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La sera del capriolo morto

Qualche anno fa, in una calda sera di fine luglio, andai con la mia amica del liceo a vedere uno spettacolo sulla Francigena nell’Abbazia di San Galgano. Partimmo che era ancora giorno. Al curvone dei Cappuccini notai che dal ciglio spuntavano le zampe di un capriolo. Io guidavo, la mia amica parlava rivolta verso di me per cui non si era accorta di niente.

  • Presto, presto, chiama il 118 che c’è un capriolo investito.
  • Che c’entra il 118, è un animale…
  • Fidati, hanno l’obbligo di passarti il veterinario di turno.
  • Ma poi sei sicura? Io non l’ho mica visto.
  • Perché eri girata dall’altra parte, sbrigati che si fa tardi.

Solo pochi giorni prima, andando a Siena, avevo visto un capriolo morto sulla rotatoria per la Siena – Firenze all’uscita Nord di Colle Val d’Elsa.

Dopo aver sceso Paola e mamma davanti all’ospedale, mi misi a fare telefonate per avvisare qualcuno che facesse togliere la carcassa.

Il servizio per la fauna selvatica, che mi rispose subito, mi disse però che interveniva solo per gli animali feriti e mi consigliò di avvisare il Comune competente. 

Pensai che la parte dove era il capriolo era sicuramente su Poggibonsi.

Chiamai il Comune. Mi passarono un’impiegata dalla voce scocciata che, non appena le ebbi spiegato la faccenda, mi chiese:

  • Ma lei è proprio sicura che lì sia Poggibonsi? Perché potrebbe essere anche Colle. 

Dopo alcuni minuti, ritornò all’apparecchio e mi informò sconsolata che era proprio Poggibonsi. 

Disse anche che avrebbe mandato qualcuno. 

La sera di San Galgano non c’erano dubbi su quale fosse il Comune competente, ma alle otto di sera non avremmo trovato nessuno. Nemmeno i vigili.

Intanto la mia amica parlava col 118.

  • Oh, mi hanno detto che mi passano il servizio veterinario… Allora avevi ragione te.

Aspetta aspetta, però, il servizio veterinario non rispondeva, per cui le dissi di riagganciare e richiamare il Suem per chiedere che potevamo fare, vista l’ora. 

Non ne avevano idea.

  • Fai il 115, chiama i vigili del fuoco.
  • Ma come fai a sapere tutti questi numeri?
  • Eh, dopo anni di giro di nera…

I vigili del fuoco la ascoltarono e promisero che sarebbero intervenuti.

La mia amica però era ancora scettica.

  • Secondo me te lo sei sognato. Io non ho visto nulla. Sai che figura ora con tutte quelle telefonate…
  • Ma figurati se non c’era. Ho visto benissimo le quattro zampine all’aria che spuntavano dal fosso.
  • Mah, sarà…

Arrivammo a San Galgano, prendemmo posto nella chiesa e guardammo lo spettacolo, “Storie e amori sulla via Francigena, un musical in cammino”, di Nicola Costanti e Marco Brogi.

Marco lo avevamo salutato fuori dalla basilica. 

Scoprimmo anche che il Comune di Chiusdino organizzava un festival estivo di un certo livello, oltre all’opera sulla Francigena c’era già stato un concerto di Max Gazzè e altri appuntamenti interessanti erano in programma, ma noi non ne sapevamo niente.

Dell’evento di quella sera io stessa l’avevo saputo quasi per caso, vedendo un post di Marco su Facebook.

La serata fu molto bella. Bravissimi gli attori e cantanti, ben scritta la storia, fantastico il posto. Bella anche la sera d’estate.

Al ritorno, dopo un po’ di strada, il discorso tornò sui caprioli, anche perché io sono sempre terrorizzata quando guido per le strade in mezzo al verde, che spuntino animali e prego dentro di me che ciò non avvenga.

Quando passammo dal curvone dei Cappuccini, a Colle, il capriolo non c’era più.

“Certo che non c’è – commentò la mia amica – vedrai, non c’è mai stato, te lo sei solo immaginato”.

Qualche giorno dopo una conoscente commentò su Facebook un mio post su che cosa fare quando si trovano animali selvatici morti e feriti, dicendomi di guardare la bacheca di sua sorella.

Aprii la pagina e vidi la foto del povero capriolo a zampe all’aria al curvone dei Cappuccini. 

