiri, proprio dove erano attesi il Senatùr e la sua sacra ampolla.
Era pieno di gente che sventolava bandiere della Lega Nord.
In acqua i barchini dei fotografi e quelli degli operatori televisivi erano già appostati, nell’attesa del barcone reale.
Io vedo uno dei nostri fotografi e lo saluto sbracciandomi. Ci scambiamo delle battute urlando, per sovrastare il rumore della folla e dei motori. Lui mi fotografa senza che io me ne accorga.
Il caso vuole che il mio sbracciarmi, nell’attimo dello scatto, vada a coincidere con lo sventolamento di una bandiera enorme da parte di una camicia verde, subito dietro di me.
Ricordo ancora le prese in giro dei colleghi, qualche giorno dopo, quando la foto arrivò in redazione.
Per la cronaca, io sono quella vestita di marrone, gonnellina e magliettina, nell’anno della mia magrezza, che sembra sventoli la bandierona. Quella in maglia gialla alla mia sinistra è Raffaella. Quanto io fossi scalmanata lo si intuisce dallo sguardo della tipa in maglia bianca accanto a me, che sventola una bandiera più piccola. In realtà tengo solo un giubbottino di jeans sul braccio sinistro.
Insomma Raffa, alla fine ci siamo trovate a fare parte della Storia anche noi.

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A pranzo con Luzi, ovvero un’occasione sprecata

Mi disse: “Quindi lei è di Colle Val d’Elsa, come il mio amico Romano Bilenchi”. 

Pensai che babbo era andato a casa sua, di Bilenchi, a Firenze, con mamma, poco tempo prima. Forse voleva chiedergli la prefazione del libro che stava per pubblicare. Andò anche Paola. Babbo la convinse dicendo che le avrebbe fatto conoscere una persona molto intelligente. Lei invece voleva stare a casa per rispondere alla lettera di un’amica francese. Trovarono un vecchio, malato o forse ipocondriaco, che si misurava la febbre di continuo e si lamentava di non avere più la soglia del dolore. Parlava solo dei suoi mali e dei libri pareva non importargli più. Poco dopo quell’incontro arrivò una sua lettera a casa. Diceva che non ce la faceva più a scrivere e così niente prefazione. Credo fosse l’anno del Gelo, l’ultimo che ha scritto.

Quel giorno al ristorante alle Logge, da Gianni, mi avevano fatta sedere accanto a Mario Luzi. A capotavola era andato Italo Dall’Orto perché Luzi non ci voleva stare. La mattina c’era stato un incontro in aula magna, in via Fieravecchia, e Dall’Orto aveva letto le sue poesie. Era l’anno del Battesimo dei nostri frammenti, un titolo che non si dimentica. 

“Superflua è quella grammatica./ La metafora è già./ Sei tu la metafora./ Lo è l’uomo/ e la sua maschera”.

Dall’Orto aveva una scuola di teatro a Firenze, mi dissero. Forse Anna mi suggerì di parlarci, di chiedergli qualcosa su quella mia idea, abbastanza vaga a dire il vero, di fare teatro. Forse lo feci. Forse lui mi disse vieni e vedi com’è. Ma mi disse anche che era una cosa di impegno e fatica. Tanta fatica. Forse non me la sentii. E accantonai anche quel sogno. Forse mi dissi che avrei preferito andare da Gassmann. 

Vittorio Gassman lo avevamo visto ai Rinnovati in Affabulazione di Pasolini, con il figlio Alessandro, che aveva forse vent’anni e i capelli tagliati corti, tutti ritti e ossigenati. Me ne innamorai disperatamente. Pasolini lo studiavamo a storia del cinema, con Lino Micciché, ma anche a storia del teatro con Sergio Micheli. Fu lui a portarci a vedere Affabulazione, che era uno dei testi del teatro di parola. 

