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Il suonatore di sitar

L’insegnante di yoga che seguivo a Belluno ogni tanto organizzava delle pratiche free all’aperto. Questo accadeva con l’arrivo della bella stagione, in genere alla chiusura dei corsi. Un anno la giornata fu organizzata al parco di Villa Montalban. Come al solito l’evento era aperto a chiunque, per cui le mamme portavano i bambini e qualcuno veniva con amici e fidanzati. 

L’appuntamento era per la mattina intorno alle dieci, dieci e mezzo. La pratica yoga durava un’oretta e mezzo, dopo era previsto un picnic sul prato con cibo e bevande da condividere.  

Quell’anno c’era una novità, una delle ragazze aveva un amico che suonava il sitar. Era stato invitato anche lui per intrattenerci con la sua musica prima di pranzo.

Per fortuna la giornata era bella, che a Belluno non è mai detto, per cui la pratica di yoga filò che era una meraviglia. Dopo un’ora e mezzo tutti concentrati in silenzio sugli esercizi, ci sarebbe stato bene anche un aperitivino.

Ma toccava al ragazzo del sitar. Per cui, dopo aver steso dei teli su cui furono disposti i cibi, i piatti e le bevande che ognuno aveva portato, ci apprestammo ad ascoltare, ancora in silenzio, ancora concentrati, quella musica indiana suonata apposta per noi.   

Io mi appoggiai ad un albero, sempre seduta a terra, e mi lasciai pervadere dalle note vibrate che uscivano dallo strumento mentre mi perdevo nei miei pensieri. 

Passò un po’ di tempo in cui stavamo tutti zitti e rilassati mentre il tipo suonava. 

E suonava.

I bambini in realtà non erano affatto rilassati. Uno ad uno avevano cominciato ad agitarsi, dai più grandi ai più piccoli e le mamme cercavano di tamponare la situazione distribuendo carote crude o cracker. La cosa sembrava funzionare, sul momento, ma dopo un po’ tornavano subito ad agitarsi e le mamme con loro.

Ogni distribuzione di cibo o di acqua però veniva fatta in silenzio, cercando di non disturbare il musicista e di non rompere l’atmosfera che si era creata.

Anche io cominciavo ad avere un po’ fame, a dire il vero. Ma non avendo la mamma a cui chiedere cracker o carote crude, mi consolavo pensando che presto sarebbe finito anche quel concerto e ci saremmo messi a mangiare.

D’altra parte non era mica un problema aspettare una mezz’oretta. 

Il tempo però passava, il tipo continuava a far vibrare le corde del suo sitar, le mamme e i figli erano sempre più agitati, le persone cominciavano a guardarsi, timidamente, con aria interrogativa, ma niente. Il tizio continuava a suonare.

Cercai di attirare lo sguardo dell’insegnante di yoga. Niente. Se ne stava seduta a occhi chiusi beandosi di quella musica. 

Una musica che sinceramente mi stava cominciando a dare anche un po’ sui nervi. Altro che relax.

Intanto il tempo passava, il buco nello stomaco si allargava e quello continuava a strimpellare quel cavolo di sitar.

L’una e mezzo era già passata e quel suono vibrante, lagnoso e sempre uguale a se stesso continuava. Cominciai a temere seriamente che la loro concezione ciclica del mondo investisse anche la musica. Senza inizio e senza fine. Ohimè.

Intanto l’insegnante aveva aperto gli occhi. Riuscii ad incrociarli e le feci un segno con le dita a forbice. 

Lei alzò le spalle, come dire, che vuoi farci.

Mi alzai e andai a parlarle all’orecchio. 

  • Credo che sia l’ora di mangiare, vedi i bambini come sono agitati. E anche i grandi…
  • Ma non si può, sta ancora suonando.

Si erano fatte le due. 

Non ricordo se fossi più disperata, infastidita o affamata. Ma credo un mix in parti uguali di tutte e tre le cose. Forse anche qualcuna in più.

Alla fine, intorno alle due e mezzo, non ricordo come e per merito di chi, il sitarista si zittì e noi potemmo finalmente alzarci, sgranchirci le gambe, parlare un po’ tra noi e, soprattutto, mangiare. 

Penso che la volta che mi verrà voglia di scrivere un libro giallo, il primo mistero da risolvere riguarderà l’omicidio di un suonatore di sitar. 

Più di qualcuno, ne sono certa, tirerà un sospiro di sollievo. 

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Noi siamo zingarelle…

La seconda estate che mi chiamarono a lavorare a Rovigo la solita agenzia mi trovò una casa minuscola. Era nel sottotetto di un condominio a due passi dal centro. C’era tutto. Tavolo, sedie, divano letto, armadio, cucinetta e bagno. In ventidue metri quadrati. Il bagno era fin troppo grande, però a differenza del soggiornocucinacamera ci si muoveva bene. La cucina era uno di quei mobili compatti che contenevano pensili, frigo, fornelli, acquaio. C’era anche una bella finestra larga come la parete, su in alto, che dava su una falda del tetto. 

Il divano letto era posizionato sotto la finestra e, considerato il caldo di Rovigo, quando ero a casa stavo sempre svestita. 

Un giorno alla finestra comparve un uomo. 

Camminava sul tetto, tirando un filo o non so che. 

Io urlai e tirai le tende, ma lui nemmeno mi considerò. 

Il padrone di casa poi mi disse che era il solito inglese che saliva spesso sul tetto per sistemare l’antenna o con altre scuse, ma che stessi tranquilla che era innocuo. 

In ogni caso un po’ mi infastidì pensare di non essere più del tutto libera nella mia microcasetta. 

Dopo un po’ però non ci pensai più. 

In quel periodo stavo terminando di scrivere la mia tesi di laurea. Ero al terzo relatore, dopo che il primo mi aveva abbandonato per malattia e il secondo era morto. Questo invece era vivo e vegeto e sembrava che fosse arrivato il momento di chiudere il capitolo università. 