La sorella scriveva che si era trovata a passare di lì, aveva visto (e fotografato) il capriolo, dopo di ché era impazzita a chiamare carabinieri e non so chi altri per far togliere la carcassa. 

Tra l’altro diceva che si trattava di un esemplare di femmina e pure incinta. Alla fine concludeva che comunque, grazie al suo telefonare a destra e a manca, alla fine il povero animale era stato tolto. 

Oddio, stavo perdendo il primato di avvistatrice di caprioli morti per strada, ma a dire il vero in quel momento non mi sembrava la cosa più importante.

La cosa veramente importante era scaricare la foto e inviarla a quella miscredente della mia amica come prova definitiva che quella sera non avevo avuto le traveggole.

Ogni tanto, una piccola soddisfazione… 

(La foto del capriolo nel verde invece l’ho fatta io sotto casa e almeno quello è indiscutibilmente vivo)

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Gastone (2)

Appena Gastone si trasferì stabilmente da noi, si resero necessari due passaggi: toilette e veterinario. 

Dopo il bagno Gastone non sembrava più lui. Gli era esplosa una quantità di pelo lungo, brillante e ondulato del tutto inimmaginabile. Fino ad allora il pelo sembrava corto, mi spiegò Mariagrazia, la toelettatrice di Spugna, perché era compresso in una specie di fango solidificato da chissà quanto.

Il veterinario invece sentenziò che Gastone doveva avere sui tre anni e mezzo ed era anche abbastanza sano. Di sicuro non aveva avuto una vita facile. Lo testimoniavano tutte quelle cicatrici sul muso e su altre parti del corpo e le isolette di peli bianchi che spuntavano nel manto fulvo. La cosa più impressionante però erano le unghie, consumate quasi del tutto, come se, disse il veterinario, avesse dovuto scavare chissà per quanto per fuggire da chissà dove.

Al canile, mentre riempivo i fogli per l’adozione, scoprii che a Gastone non era stato dato un nome, nemmeno provvisorio. Quando raccontai che a casa Gastone saliva sul muretto e abbaiava con una voce rauca e bassa scoprii anche che nessuno lo aveva sentito mai abbaiare in tutti i mesi che era rimasto chiuso in quella gabbia.

Poi ci fu il cambiamento di mamma. Lei che fino ad allora si era opposta con tutte le sue forze all’ingresso di Gastone in famiglia, all’improvviso ne diventò la principale sostenitrice, convinta com’era di essere la sua preferita perché gli preparava la pappa. 

Io lo avvisavo: Gastone non ti fidare, è lei quella che ti ha rimandato al canile e che non ti voleva a casa. 

Ma lui, ingenuo e pieno di riconoscenza, ci cascava sempre. 

Al primo calore di Vanessa, mamma si trasferì nel mio appartamento con Gastone, perché restassero separati. Ma non fu affatto facile. Così al calore successivo decisero di portare Gastone da me a Belluno.

In quel periodo vivevo in una porzione di palazzo Miari Fulcis in pieno centro. Con mamma decidemmo che lei avrebbe dormito al Centro Diocesano mentre Gastone sarebbe rimasto in casa con me. La prima sera però io avevo il turno di chiusura al giornale e sarei tornata dal lavoro dopo mezzanotte. Mamma invece doveva andare via prima che il Centro chiudesse verso le dieci e mezzo, undici. Così Gastone rimase a casa solo per un’oretta. Mamma pensò che si sarebbe annoiato e lasciò luce e tv accese per lui. Quando aprii la porta sentii dei rumori strani, come dei gemiti. In salotto c’era Gastone accucciato sul suo cuscino davanti alla tv che trasmetteva i programmi pornografici notturni. 

Quando mamma tornò in Toscana dovetti gestire da sola le necessità di Gastone. Al mattino, appena sveglia, lo portavo a fare la prima passeggiata del giorno. Per l’intervallo del pranzo mi preparavo un panino che mangiavo su una panchina. La sera poi, appena rientravo, si partiva con un’altra giratina. 

Per certi versi poteva sembrare impegnativo, però era anche divertente, oltre che salutare. Tra l’altro a Belluno, pur abitando in pieno centro storico, bastava attraversare piazza Duomo e prendere le scale dietro al Comune, per arrivare in campagna in pochi minuti, verso Castion o lungo il Piave. 