Anna era la Panicali. Con lei avrei preparato la tesi di laurea. Forse era per questo che mi aveva invitato al pranzo con Luzi e mi aveva detto tu siedi qui accanto a lui. Forse a quel pranzo c’era anche un’altra studentessa, una di quelle serie, non come me. Poi c’era Gianni Scalia, naturalmente, titolare della cattedra di letteratura italiana. Sarebbe stato lui il relatore della tesi se non avesse dovuto lasciare l’università per la malattia. Facemmo in tempo però a decidere titolo e argomento, una cosa quasi sconosciuta di Pasolini, una sera seduti a un tavolino di un bar in piazza Maggiore a Bologna con Laura Betti vestita di viola. Ero là in visita a un’amica e quella sera assegnavano il premio Pasolini. Lo vinse un compagno di università, si chiamava Graziano, forse. Un ragazzo alto, magro, biondiccio che stava sempre sulle sue. Forse anche quella sera, quando gli feci i complimenti. Forse c’era anche lui a quel tavolo, da Gianni alle Logge. 

Allora, vediamo: Luzi, Dall’Orto, Panicali, Scalia, l’altra studentessa, io. Mi pare fosse un tavolo da otto. Forse c’era quel Graziano lì, o forse Romano Luperini o la Ginevra Bompiani.

Forse avevano aggiunto una sedia. Era il periodo d’oro di Gianni alle Logge, che era amico della Nannini che si fermava spesso nel ristorante dietro alla curva di San Martino. Lei aveva un appartamento poco più in là, nel Porrione. Da lui si mangiava anche la carne alla tedesca. Mi pare che fosse la moglie, la cuoca, che era tedesca. Nel maiale arrosto ci metteva la marmellata di mirtilli o quella di lamponi.

Mario Luzi era magro e quasi trasparente. Si sarà chiesto perché gli avessero messo accanto quella ragazzetta chiacchierona dai capelli rossi. Sicuramente non perché ero di Colle Val d’Elsa, come il suo amico Romano Bilenchi.

Forse perché, se fossi stata più furba, o forse solo più studiosa, avrei potuto trarre qualcosa di importante da quell’incontro.

E invece nemmeno al corso di Italo Dall’Orto, andai. Nemmeno.  

Da sinistra: Mario Luzi, il secondo; Pasolini, l’ultimo.
(Foto presa in prestito dal blog ricordandoacaso.myblog.it)


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Una storia vecchia di via Fieravecchia

Era un ragazzino gracile, biondo, stava sempre da solo e parlava con l’accento del nord, particolare che al tempo, all’università di via Fieravecchia, lo rendeva una persona speciale. Non credo di aver mai saputo come si chiamava. Seguiva un corso che seguivo anche io, mi pare una qualche letteratura italiana di Romano Luperini. Si parlava di Verga, di Gadda, e di altri autori. Non ricordo su che cosa vertesse la lezione di quel giorno, ma a un tratto lui si alzò e disse “bisognerebbe approfondire invece i fatti del 7 aprile”. Non ricordo nemmeno la risposta del prof, ma avrà detto probabilmente lo faremo in altro luogo e altro tempo, cose così.
Avevo 20 anni e non un’idea su che cosa fosse quel 7 aprile lì. Non avevo un’idea nemmeno su come scoprirlo. Erano i primi anni Ottanta, la cultura ci si costruiva su libri, giornali e frequentando gruppi impegnati. Non c’era internet, non c’era wikipedia.
Nell’aula di storia del teatro c’erano ancora delle scritte sul muro, la marijuana rende liberi, o qualcosa del genere, e una foglia enorme di canapa disegnata. Noi seguivamo le lezioni, il teatro grottesco, gli espressionisti tedeschi e non sapevamo niente di tutto quello. Ci sono ancora i segni del passaggio delle manifestazioni del ’77, diceva qualcuno.
Nel ’77 avevo 14 anni e non mi ero accorta di niente. Pensavo ad altro, e le notizie del telegiornale erano solo delle parole che uscivano da una scatola luminosa, niente a che vedere con la mia realtà. Come gli anni di piombo, le gambizzazioni, gli omicidi. Degli espropri proletari ce ne aveva parlato la prof di italiano alle medie. Per il resto non ricordo che si parlasse di politica a scuola, a parte la discussione in classe, al liceo, sulla targa per Aldo Moro e un’autogestione fatta come fosse una festa.
Ho vaghi ricordi di assemblee in palestra con gente che discuteva con foga, poi le litigate con il preside che staccava i microfoni e quel senso di incertezza, e ora che succede, la rivoluzione.
Che differenza fra i ragazzi grandi e noi piccini. Noi che durante le assemblee scrivevamo sui nostri diari con i pennarelli colorati e attaccavamo gli adesivi di Holly Hobbie che compravamo a Firenze da Calamai. Loro invece sapevano cose che noi non ci immaginavamo nemmeno e urlavano e lottavano per qualcosa che in fondo ci riguardava ma che non capivamo.
Qualche tempo dopo, la scritta nell’aula di teatro fu coperta con la vernice bianca e fu inaugurata la parte di là della strada, con accesso da via Roma. Il palazzo di San Galgano era nuovo e bellissimo, con le pietre a vista e i vetri colorati. Bastava attraversare un corridoio con le vetrate per rientrare in via Fieravecchia. Le lezioni a lettere si tenevano in un’aria tutta nuova.
Al corso di Luperini veniva anche una ragazza bionda con i capelli corti e mossi e grandissimi occhi azzurri. Si chiamava Orsetta. Quando entrava in classe, il ragazzo del 7 aprile si voltava, sorrideva e il viso gli si accendeva di luce. Lo vedevo bene perché ero seduta dietro di lui.
Oggi da Wikipedia posso sapere tutto di quel 7 aprile del 1979. Ma la bellezza di quel viso che si illuminava di gioia quando arrivava Orsetta posso trovarla solo nella memoria. E nel ricordo sento come una mancanza, una nostalgia dal sapore amaro.