La tesi stava tutta nella memoria di un computer portatile, una rarità per l’epoca, che avevo comprato a prezzo di favore tramite il giornale quando ero collaboratrice. Internet non era ancora diffuso e si usavano i floppy disk. Il computer aveva un modem che tramite il filo del telefono permetteva di trasmettere i pezzi in redazione. 

Un giorno tornai a casa in Toscana per il weekend e lasciai il computer nel micro appartamento. 

La domenica sera, al rientro, mentre salivo l’ultima rampa di scale trascinando il trolley, notai qualcosa di strano alla porta. 

Era socchiusa.

Una specie di nebbia mi avvolse la testa mentre il cuore accelerava i suoi battiti.

Senza pensarci un secondo mi precipitai dentro. 

Il computer era lì, al suo posto, nella valigetta in terra accanto all’armadio, dove l’avevo lasciato. La borsa era stata aperta ma il contenuto era intatto.

Sospiro di sollievo. 

Era quella la cosa più preziosa che avevo in quel momento.

La cucinacamerasoggiorno pareva a posto. Andai in bagno. Qualcuno aveva rovistato fra le spazzole e aveva perso un laccetto per capelli. 

Però non mancava niente. 

Chiamai il 113 e poco dopo arrivarono i poliziotti della volante. 

Il problema vero era la porta. La serratura era stata disfatta e non potevo chiuderla. I poliziotti mi chiesero se avessi un altro posto dove andare per la notte.

Non ce l’avevo. 

Ma ero talmente stanca che mi sentivo tranquilla. Avrei bloccato la porta con una sedia. Il giorno dopo avrei pensato a come risolvere, ma in quel momento volevo solo dormire. 

La mattina chiamai il padrone di casa informandolo di quello che era successo. Disse che ci avrebbe pensato lui a fare risistemare la serratura. Lo ringraziai.

Durante il giorno, poi, mentre ero al lavoro, mi chiamò per dirmi che era tutto a posto, l’intervento era costato all’incirca ventimila lire ma che, anche se sarebbe toccato a me pagare, non me le avrebbe chieste. 

Avrei voluto anche vedere, la porta di quella casa era di carta velina! 

Durante il giro di nera della mattina, quando entrai con il collega dell’altro giornale nell’ufficio delle volanti, il capo mi guardò e si mise a ridere. 

Aveva letto dell’intervento sul mattinale e sapeva già tutto. 

Mi disse che avevo sbagliato a chiamare il 113 dopo essere entrata in casa, avrei dovuto farlo prima. Le ladre potevano essere ancora dentro e la situazione poteva farsi pericolosa. Dalla tipologia del colpo, disse, dovevano essere zingarelle che cercavano ori e gioielli ma a cui non importava niente di un computer (a differenza dei tossici) che non avrebbero saputo come rivendere. 

E meno male.

Almeno quella andò bene, alla fin fine.  

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Una bottiglia di Franciacorta

Quando rientrai al giornale, dopo essere stata lontana per quasi due anni, sembrò il caso di fare una festicciola per amici e colleghi. 

In realtà c’era ben poco da festeggiare. In quei due anni avevo iniziato a collaborare con un giornale che mi piaceva molto di più per lo stile, il nome e altri motivi. 

Ma tra un lavoro da esterno con zero garanzie economiche e future e un posto fisso con regolare stipendio, non c’era storia. 

Quel posto lo avevo ottenuto grazie alla sentenza di un giudice, dopo essere stata sballottata per un decennio qua e là che nemmeno una pallina da ping pong. 

Ricordo il giorno in cui l’avvocato mi chiamò al telefono per comunicarmi la vittoria. 

L’improvviso dolore al petto e quella domanda, ma devo proprio rientrare là, non potrebbero darmi dei soldi e chiuderla così? 

No, non era possibile. 

Ricordo anche quello che indossavo, quel giorno. Pantaloni verde militare Sisley a mezzo polpaccio con cinturina di cuoio e maglietta coordinata. 

Dopo pochi minuti ero già a letto. Stentavo a muovermi. I muscoli si contraevano, fino a diventare rigidi e immobili. Fui assalita dal mal di testa, un dolore sordo che dall’alto si irradiava lungo la colonna dandole fuoco e poi le braccia e le gambe. 

Rimasi così per cinque giorni. Quasi paralizzata, in preda al dolore. Impossibilitata a muovermi, ad alzarmi, a mangiare, a pensare, a fare qualunque cosa.

Al quinto giorno, su insistenza della redazione per la quale lavoravo, accettai di alzarmi e andare a seguire una conferenza. Indossai lo stesso completo verde militare. Camminavo piegata in avanti, quasi a novanta gradi, ancora in preda a dolori e a un persistente giramento di testa. La schiena non si raddrizzava e le gambe facevano fatica a muoversi. Mi feci forza e riuscii ad arrivare. 

Dopo qualche settimana ci fu la festa. 

Nel frattempo ero stata a casa in Toscana ed ero tornata su con forme di pecorino di varia stagionatura e salumi. Mi misi d’accordo con il proprietario dell’enoteca in cui avrei invitato amici e colleghi. Gli lasciai formaggi e salumi, che lui avrebbe tagliato e disposto in vassoi. Il pane sarebbe arrivato dal forno vicino. Lui avrebbe preparato prosecco e vino rosso, oltre ad acqua e altre bibite, a volontà. 

Concordammo un prezzo che, insieme alla spesa già fatta a casa, rendeva quella festicciola un investimento di un certo rilievo. 

Pazienza, avrei ammortizzato con i primi due o tre stipendi.

La sera stabilita, era la metà di giugno di una quindicina di anni fa, arrivarono amici e colleghi. Fu una serata piacevole, tutto sommato. Passarono diverse persone a salutare, a bere un bicchiere, a mangiare un boccone. Due colleghe stettero un po’ in disparte a un tavolino insieme a due politiche locali, ma andava bene anche quello. 

Finimmo abbastanza tardi. 

Il giorno dopo passai dall’enoteca per saldare il conto. Il proprietario mi porse lo scontrino a occhi bassi mentre, con l’aria imbarazzata ripeteva, eh hai visto come son fatte, son fatte così. 