In poco tempo Gastone era diventato una vera attrazione in città e quando passavamo per il centro raccoglieva un sacco di complimenti, che lui accettava abbassando il testone e facendoselo accarezzare.

Un giorno con un’amica andammo a Erto e Casso, sopra la diga del Vajont, a fare un giro. Portammo anche Gastone. Aveva nevicato da poco e il terreno in pendenza lungo i tornanti era tutto bianco. Prima di arrivare al paese ci fermammo. Fu allora che Gastone scoprì la neve.

Cominciò a saltare eccitato lungo i pendii innevati, arrampicandosi e lasciandosi scivolare come un bambino sullo slittino. Sembrava impazzito, con quelle capriole e le sdrusciate di schiena. Peccato non avere un filmino di tutta quella gioia.

Poi arrivò il momento di riportare Gastone in Toscana e per Vanessa di subire un intervento di sterilizzazione.

Io continuavo a vivere a Belluno e i cani li vedevo quando tornavo a casa. Allora facevamo lunghe passeggiate per i campi e le colline circostanti. Vanessa conduceva con lo sguardo dritto davanti a sé e Gastone le girava intorno come un perfetto innamorato, saltellando mentre le zampe posteriori andavano una in qua e una in là.

Ogni tanto uno dei due, più spesso Vanessa, prendeva un forasacco e bisognava correre dal veterinario. Vanessa prese anche la leishmaniosi, dalla quale guarì miracolosamente tenuta su a forza di fettine di prosciutto cotto.

Gastone invece sembrava avere meno problemi. Finché non iniziò a stare male e ad avere difficoltà a muoversi. Babbo per portarlo fuori all’aria aperta aveva preparato una specie di zatterina con le ruote. Gastone ci si accucciava sopra e loro lo tiravano. 

Nessuno mai capì di che cosa soffrisse Gastone. 

Un mattino, verso Pasqua, mamma si alzò e lo trovò ormai morto. 

Aveva fatto tutto in silenzio, senza disturbare. Sempre grato com’era per la nuova vita che gli avevamo regalato.

(2-fine) 

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Gastone

Con Gastone funzionava così. Dopo che la mia amica mi aveva avvisato che al canile avevano questo setter irlandese bellissimo, ero andata a vederlo e mi ero subito innamorata.

Gastone stava in un recinto insieme ad altri cani. Era tutto rincantucciato in un catino di plastica azzurra da bucato e sembrava non accorgersi di niente. 

Era lì da tre mesi, da quando era stato catturato insieme ad altri due cani, mentre vagava nei boschi di Radicondoli.

Chiesi se potevo prendermene cura facendogli fare qualche giro intorno al canile.

Di portarlo a casa non se ne parlava. 

Mamma era stata chiara. C’era già Vanessa, che bastava e avanzava.

Mi fu dato il permesso. Così cominciai ad andare ogni tanto al canile.

Il volontario di turno entrava nella gabbia, metteva il guinzaglio al collo di Gastone e lo portava fuori. Io lo prendevo, uscivo dal canile e passeggiavo con lui nei campi. 

Lui camminava guardando dritto davanti a sé, chiuso in un mondo tutto suo. Non reagiva a niente, nemmeno alle carezze. 

La volta dopo mi portai dietro qualche biscotto. Gastone lo mangiò e continuò a guardare dritto davanti a sé. 

Una volta invece Gastone si girò quando lo chiamai per dargli il biscotto e mi guardò negli occhi. 

Fu un’emozione fortissima. Era un inizio.

Gastone cambiò subito il modo di camminare, si fece più sciolto e rilassato. Poco a poco cominciò anche a scodinzolare. 

Decisi che era arrivato il momento di portarlo a casa, anche solo dalla mattina alla sera.

Al canile furono d’accordo.

Lo feci salire sul posto del passeggero della spider rossa, raccomandandomi che stesse ben raggomitolato e senza alzare la testa. Andò bene.

Quando arrivammo a casa mamma disse che non voleva un altro cane e che avrei dovuto riportarlo subito al canile.

Gli preparai la pappa. Gastone mangiò tutto, poi cominciò a saltellare e a strusciare la testa sulla mia pancia.

  • È un segno di ringraziamento, disse mamma.

Scoppiai a piangere.

La sera lo riportai al canile. 