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Il mio primo gatto: una storia rock

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Il mio primo gatto era una femmina grigia tigrata e si chiamava Freeday. Ah, Giorno Libero, dicevano tutti. Salvo poi aggiungere: ma perché? Qualcun altro azzardava. Ah, Venerdì. Ma non si pronuncia fraidei? No, no, spiegavo io, che all’epoca ero ancora paziente e simpatica, si chiama proprio così. Fridei.

Al tempo avevo diciotto anni e stavo con un ragazzo con cui ogni tanto capitava di discutere e stare un po’ lontani. Un giorno capitò e io, presa dalla tristezza della solitudine, inforcai il mio motorino, un orribile Garelli rosso con il serbatoio sotto al sellino, e mi lanciai alla volta di San Gimignano. Sola, triste e abbandonata. A diciassette anni e mezzo.

Mollai il motorino da qualche parte e mi arrampicai sulla Rocca in cerca di silenzio per meditare sul senso della vita.

Fu lì che, in mezzo alle erbacce e alle pietre medievali, vidi traballare sulle zampette un gattino minuscolo, grigio tigrato. Miagolava disperato. Sembrava essere anche lui in cerca di qualcosa. Forse più di un po’ di latte che del senso della vita.

In quel momento non avevo niente per lui, però una cosa la feci. Lo presi in collo e lo accarezzai. Poi lo infilai nella mia borsa di vimini a forma di bauletto (la moda spesso fa brutti scherzi) e me ne tornai a casa. Ricordo il viaggio da Sangi a Colle, diciotto chilometri traballanti, con quella testolina che spuntava dalla borsa appoggiata sulle mie ginocchia. Riuscii a sopportare i suoi miagolii disperati per tutto quel tempo e finalmente arrivai a casa.

Non stavamo ancora in campagna ma ci saremmo trasferiti a breve. Fu proprio quello il motivo che mi spinse a prendere un gattino, fino a quel momento cosa assolutamente vietata da babbo e mamma. Quando lo videro non posso dire che fecero proprio una festa, però furono abbastanza tolleranti.

Poi, non appena facemmo pace, lo feci vedere al mio ragazzo. C’era anche da mettergli un nome. Cominciammo a pensarci su. Rocca, proposi io. Per ricordare il posto dove era stato preso.

Bocciato.

In quel periodo ascoltavamo ripetutamente una cassetta registrata. “Three days, three days of peace and music” urlava lo speaker aprendo la tre giorni di Woodstock.

Ora, non so bene come dirlo, ma bisogna mettersi anche nei panni di chi viveva in quell’epoca, i primi anni Ottanta. L’inglese era una lingua che veniva insegnata a malapena a scuola, la maggior parte delle sezioni erano di francese e i genitori che volevano iscrivere i propri figli a inglese alle medie dovevano accamparsi fuori fin dalle 4 del mattino.

I dischi erano in vinile, le cassette tarocche dei grandi classici del rock venivano custodite come gioielli rari, avevamo in casa i telefoni con la rotella guardati a vista dai genitori (qualcuno ci metteva anche il famoso lucchetto). Insomma, non sapevamo niente di niente anche se ci provavamo con tutti noi stessi.