Non capivo a cosa si riferisse. Poi lessi lo scontrino. Erano battute due cifre, quella pattuita, più un’altra di qualche decina di euro. 

Continuavo a non capire.

Lascia stare, ci sono rimasto male anch’io, ma che ci vuoi fare…

Insomma, alla fine venne fuori che le tipe del tavolino, non soddisfatte del vino servito, avevano ordinato una bottiglia di Franciacorta facendola segnare sul mio conto. 

Ancora oggi penso alle migliaia di cose che avrei potuto fare e dire anziché quello che ho effettivamente detto e fatto. 

Cioè, stare zitta e pagare. 

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Una sera al Maurizio Costanzo Show

Tantissimi anni fa andai anch’io al Maurizio Costanzo Show. Ero stata invitata dal mio amico David, con il quale ogni tanto collaboravo (aveva aperto un’agenzia giornalistica insieme a un altro David e a un altro collega) dopo la chiusura del giornale di Siena. David era riuscito a far inserire tra gli ospiti del Costanzo Show un tizio che girava intorno all’agenzia, che aveva da raccontare una storia veramente fuori dal comune.Il tizio, del quale non ricordo il nome né la nazionalità (svizzera o tedesca, mi pare), era una specie di Indiana Jones, capelli biondi lunghi spettinati, stivaloni da cowboy e gilet da fotografo, che una volta all’anno partiva alla volta del Rio delle Amazzoni e viveva nella foresta per alcuni mesi a contatto con le popolazioni indigene. Il motivo principale di un’avventura così totalizzante era la ricerca dell’oro.Come i pionieri che setacciavano febbrilmente i greti dei corsi d’acqua in California e in Alaska nella corsa all’oro della seconda metà dell’Ottocento, così il nostro eroe scandagliava i ruscelli della foresta equatoriale, trovando anche diverse pepite.   Quando tornava in Europa, poi, cercava di vendere la sua storia a giornali e tv. Con questo intento era arrivato fino a Siena dove aveva incontrato l’agenzia del mio amico che aveva cominciato a lavorare per promuovere le sue avventure.Così si era concretizzata l’ospitata al Maurizio Costanzo Show.A dire il vero non ho particolari ricordi dell’evento. Qualche vaga impressione mi è rimasta delle poltroncine di velluto (azzurro carta da zucchero o rosse?). La cosa che ricordo in modo più nitido è l’ingresso del teatro dei Parioli, con la discesina. Forse perché poco distante c’era stato l’attentato proprio a Maurizio Costanzo. O forse perché non si capiva quale fosse la nostra entrata. Passate davanti, no dietro, dall’ingresso artisti.Quel viaggio in realtà lo avevo rimosso. Solo l’altra sera, dopo aver appreso della scomparsa di Maurizio Costanzo, pian piano ha cominciato a riaffiorare alla mente.All’epoca non mi faceva né caldo né freddo andare ad assistere a un evento televisivo che attirava l’attenzione di milioni di persone. Non che oggi ci metterei la firma, ma credo che lo vivrei con una maggiore consapevolezza.Tra l’altro, oltre a non amare affatto i talk show, ricordo che criticavo sempre babbo perché stava attaccato alla tv ogni volta che c’era Maurizio Costanzo.Il nostro cercatore d’oro invece lo ricordo abbastanza bene. Tra l’altro dovrei avere ancora la cartellina con il materiale che lo riguarda, una serie di appunti e di fotocopie a colori di lui che setaccia un torrente, di lui con degli indigeni, di lui con delle testine umane essiccate che la tribù dei tagliatori di teste gli aveva donato in segno di rispetto e accettazione.Quella storia mi fu regalata da David e me la rimbalzai per un bel po’ tra le mani. Dopo il Maurizio Costanzo Show pensai che potesse interessare a qualche giornale di tiratura nazionale.La proposi al direttore di Donna di Repubblica, che all’epoca era il mio magazine preferito. Il direttore si chiamava Gigi Riva e la prima volta che lo sentii al telefono gli feci un’originalissima battuta sull’omonimo giocatore del Cagliari, che però, devo dire a mia discolpa, era veramente il mio idolo quando ero piccolina. Purtroppo la negoziazione non andò a buon fine e Donna di Repubblica alla fine non pubblicò la storia del cercatore d’oro amico dei tagliatori di teste del Rio delle Amazzoni.Peccato.A parte il fatto che ho un altro piccolo, pittoresco fallimento da raccontare.   

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Una notte all’hotel de la Poste

Qualche anno fa, per un breve periodo, lavorai per l’inserto regionale del Corriere della Sera come corrispondente da Belluno. Furono mesi molto belli e stimolanti, anche se la mia vita quotidiana non era affatto facile.

Era tutto un modo diverso di lavorare, rispetto al giornale di sempre, dove i ruoli erano abbastanza rigidi e qualunque cosa facessi rimanevo sempre l’ultima ruota del carro.

L’altro quotidiano invece era nato da poco, intendo l’inserto regionale, e c’erano molte più possibilità di misurarsi con sfide più importanti.

Una volta, per esempio, mi mandarono al congresso veneto di Forza Italia a Cortina d’Ampezzo, dove mi ritrovai accanto al super inviato di politica e ad altri giornalisti di spicco.

Per convincermi ad accettare, dalla redazione, sentendo la mia titubanza, mi dissero che avrei dormito una notte all’hotel de la Poste.

  • Quando ti ricapita un’occasione così?

Non fu quello il motivo che mi convinse a dire di sì, che di dormire negli alberghi, di lusso o meno, me ne è sempre importato poco. Anzi, a dire il vero l’ho sempre trovato piuttosto stancante, oltre che rumoroso. 

Il primo giorno filò abbastanza liscio. Seguii gli interventi, presi appunti e alla fine spedii il mio pezzo in redazione.

Poi andai a cena con un collega. Quindi fu la volta di provare l’ebbrezza di dormire una notte all’hotel de la Poste.

Salii al piano della camera che mi era stata assegnata con il mio bagaglio leggero, camminando per i lunghi corridoi dai pavimenti in legno ricoperti di tappeti, passando davanti a concierge e fattorini in livrea.