Questa storia andò avanti per un po’. Appena potevo andavo a prendere Gastone, lo facevo salire in macchina e lo portavo a casa per un giorno. 

Vanessa, l’altro setter irlandese che all’epoca aveva cinque anni, non sembrava affatto contenta di avere un amico. Temeva di perdere i suoi privilegi. Quando uscivamo non cedeva mai il passo a Gastone, col risultato che sbatacchiavano entrambi su un lato diverso della porta. Gastone correva per la gioia di uscire, Vanessa per non farsi superare. 

Gastone adorava Vanessa e quando lei si stendeva sul divano con posa aristocratica, lui si stendeva ai suoi piedi e la guardava di sotto in su, con lo sguardo implorante.

Babbo ormai aveva cambiato idea sul fatto di tenere un cane a casa. Appena tornati in campagna era contrario. Ma poi c’era stato Iadi, il pastore tedesco, dopo era arrivato Taro, il siberian husky, e ora Vanessa. Per lui avere anche Gastone non cambiava niente. Anzi.

Mamma invece continuava ad opporsi.

Quell’anno le vacanze di Pasqua, tra ponti e weekend, si allungarono fino al Primo Maggio. Gastone le passò tutte a casa con noi, senza mai tornare al canile.

Ormai, pensavo, è fatta. 

Invece mamma tornò alla carica e disse che lo dovevo riportare, prima che si abituasse e diventasse tutto troppo difficile.

Quando riconsegnai Gastone al canile, lo misero in una gabbia di decompressione, da solo, per farlo riabituare alla prigionia.

Lui rimase in piedi, un po’ traballante sulle zampe larghe, con lo sguardo fisso davanti a sé.

Io ero disperata. Tra le lacrime gli dicevo di stare tranquillo, che sarei tornata a prenderlo.

Lui aveva la bocca socchiusa con un filo di bava che scendeva giù.

Una volta a casa telefonai al canile per sentire come stava.

Era sempre come prima.

Babbo continuò a telefonare per tutto il giorno. Gastone, ci dicevano, era lì, in piedi nella gabbia, come pietrificato, con il filo di bava.

Il giorno dopo mi alzai presto e uscii. Non ci fu bisogno di dire a nessuno dove andavo e a fare che. 

(1 – continua)

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I conigli di Taro

Alla fine dell’inverno del 1991 a casa nostra arrivò Taro, un siberian husky bianco rosso dagli occhi color dell’ambra. Arrivò perché nessuno lo voleva e perché io me ne ero innamorata a prima vista. In quel periodo i siberian erano cani di gran moda e in molti li compravano, oltre che per sfoggiarli per strada, anche per partecipare a mostre e competizioni canine. 

Taro aveva due difetti, la coda gli era cresciuta un po’ pendente da un lato e un testicolo non gli era sceso al posto giusto. Così fu scartato da chi lo aveva comprato. Attraverso giri che non sto a raccontare arrivò a Vallecapocchi, dove io lo portai, convinta di non poter vivere senza di lui, mentre mamma non voleva assolutamente tenerlo. Con il voto di babbo la bilancia virò decisamente verso l’adozione di Taro. 

Visto che il cane aveva una folta pelliccia e cercava il fresco, babbo gli costruì un recinto accanto al fienile dove lui scavava buche sempre più profonde. Una volta fece venire alla luce addirittura una conchiglia fossile di madreperla. 

Taro aveva anche tanto bisogno di correre ma allo stesso tempo, a causa del suo spirito indipendente e dei geni ereditati in linea diretta dal lupo, non poteva essere lasciato libero.

Mi consigliarono quindi di comprare un apparecchio di metallo fatto apposta per collegare il cane alla bicicletta senza sbilanciamenti reciproci. Cominciammo quindi a fare lunghe passeggiate, io e Taro, con la mia mountain bike.

Verso la metà di giugno avevo l’orale dell’esame da giornalista professionista. Quando non lavoravo in redazione, studiavo. Poi per svuotare la mente andavo in passeggiata con Taro. Un giorno eravamo per la strada delle Lellere, dove non c’era ancora nulla se non terre incolte. Mi fermai per qualche ragione e sganciai la pettorina di Taro dall’apparecchio che lo legava alla bici. Prima che potessi chiudere il moschettone del guinzaglio Taro era sparito. Lo chiamai urlando sempre più forte, feci dei giri in bici alla disperata, ma niente. Si era dissolto nella vegetazione selvaggia dove io, con i miei pantaloncini e le scarpette da ginnastica, non potevo nemmeno sognarmi di entrare.