“Perché non lo chiami frideis, come dice qui?” disse lui riavvolgendo il nastro fino all’urlo dello speaker.

“Ma che vorrà dire? Venerdì non è fraidei?” dissi io, che ero stata costretta da mamma a seguire alcuni corsi di inglese e sapevo dire open the window e the cat is on the table.

Riascoltammo le parole distorte dall’eco degli amplificatori con il sottofondo delle chitarre elettriche. “Three days…”

“Ok, dice freedays, il resto non importa”. Non importa nemmeno spiegare che confondemmo la th fricativa inglese con una banale effe italiana.

Bene, lo chiamo Freedays allora, decisi. Dopo qualche giorno però tolsi la s, che era decisamente di troppo. Freeday.

E così oltre a un gatto ora avevo anche una storia da raccontare a tutti quelli che mi chiedevano perché un nome così.

 

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io canto da sola

stamani nevica. ma nevica sul serio.
i fiocchi cadono e attecchiscono a terra, sulla strada.
vado in piscina a piedi, in tenuta da montagna. come sempre, ma stavolta anche le scarpe

mentre cammino sulla neve cercando di non scivolare mi torna in mente una nevicata di tanti anni fa
ero ragazzina e la neve per me, in toscana, era sempre una sorpresa

ricordo che quel giorno stavo tornando a casa a piedi e dovevo attraversare un piccolo campo
era tutto bianco e silenzioso, ovattato

il mondo sembrava essersi fermato
mi venne voglia di cantare, come se fossi veramente sola
e, ricordo, saltellando sulla neve fresca del campetto prima di arrivare a casa, cantai a squarciagola
non ricordo che cosa cantai ma ricordo che provai una sensazione di libertà e felicità tanto che tornata a casa lo raccontai a mamma
e lei mi disse, pur attenta a non farmi rimanere male, che dovevo fare attenzione a quello che facevo fuori, che qualcuno avrebbe potuto non capire e pensare chissà che
non capii bene ciò che voleva dire
pensai a che cosa avrei pensato io se avessi visto qualcuno cantare nella neve

e che cosa avrei dovuto pensare?
boh?

però la frase mi è rimasta impressa dentro

poi c’è stato un periodo in cui gli amici mi chiedevano di cantare
mi ero imparata la carmen a memoria e alle feste c’era sempre qualcuno che la reclamava
l’habanera, ovviamente
ma anche près de remparts de seville o quella bellissima del ballo delle nacchere quando carmen seduce don josè che però deve rientrare al battaglione perché suona la ritirata e lei si incazza di brutto
vabbè, la so tutta a memoria praticamente

allora dicevo che c’erano delle feste, era il periodo dell’università, in cui cantavo come una star con i miei amici che mi chiedevano la carmen
cavolo, a ripensarci ora non mi pare nemmeno sia mai successo

comunque, abitavamo già in campagna, e quindi non era un problema
si cantava, si ascoltava la musica, si faceva ciò che ci pareva (con la paziente tolleranza dei miei)

qualche volta tornavo a casa in motorino
sulla strada in salita e a curve che il mio garelli (ecco, quando tutti avevano il ciao il sì o il bravo io avevo un orribile modello con il serbatoio sotto al sellino) affrontava di petto ogni tanto mi ritornava la voglia di cantare a squarciagola, come se fossi sola
intorno a me avevo solo la campagna, gli alberi, la strada in salita sotto alle ruote del motorino
e io cantavo
la carmen, per lo più
a volte anche qualche altra canzone

un giorno babbo mi disse che desiderio, il contadino che viveva nella casa prima della nostra, al curvone sulla salita dei pini, gli aveva detto: “sento la tu’ figliola che canta quando passa in motorino… bene, ci mette allegria in mezzo a tutti questi musoni”
meno male

anni dopo, a new york, tornavo a casa dalla discoteca sotto una nevicata
era mattino presto, tipo le 5
la discoteca era in centro, midtown, la casa downtown, zona torri gemelle, sei anni prima dell’11 settembre
per un tratto mi accompagnò un amico turco, poi proseguii da sola
era tutto così bello
la neve che cadeva sulle strade e sui tetti delle case di manhattan
ero così felice che non avevo nemmeno paura
mi sentivo intoccabile
però quella volta non cantai
non ad alta voce almeno

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