Aperta la prima porta d’ingresso alla camera, dopo un piccolo spazio, ce n’era una seconda. Pensai che avrei dormito benissimo, visto che il mio sonno sarebbe stato protetto dalla doppia porta che avrebbe isolato eventuali rumori provenienti dal corridoio.

Sistemai le mie cose e mi infilai sotto le coperte. 

Non ricordo se notai subito un’altra porta sulla parete di fronte al letto, ma sicuramente non ci feci troppo caso.

La giornata era stata lunga e impegnativa per cui mi addormentai in poco tempo.

A un certo punto mi svegliai di colpo al suono di una voce, tanto alta quanto vicina. Era un tizio che parlava, anzi urlava, al telefono. La cosa più impressionante, oltre al fatto che fosse già passata l’una di notte, era che il tizio sembrava fosse quasi in camera mia.

Accesi la luce e vidi la porta nella parete di fronte al letto. La voce veniva proprio dall’altra parte.

Che maleducazione.

Chiusi gli occhi, nella speranza che il tizio finisse la propria telefonata al più presto e mi lasciasse dormire in pace. 

Cercavo di addormentarmi ma quella voce dal tono acceso mi entrava in testa e non riuscivo a rilassarmi. Finalmente, a un certo punto la telefonata finì.

Mi girai dall’altra parte, abbracciai il cuscino e mi preparai a sprofondare nel sonno.

Un’altra telefonata.

Eh no, pensai. Ora se questo non la finisce chiamo la portineria per segnalare la situazione. 

Rimandavo. Alzarmi, comporre il numero e spiegare al concierge ciò che stava succedendo avrebbe significato perdere quel poco di sonno che avevo addosso e svegliarmi del tutto. Preferivo aspettare. Prima o poi avrebbe spento il telefono e si sarebbe messo a dormire anche lui.

Le due e mezzo. Silenzio. Ecco, lo sapevo che prima o poi…

Di nuovo la voce. Arrabbiata, tesa, forte. Avevo anche una mezza idea di chi fosse. Del portavoce, appunto, di un politicone di quel partito, che avevo visto tutto il giorno girare tra platea e sala stampa come una trottola impazzita. Chissà che storie c’erano in ballo. Magari se ascoltavo con attenzione riuscivo a tirar fuori pure uno scoop.

Mi decisi. Se fa un’altra telefonata chiamo la portineria. Silenzio. Finalmente.

Non importa dire che mi sbagliavo, purtroppo. 

La solfa andò avanti almeno fino alle tre e mezzo, mentre io ogni cinque minuti pensavo di chiamare il concierge e quello che dopo le urla stava un po’ in silenzio, illudendomi che fosse finita.  

Alla fine un po’ riuscii anche a dormire ma il giorno dopo c’era da alzarsi presto e seguire l’ultima parte del congresso, quella decisiva. 

La mattina a colazione cercai di individuare il rompipalle notturno. Era proprio lui, l’aria accigliata e il modo di fare di chi è chiamato a risolvere i problemi del mondo. Chi altri se non lui. 

Con gli occhi pesti tornai nella sala del congresso e mi sforzai di seguire tutti gli interventi cercando di capire che tipo di cambiamenti potevano anticipare.

A un certo punto un collega mi chiese come avessi dormito, visto che aveva saputo che la notte in albergo era stata un po’ agitata.

Stavo già per raccontargli del portavoce invadente, sicura che si riferisse a lui, quando invece mi raccontò tutta un’altra storia.

Riguardava una senatrice, anche lei molto conosciuta, che durante la notte aveva perso un costosissimo anello d’oro tempestato di pietre preziose. Pare che per recuperarlo fossero dovuti intervenire i dipendenti dell’albergo, insieme agli uomini della scorta, per smontare il tubo del lavandino. 

Alla fine l’anello era stato recuperato ma il fatto, vissuto con grande ansia dalla senatrice che si era sfogata nottetempo con telefonate concitate a destra e a manca (un vizio diffuso, a quanto pare), era diventato la barzelletta del giorno.

E questa è stata la mia prima, e unica, notte all’hotel de la Poste.

Proprio un’occasione da non lasciarsi scappare.

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Il camion fuori posto

Diversi anni fa, a Belluno, successe che un gruppo di ragazzi si mise d’accordo per offrire un servizio di accompagnamento ai giovani che andavano in discoteca e non volevano rischiare incidenti al ritorno.

Il nome scelto per la società fu A company, che a orecchio faceva accompany. Furono fatti dei volantini pubblicitari. Le foto le scattò il fotografo del giornale per cui lavoravo in quel periodo, che ci passò anche la notizia.

L’articolo, di poche righe, raccontava qual era la novità, spiegava a chi si doveva l’idea e informava naturalmente sui numeri da contattare per prenotare il servizio di trasporto.

La foto pubblicata a fianco era quella che campeggiava sul volantino pubblicitario e ritraeva i diversi soci, tutti maschi e giocatori di calcio, vestiti e truccati da entreneuse sullo sfondo di un grosso camion bianco posteggiato in una piazzola. Il messaggio giocava ironicamente sul ruolo delle accompagnatrici e lo sfondo del camion richiamava il tipo di cliente a cui il servizio si rivolgeva. 

L’idea del camion era venuta al fotografo, dal momento che il gigante della strada era posteggiato ogni notte accanto a casa sua. 

Insomma, una notizia utile presentata in maniera simpatica, e finita lì.

Almeno così pensavamo noi.

Invece proprio nel pomeriggio del giorno in cui fu pubblicata, piombò un tizio in redazione che urlando e sbraitando, cominciò ad accusarci di averlo rovinato, di avergli fatto perdere il lavoro e chissà che altro.

Normalmente quando qualcuno protestava per un articolo o una foto, la grana passava all’autore dell’articolo o al redattore che l’aveva impaginato. In quel caso però nessuno riusciva a capire a che cosa si riferisse il tizio per cui fu affidato a me dal momento che seguivo sia la cronaca nera che quella giudiziaria e quelli che protestavano ce l’avevano più o meno spesso con qualcosa che avevo scritto io.