Tornai a casa distrutta, ero sicura che non avrei più rivisto Taro. E tutto per un attimo di distrazione.

Feci denuncia di smarrimento dai vigili, la sera con babbo girammo in macchina dietro alle Lellere fino a tardi sperando di vederlo, ma niente. 

Anche mamma era molto preoccupata, ma più per me che per Taro. Temeva infatti che in preda all’angoscia avrei mandato all’aria l’esame da giornalista. 

La mattina dopo babbo rispose al telefono. Poi mi disse: l’hanno trovato.

È vivo? Fu il mio unico pensiero.

Lui sì, disse babbo.

Scoprimmo che Taro aveva fatto poca strada. Dalle Lellere era risalito fino al Paradiso dove era stato attratto dalle gabbie dei conigli di una famiglia di contadini. Con il suo musetto era riuscito ad aprirle una ad una e ad uccidere tutti i conigli, con un morso sul collo, ma senza mangiarli.

Poi si era steso a riposare sull’aia dove l’aveva trovato il padrone di casa di prima mattina. 

Babbo pensava già a fare i conti di quanto avremmo dovuto rimborsare per ogni coniglio. Per fortuna avevamo l’assicurazione. 

Io non vedevo l’ora di riabbracciare il mio Taro.

Babbo andò a prenderlo con la macchina. Quando tornò ci disse che quei contadini avevano voluto sapere di preciso chi fosse e, una volta capito di chi era figlio, gli avevano fatto una grande festa. Nonno Corrado era stato il capo dell’anagrafe comunale in un tempo in cui la maggior parte delle persone era analfabeta. Per lui era normale aiutare chi gli si rivolgeva per scrivere una lettera o leggere un documento. 

Per queste persone, invece, avere un punto di riferimento onesto e disinteressato significava tantissimo, anche per essere sicure di non venire raggirate. 

Anche il contadino di Taro era tra questi e per lui la perdita dei conigli non era niente in confronto a quello che aveva ricevuto tanti anni prima.   

Babbo insistette ma loro dicevano che non volevano niente. Fu invitato ad entrare in casa a bere vino e mangiare salame e alla fine tornò a casa con il fuggitivo. 

Noi decidemmo comunque di fare un regalo a quella famiglia, una bottiglia di liquore, in segno di gratitudine e riconoscenza, ma fu veramente difficile fargliela accettare.

Oggi ripenso a quelle persone e rimpiango tutto un mondo che abbiamo perso.

Non so se la fortuna di averlo conosciuto basta a consolarmi. 

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Il capriolo

Una sera di tanti anni fa, con due amiche, andai a cena a Radicondoli, da un’altra amica che allora aveva un ristorante.

Andammo con la mia macchina, che all’epoca era la Fiat 500 rossa che mi aveva regalato babbo, quella con i coprisedili a disegni colorati stile Keith Haring. Già all’andata era buio e, sia per la strada piena di curve e costeggiata dal bosco, sia per il traffico scarso, tenevo gli abbaglianti. Per fortuna.

A un tratto fu come se esplodesse un flash. Sulla destra i fari illuminarono una massa chiara che sembrava volare verso di noi. Sterzai tutto a sinistra e frenai. 

Urlammo tutte.

Sentii un piccolo colpo, come il rimbalzo di un pallone, sempre sulla destra.  

Era un capriolo. 

Dopo essere rimbalzato sulla portiera della macchina, cadde a terra, agitando le zampette sottili. Ma si rialzò subito e fuggì nel bosco da dove era venuto.

Noi ci ritrovammo da sole, in mezzo a una strada deserta, nel buio, a chiederci che cosa fare. Per fortuna già esistevano i telefoni cellulari. Chiamai la mia amica e le dissi che cosa era successo. Disse che avrebbe avvisato la forestale che sicuramente avrebbe fatto un sopralluogo per controllare se l’animale fosse ferito. Intanto potevamo rimetterci in marcia.

  • Io veramente volevo cercare il capriolo. Pensavo di caricarlo dietro, così potevamo vedere subito se gli era successo qualcosa.
  • Ma sei pazza? Disse la mia amica.

Controllammo la macchina. C’era solo una piccola infossatura sullo sportello. Quasi non si vedeva. Ripartimmo, un po’ scosse. 

Ancora non mi ero trasferita nel capoluogo montano di una provincia montana, per cui le mie conoscenze in fatto di fauna selvatica al tempo erano condizionate dai ricordi dei dolci animaletti parlanti, gufi, aquile e cerbiatti, dei cartoni Disney. 

Cominciai forse in quell’occasione a capire, per quanto oscuramente, che non era affatto così e che il nostro mondo civilizzato, compresi boschi e campagne, era separato nettamente da quello selvatico e che l’unico modo per aiutare questa fauna era di cercare di averci a che fare direttamente il meno possibile. Figurarsi pensare di caricare un capriolo vivo in auto.

  • Bevete qualcosa? Disse la mia amica quando arrivammo al ristorante.
  • Io qualcosa di forte.

Non mi era mai successo prima. Qualcosa di forte, un cognac (non bevo superalcolici), mi serviva come scossa per ammortizzare l’altra scossa ben più forte dell’investimento del capriolo. 

Non è successo mai più.

Comunque funzionò.

Continuai a preoccuparmi per la sorte del capriolo. Nei giorni successivi, mi disse la mia amica, i forestali avevano girato il bosco vicino a dove c’era stato il piccolo incidente e non avevano trovato niente.

Sicuramente, dissero, l’animale stava bene e si era allontanato per tornare alla sua vita selvatica.

Ringrazai la natura o chi per lei che aveva creato animali tanto graziosi e allo stesso tempo tanto resistenti.

Qualche giorno fa è capitato di riparlare con la mia amica proprio di questo fatto. 

  • Sicuramente è morto qualche giorno dopo – ha detto del capriolo -. Ho saputo che quando prendono una botta non si ripigliano più.

Un’altra piccola illusione crollata.

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Ercolino ci riprova

Dopo la prima fuga di Ercolino, rafforzai le misure di sicurezza per evitare nuovi imbarazzanti episodi. Ercolino però, assaporato il gusto dell’avventura, mordeva il freno. Alla fine avevamo raggiunto un compromesso. Quando tornavo dal lavoro, a sera inoltrata, Ercolino poteva fare un giro sul davanzale. Sempre che l’anziana vicina avesse chiuso la sua finestra.

Lo studiolo infatti aveva questa caratteristica: una finestra larga quanto la parete, molto alta, stile mansarda, che affacciava sui tetti. La vicina aveva una stanza gemella e il davanzale, largo un’ottantina di centimetri, era unico per entrambe. 

Quello era il giardino di Ercolino. Era lì che faceva due passi o stava seduto a guardare i tetti o ad ascoltare la musica e il rumore della gente, nelle sere di festa.

Per controllare la finestra della vicina dovevo salire su una sedia, appoggiare un piede sul mobile scrivania e sporgermi sulla sinistra.

Quella sera era chiusa e pensai che lo sarebbe rimasta, visto che erano ormai le dieci passate. 

Qualche tempo prima avevo chiesto all’anziana vicina se per favore poteva tenere chiusa quella finestra, almeno la sera. La sua casa, grandissima, aveva due terrazze spaziose e per arearla non le serviva sicuramente la finestrina della cameretta.

Rispose, come al solito, stizzita, che non poteva mica stare a pensare ai comodi miei, e poi per un gatto, che solo una pazza eccetera eccetera.

Ragion per cui mi sporgevo e controllavo.

Quella sera però Ercolino non rientrò.

Salii a controllare il davanzale e constatai, con raccapriccio, che la finestrella era dispettosamente aperta. 

Dio dei Gatti, ti prego. Fa’ che non debba andare ancora una volta a suonare alla vicina. Fai che Ercolino rientri da dove è uscito…

Pur di non presentarmi ancora una volta a quella porta, decisi di agire in modo diverso.  

Salii sulla sedia, appoggiai il piede sul mobile scrivania e mi arrampicai sul davanzale. Era largo abbastanza per starci distesa. Strisciando verso sinistra sarei arrivata alla finestra incriminata. Forse mi sarei potuta calare all’interno della cameretta gemella, prelevare Ercolino e tornare in casa senza dover disturbare nessuno. 

Mi armai di una pila e strisciai, tenendomi forte agli stipiti e sforzandomi di non pensare troppo al fatto che sulla destra avevo un vuoto di quattro piani.