Lo invitai a spiegarmi bene che cosa fosse successo, dopo averlo portato nella nostra sala riunioni così da non disturbare il lavoro dei colleghi.

Non fu facile venirne a capo. Il tizio era agitato e parlava in dialetto. Mentre lui pronunciava frasi senza un senso apparente, io ripassavo con la memoria gli articoli che avevo scritto il giorno prima e non me ne veniva in mente nessuno che parlasse di un camion, l’unica parola che riuscivo a capire di quello sproloquio.

Presi una copia del quotidiano e gli chiesi di mostrarmi dove fosse il problema. 

Puntò il dito sulla foto del camion con i calciatori tassisti travestiti da donna che pubblicizzavano il loro servizio di trasporto notturno.

Venne fuori che l’uomo era dipendente di una grossa ditta di trasporti della zona, per la quale lavorava come camionista. I mezzi dell’azienda erano tutti di grandi dimensioni e nuovissimi. La regola, ferrea, era che dovevano essere utilizzati solo per il lavoro e al termine della giornata venire posteggiati nel parco della ditta, al riparo del cancello chiuso a chiave.

Il nostro tipo invece aveva deciso autonomamente di apportare una piccola modifica al regolamento aziendale usando il camion anche per andare e tornare dalla sede di lavoro. Durante la notte lo posteggiava in una piazzola vicino casa, sull’ultimo tratto di strada tra la provinciale e l’ingresso della città, ben visibile a tutti e alla mercé di qualsiasi malintenzionato.

Fortuna volle che prima dell’arrivo di un ladro di tir, il mezzo pesante avesse colpito la fantasia del nostro fotografo, così che la situazione era venuta a galla prima che succedesse qualcosa di irreparabile. 

Non so alla fine se il tipo sia stato licenziato o se se la sia cavata con una strigliata di capo e l’obbligo di andare al lavoro con la propria macchina. Fatto sta che se fosse stato un po’ più sveglio, più che arrabbiarsi con noi, avrebbe dovuto ringraziarci.

Altroché.     

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Il filmino dell’università

All’università studiavo lettere con indirizzo musica e spettacolo, il più divertente ma anche più inutile. A storia del cinema avevamo Lino Micciché, creatore del festival di Pesaro. Ogni anno ci invitava ad andare, ma io non l’ho mai fatto.

Sergio Micheli teneva un seminario di cui non ricordo il titolo. Però a un certo punto, oltre a guardare di continuo film muti e in bianco e nero nella sala cinema del primo piano in via Fieravecchia, con lui decidemmo di girare un nostro film.

Un filmino, una specie di spot. Ma cercammo di buttare giù una trama e ci distribuimmo i compiti.

Io scelsi di fare la trovarobe, oltre a partecipare a tutto il resto .

La storia era un po’ vaga e non sapevamo dove andare a parare. 

Erano gli anni Ottanta, in Italia non era arrivata nemmeno MTV e noi eravamo digiuni di tutto, compresa la cultura cinematografica e televisiva contemporanea.

Prendemmo ispirazione da una pubblicità del momento, quella dell’uomo che non deve chiedere mai, ci costruimmo sopra una storiellina che vedeva nel ruolo di attore protagonista Olly, un corpulento studente tedesco con il viso tondo incorniciato da riccioli d’oro, occhialini alla John Lennon, gotine rosse e paffutelle.  

Il nostro sforzo creativo di gruppo partorì un plot in cui questo Olly, passando dalla scalinata di Romeo e Giulietta, al Battistero del Duomo, incrociava una ragazza che attirava la sua attenzione grazie alla scia di profumo che lasciava. Anche qui citavamo un’altra pubblicità dell’epoca in cui una donna camminava per strada tutta improfumata e gli uomini la seguivano col naso all’insù.

Non era un granché, però l’avventura ci piaceva. Ci faceva sentire come studenti del Dams, dei quali eravamo purtroppo solo i cugini poveri.

Sceglievamo le varie zone della città dove girare le nostre scene. Il tecnico dell’università ci seguiva, povero lui, con la telecamera della facoltà.

Ci trovavamo la mattina presto con Sergio Micheli e mettevamo su il nostro set, come una vera produzione cinematografica.

Andammo alle fonti di Pescaia e in Fontebranda, al Battistero del Duomo e nei giardini di via Fieravecchia. All’epoca non si diceva ancora location, erano solo posti belli che avevamo scelto per il nostro filmino.

La trama prevedeva anche una scena di gelosia, con un ragazzo più fisicato del nostro Olly, che si prestava a interpretare il ruolo dell’uomo che non deve chiedere mai, e che a un certo punto raccoglieva l’interesse della ragazza che tanto aveva colpito le narici del tedeschino.

Dopo questo sforzo creativo, per tirare avanti la storia ci fu richiesto di pensare un finale.

Le nostre menti da surrogato del Dams ci portarono a far fissare un appuntamento tra Olly e la bella improfumata dove tutto aveva avuto inizio, sulla scalinata di Giulietta e Romeo.

Olly, naturalmente, si era già girato il suo bel film nella testolina per cui il copione prevedeva che portasse con sé una confezione di profilattici, che dovemmo comprare noi, forse addirittura io, visto che facevo la trovarobe. 

Per non sciupare l’eccezionale sorpresa al pubblico decidemmo che Olly avrebbe nascosto la confezione nella tasca posteriore dei jeans. 

Poi, una volta giunto alla famosa scalinata, nell’attesa della bella improfumata, si sarebbe seduto a terra e girandosi di tre quarti la cinepresa avrebbe inquadrato un angolo della scatolina che faceva capolino dalla stoffa blu.

La scena avrebbe suggellato la disfatta finale e totale del povero Olly, che era andato un po’ troppo avanti con l’immaginazione, mentre la bella improfumata non sarebbe mai arrivata all’appuntamento, essendo molto probabilmente impegnata a laccarsi le unghie per interpretare la donna che si avvinghiava al torace dell’uomo che non doveva chiedere mai.

Da via Fieravecchia, dove una copia di tal capolavoro dovrebbe essere ancora presente in qualche archivio sotterraneo, è tutto.

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I miei Capodanni lontani

Quando ero piccola per l’ultimo dell’anno avevamo sempre degli ospiti. All’epoca abitavamo ancora in Campolungo, nella casa al secondo piano di una palazzina di tre con un corridoio e tante terrazze. 

Gli invitati erano amici di babbo e mamma, per lo più legati al mondo della scuola, ma non solo. L’avvocato Oreste Mattone Vezzi con la moglie Franca appartenevano alla schiera degli amici di gioventù di babbo. Con loro non ho ricordi particolari se non per il fatto che li guardavo con una certa soggezione di bambina, ammirandoli, specialmente la signora, che sfoggiava sempre mise di gran classe. 

La signorina Iser era la maestra di Paola e a lei si devono alcuni dei regali più belli che abbiamo mai ricevuto, dalla bambola Bettina, al pupazzo Giannino, alla Collina dei Conigli, uno dei libri che ho prestato non ricordo a chi, ma che ho ricomprato tanto mi aveva fatto stare con il fiato sospeso. 

La sera della cena l’aria si faceva frizzante e piena di aspettative. Ogni volta che suonava il campanello e babbo andava ad aprire era una festa. Per me era come essere al cinema. Gli ospiti entravano in casa portando con sè l’aria fredda di fuori mista al loro profumo.

Non c’erano altri bambini e i patti erano che mangiavamo e poi a letto. Ma io non volevo mai andare perché avevo paura di perdermi discorsi, risate e brindisi.

I figli li avevano solo i Mattone Vezzi e non li portavano. 

C’era la Direttrice, Anna Betti, con i suoi cappelli di velluto chiusi da uno spillone con la perla. C’era Robusto Solari, che più tardi diventò lui il Direttore. C’erano Mario Cappelli e Gioli, anche lui insegnante e più tardi Direttore dello stesso circolo didattico di Colle.

Il salotto della casa di Campolungo era arredato con i mobili in teak che andavano di moda negli anni Sessanta. C’era il tavolo che si allungava aprendolo a metà e facendo emergere una giunta dal centro. Le sedie erano foderate di una stoffa nera ruvida con delle piccole escrescenze bianche, così come il divano e le poltrone.

C’era un mobiletto lungo poggiato a terra dove si tenevano i serviti da apparecchiatura più eleganti e dei mobiletti appesi al muro con i bicchieri e i liquori. 

L’illuminazione era a parete, con dei lampadari in legno divisi in quadrati. Ogni quadrato poi o era vuoto o aveva la lampadina. Quelli con la lampada avevano una copertura di plastica bianca o nera per gli effetti di luce. 

Sotto il tavolino basso da fumo un tappeto giallo, alle pareti alcuni quadri e delle stampe giapponesi su delle specie di stuoie.

Mamma cucinava, babbo stappava le bottiglie, spalmava i crostini e aiutava ad apparecchiare.

I pezzi forti di quegli anni erano il vitel tonné e l’insalata russa. Una volta c’era il pollo in galantina. Quello me lo ricordo bene perché il giorno prima era venuto un cuoco a casa nostra a prepararlo. Si chiamava Imolo e nei miei ricordi di bambina doveva essere per forza emiliano come la città. Faceva il cuoco in un ristorante a Pancole nel periodo in cui mamma e una sua collega ci insegnavano .

Quel pomeriggio non mi allontanai nemmeno un minuto dalla cucina. Guardavo le mani di Imolo, vestito di bianco, che disossavano il pollo, preparavano il ripieno e infine riempivano la sacca di carne che poi veniva avvolta in un tovagliolo bianco e legato con lo spago prima di finire in pentola a bollire.

Io seguivo tutta la procedura senza perdermi un passaggio e chiedendo perché faceva questo e perché faceva quello. 

Imolo pensava di insegnare a mamma quella ricetta, ma dopo di lui in realtà nessuno ha mai più preparato il pollo in galantina, a casa nostra.

Alle cene di Capodanno si apparecchiava con la tovaglia di cotone rosso ricamata di bianco. I piatti, i bicchieri, i vassoi e le zuppiere erano quelli dei serviti del matrimonio di mamma e babbo. I bicchieri in cristallo erano molati, tutti sfaccettati, e lo spumante si beveva nelle coppe. 

Babbo nel pomeriggio sbucciava un ananas e lo tagliava a fette che adagiava in una insalatiera e ci versava sopra lo spumante. Qualche volta c’erano anche delle ciliegine sotto spirito.

Gioli portava uno dei suoi dolci capolavoro. La Direttrice ci regalava dei libri di mitologia greca e romana dopo aver saputo della mia passione per il mondo degli dei.

Mangiando e parlando si aspettava la mezzanotte per brindare e farsi gli auguri. Io però a quell’ora sarei dovuta già essere a letto da un bel po’. Paola andava a dormire senza fare storie. Io invece mi impuntavo, all’inizio chiedendo, per finire supplicando, che mi lasciassero stare ancora un po’ con i grandi.

Per agevolare il trasferimento in camera da letto, mamma ci vestiva già da notte per la cena ma evidentemente, almeno con me, lo stratagemma non funzionava.

Lo facevo anche per Natale e per la Befana, di non andare mai a dormire perché volevo vedere di persona chi veniva a portare i regali. Babbo era disperato perché non poteva andare a letto e doveva aspettare che io crollassi. Ma questo l’ho saputo solo molti anni dopo. 

In ogni caso anche alle cene di Capodanno a una certa ora ce la facevano e mi mettevano sotto le coperte, dopo che avevo salutato tutti con un bacino. 

La nostra camera era in fondo al corridoio, il salotto subito dopo la porta d’ingresso, sulla destra, e non aveva una porta come le altre stanze. Quella del salotto era a vetrata.

Così io, mentre mi credevano a letto, mi alzavo e mi avvicinavo quatta quatta. Poi mi nascondevo rimanendo accucciata tra il muro e la porta, per poter continuare ad ascoltare.

Pare che una volta, al momento dei saluti, mi abbiano trovata addormentata per terra.

Ma il mio obiettivo l’avevo raggiunto.      

(In foto: l’avvocato Oreste Mattone Vezzi e la moglie Franca, Simona con la bambola Bettina e, dietro, la signorina Iser)

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Il mio primo concerto rock

Il 23 maggio 1981 mancavano ancora centocinquanta giorni al compimento dei miei diciotto anni. Nonostante questo, babbo e mamma mi dettero il permesso di andare da sola a un concerto rock a Firenze. Non ricordo perché mi ero tanto fissata con i Clash, che credo nemmeno conoscevo all’epoca. Probabilmente ne avevo sentito parlare da quelli più grandi in piazza. O forse il concerto era pubblicizzato su Radio Centofiori, che ascoltavo tutti i pomeriggi dopo la scuola.

In ogni caso, nella settimana precedente all’evento persi completamente l’appetito. Ero felicissima di fare questa esperienza e felice anche che i miei non me l’avessero negata. Però di fatto la mia gioia fu sopraffatta da un’emozione fortissima, difficilmente definibile, che mi impediva di mangiare. Avevo lo stomaco chiuso.

Al concerto sarei andata con il Bighe, un ragazzo di due anni più grande, del quale i miei si fidavano. 

Il giorno fatidico, un sabato, partimmo da Colle sulla due cavalli verde del Bighe. 

Non facemmo in tempo ad arrivare sul Ponte dell’Armi che il Bighe stoppò la macchina. Sul bordo della strada c’era un tizio con un giubbotto di pelle nera che faceva l’autostop.

Io non mi sarei mai fermata.

Il Bighe invece lo conosceva. Venne fuori che il tizio andava a Firenze al concerto dei Clash. Salì con noi. Si chiamava Pise.  

Al concerto era stata riservata solo una curva dello stadio in Campo di Marte, dove diverse centinaia di scalmanati stavano tutti pigiati. Fu chiaro fin da subito che io, piccola com’ero, non avrei visto nulla se fossi rimasta con i piedi per terra. Non solo.

Avrei anche rischiato di rimanere schiacciata dalla folla che ondeggiava e saltava a un ritmo forsennato.

Il Bighe mi prese a cavalluccio. E lì, accucciata sulle sue spalle, rimasi per tutta la durata del concerto, mentre i fan tiravano sul palco lattine, bottigliette e chissà che.

Dopo quarant’anni si ricorda ancora la fatica di tenermi tutte quelle ore sulle spalle. Fortuna che lui era giovane e forte e io all’epoca pesavo solo quarantacinque chili. 

Quel concerto comunque fu uno schianto.

Davanti ai miei occhi di liceale colligiana diciassettenne, si aprì all’improvviso un mondo di punk, di musica forte, sgangherata, di cantanti ruvidi e chitarre dal suono distorto. 

Le prime note che sentimmo furono quelle del Buono il Brutto e il Cattivo, di Ennio Morricone. Poi esplose London Calling. Sul palco, dietro a Joe Strummer, Paul Simonon, Mick Jones e Nick Headon, scorrevano le immagini violente della rivoluzione sandinista, quella che in Nicaragua aveva destituito il presidente Anastasio Somoza.

Io non ne sapevo niente. Dopo il concerto però cominciai ad informarmi e a cercare di capirne di più.

Fu una serata piena di tante cose. Le ore passarono in un lampo, tra le immagini, la musica, i salti del pubblico. Io, al sicuro sulle spalle del Bighe, non rimasi schiacciata dalla folla e riuscii a non farmi colpire nemmeno da una lattina. Fu lui a dire il vero a scegliere di stare più dietro possibile.

Se ci fossimo avvicinati al palco sarebbe stato peggio.

Insomma, alla fine andò alla grande.

Anche perché poi come sarebbe dovuta andare? Eravamo giovani, negli anni Ottanta, e potevamo fare di tutto, bastava solo pensarlo. 

Al ritorno il Pise era ancora con noi. Dalle cose che disse del concerto, capii che era uno che di musica ci capiva. E infatti venne fuori che suonava la chitarra ed era anche parecchio bravo. 

Dopo il concerto e tutta quella gente strana, mi sembrò meno strano anche lui. E infatti da allora diventammo amici. 

Del Bighe invece ricordo un altro episodio, sempre legato a un concerto, che avvenne parecchi anni dopo la serata dei Clash.

Quella volta eravamo a Certaldo, forse all’Ypsilon, dove c’era un concertaccio punk. A un tratto cominciarono tutti a pogare violentemente e io, che non me l’aspettavo, fui spintonata di brutto. Schizzai come un proiettile contro una cassa sotto al palco senza riuscire a fermarmi. Mi bloccò il Bighe, che chissà come era proprio su quella traiettoria.

Così mi salvò dalla violenza punk per la seconda volta.

Dopo il concerto di Firenze finalmente mi passò l’agitazione e ricominciai a mangiare. Credo che all’epoca però non mi rendessi nemmeno conto che avevo partecipato ad un evento storico, non solo per l’esibizione di un gruppo strabiliante, ma anche perché eravamo all’inizio di un’epoca fantastica di musica, concerti e tutto il resto. 

Soprattutto, perché noi, chi più chi meno,  avevamo tutti vent’anni.

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Botte in birreria

All’inizio degli anni Ottanta a Colle aprì la prima birreria. Anzi un bistrot, alla francese, con sedie in ferro battuto e tavolini in marmo, pareti foderate in perlinato e qualche lunga panca in legno. Fino ad allora c’erano solo bar e discoteche dove passare le serate bevendo qualcosa in compagnia. 

Il Bistrot Bel Ami, in una delle due Coste e vicinissimo alla piazza, rappresentò una grandissima novità per tutta la zona. C’erano le birre alla spina e quelle in bottiglia e, volendo si poteva anche mangiare qualcosa. I proprietari, due fratelli fidanzati con due mie compagne di scuola delle elementari, preparavano dei piattini con wurstel alla piastra e mais o cuori di palma.

Una novità ancora più eclatante era rappresentata dal videoproiettore con maxischermo sul quale giravano i primi videoclip musicali che i fratelli acquistavano nei loro viaggi a Londra.

C’erano Kid Creole & The Coconuts, Michael Jackson con Thriller, David Bowie, Billy Idol nei suoi nastri di cuoio nero, Boy George con il suo trucco triste e i Culture Club, che cantavano Do you really want to hurt me e Karma Chameleon, Lionel Richie e All Night Long.

Io avevo appena iniziato a frequentare l’università e non vedevo l’ora di rendermi un po’ più indipendente, per non stare sempre a chiedere i soldi per la benzina o per uscire con gli amici. Chiesi ai due fratelli se potevo lavorare da loro e mi dissero di sì. 

Ero talmente felice che quasi non ci credevo.  

Così la mattina andavo a Siena a seguire le lezioni e la sera, quando mi chiamavano, soprattutto nel week end, facevo la cameriera in birreria. All’inizio prendevo solo le ordinazioni ai tavoli, passavo le comande, ritiravo i vassoi e sparecchiavo. Poi imparai a spinare la birra e a fare il caffè espresso con la macchina da bar. Un passo ulteriore in avanti fu quando mi fu data la possibilità di preparare quei deliziosi piattini con i wurstel e i contorni che mi mangiavo con gli occhi. E l’irish coffee, che si serviva in bicchieri rotondi a calice, riscaldando il whisky per farlo stare in fondo, versando sopra il caffè e coprendo con panna liquida. Il gioco di temperature e densità diverse permetteva di creare tre strati distinti che poi si fondevano in bocca con un effetto fantastico. 

Una delle prime sere al lavoro qualcuno mi chiese un glengrant e io non avevo idea di che cosa fosse. Uno dei fratelli mi spiegò che era un whisky e mi insegnò come versarlo e in quale bicchiere. Probabilmente di figure da incapace ne feci diverse altre, senza nemmeno accorgermene, ma è anche vero che in poco tempo imparai un sacco di cose di quel mondo riuscendo a gestire i clienti in scioltezza e divertendomi un sacco.

Poi pensai di proporre il tiramisù fatto da me. I fratelli, dopo averlo assaggiato, accettarono. Lo portavo su dei vassoi di porcellana decorata presi in casa dal servizio buono di mamma e se ne ricavavano dieci porzioni. Il dolce era molto richiesto e io raggranellavo qualche lira in più.

Le serate fluivano senza grossi problemi. Avevamo diversi clienti fissi, come un nipote con lo zio, molto più anziano di lui, che trascorrevano molte ore al tavolo. Erano loro a presentarsi così, ma io all’epoca figuriamoci se non ci credevo.

Ogni tanto c’era qualcuno che beveva un po’ troppo, ma niente di che. Una volta dovetti avvisare uno dei fratelli che stava succedendo qualcosa di strano dentro il micro bagno del locale. Era da un po’ che non si poteva entrare e in più si sentivano dei colpi provenire dall’interno. Lui andò a bussare e ne uscirono un ragazzo e una ragazza un po’ stralunati.   

Fra i clienti c’era anche un professore di filosofia dall’aspetto trasandato e con una certa attitudine al bere. Una sera il tizio piantò una grana. Eravamo ormai in orario di chiusura e ci apprestavamo a pulire e rimettere a posto.

Lui non voleva uscire. Se ne stava piantato al bancone e reclamava qualcosa da bere. Uno dei proprietari gli disse che non gli avrebbe dato più niente, che aveva già bevuto abbastanza e che se ne sarebbe dovuto andare perché si doveva chiudere il locale.

Ne venne fuori una discussione violenta alla quale assistetti del tutto incredula, incapace di immaginare che avrebbe potuto avere un esito ancora peggiore.

Il tipo non voleva saperne di andare via. I toni iniziarono a salire, nonostante alcuni clienti cercassero di calmarlo insieme al proprietario. Credo che qualcuno abbia tentato di prenderlo di peso e portarlo fuori, ma non ricordo molto bene. So solo che quell’uomo si rivoltò e con un’esplosione di rabbia cominciò a picchiare sul bancone e a spaccare tutto quello che trovava a portata di mano.

Era tardissimo, fuori non c’era nessuno. Io non sapevo che cosa fare. Uscii di corsa e arrivai in un baleno sotto la caserma dei carabinieri, in piazza. Suonai il campanello. Non rispose nessuno. Suonai e suonai ancora. Niente. Quando tornai in birreria, agitatissima e terrorizzata da quello che poteva essere successo nel frattempo, mi sembrava di esserci stata un secolo a suonare quel campanello.

Appena entrata vidi uno dei proprietari con la faccia piena di sangue dopo che il tizio gli aveva lanciato un bicchiere in faccia colpendolo sull’arcata sopracciliare. 

Il tempo, o forse il panico di quel momento, ha cancellato quello che accadde dopo. Posso immaginare che sia stata chiamata un’ambulanza o che il ferito sia stato accompagnato da qualcuno al pronto soccorso. Alla fine qualcuno riuscì anche ad avvisare i carabinieri. 

Ricordo solo che dissero che avevano sentito scampanellare ma che evidentemente non avevo avuto la pazienza di aspettare abbastanza perché quando erano scesi non avevano trovato nessuno.

In poco tempo il locale fu risistemato, il proprietario lavorò per qualche giorno con la benda sull’occhio, ma convenimmo tutti che alla fine gli era andata anche bene. Se ci fu una denuncia, un processo o qualcos’altro non lo so. Non sono mai stata chiamata a testimoniare. 

Metto quest’esperienza insieme a tutto quello che ho imparato in un periodo bellissimo, in cui la vita sembrava facile, divertente e piena di cose da scoprire. La lista è lunga, dal Glen Grant all’irish coffee, e ha anche una colonna sonora, My Male Curiosity di Kid Creole & The Coconuts, una canzone che ho continuato a canticchiare per decenni dentro di me, per scoprire solo da poco che anche lei arrivava da quei giorni lì.       

(foto di Marcelo Ikeda Tchelao da Pixabay)

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