In ogni caso, strisciando strisciando, arrivai davanti alla finestra. 

Ercolino era lì, seduto in mezzo alla stanza che mi guardava. E miagolava.

  • Ercolino, vieni, su, tesoro, fai il bravo…

Era facile. Bastava che facesse qualche passo, saltasse sul lettuccio e da lì sul davanzale della finestra. Ma Ercolino non si spostava di un centimetro. Se ne stava in mezzo alla stanza, nella sua posa elegantissima di gatto nero, con le due zampine appoggiate davanti, e mi guardava. Miagolava a modo suo, muovendo solo la bocca, come Salem di Sabrina vita da strega.

Considerai di calarmi all’interno ma, vedendo il lettuccio sotto la finestra, dubitai fortemente che sarei riuscita a tornare indietro. Inoltre, tutto quel movimento notturno, sospesa al quarto piano senza una ringhiera né una balaustra, cominciava a preoccuparmi un bel po’. 

Potevo immaginare i titoli di giornale, del mio giornale. 

Sfracellata in pieno centro – Precipita dal quarto piano mentre cerca di recuperare il gatto.

Insistetti ancora con Ercolino. Quando capii che non c’era niente da fare, strisciai all’indietro, piano piano, e rientrai in casa.

Ormai, purtroppo, sapevo che cosa dovevo fare. Aspettai l’ora giusta, intorno a mezzanotte, quando la vicina avrebbe spento il televisore e si sarebbe tolta le cuffie, e suonai.

Andò tutto come l’altra volta, eccetto per il fatto che Ercolino scelse di nascondersi nella camera della vicina anziché nello studiolo.

  • Oddio, aiuto. Un gatto nella mia camera! Lo faccia uscire, che paura…

Anche stavolta, dopo rincorse e inseguimenti, riuscii a prenderlo e a mettermelo in spalla. Mi raccomandai alla vicina di fare silenzio, per favore, per non spaventarlo, pur sapendo che non mi avrebbe ascoltato.

  • Ah, lui è spaventato? E allora io?

Ringraziai, mi scusai, salutai e corsi in casa dove mi chiusi la porta alle spalle e feci lo stesso con la finestra sui tetti. 

Il giorno dopo incaricai un amico di comprare delle listarelle di legno e un po’ di rete da pollaio per costruire una gabbia da fissare sul davanzale.

Fu questo il tributo da pagare per una sconsiderata libertà.

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La prima fuga di Ercolino

Un giorno nella casa di Belluno vennero a togliere i radiatori. La mia prima preoccupazione fu per Ercolino, gatto pauroso e terrorizzato da ogni estraneo. Pensai di chiuderlo nella cucinetta, con cuccia, lettiera, acqua e croccantini, giusto per il pomeriggio.

Fra l’altro era l’unica stanza senza termosifoni, non ci sarebbe entrato nessuno.

Lasciai le consegne agli operai e tornai al lavoro. Quando la sera rientrai, Ercolino non era ad aspettarmi dietro la porta. Aprii l’anta scorrevole della cucina, ma niente. Non era nemmeno lì. 

Cercai in ogni stanza, negli armadi, nei cassettoni, ovunque avrebbe potuto nascondersi. Ma sapevo già che non c’era. Sentivo il vuoto della sua assenza.

Andai a cercarlo per le scale, suonai qualche campanello. Di Ercolino nemmeno l’ombra. 

Tornai su con l’angoscia nel cuore. Se fosse finito in strada, scappando impaurito dagli operai, se la sarebbe cavata? Non potevo nemmeno pensarci.

Nel silenzio, mi sembrò di sentire un miagolio.

  • Ercolino! Dove sei? 

Ancora un altro, flebile, lontanissimo.

Il miagolio veniva dalla sua stanzetta, cioè dallo studiolo e ripostiglio. Riaprii armadi e cassetti, dove avevo già guardato, ma ancora niente.

Eppure miagolava. Il suono sembrava venire da fuori ma in basso, come da dentro il muro. Mi affacciai alla finestra sui tetti, anche lì niente. 

Era rimasta un’unica possibilità. Chiedere all’anziana vicina, donna a me ostile e che odiava gli animali. 

Feci un respiro e suonai. Nessuna risposta. 

La signora dopo cena seguiva i talk show in tv con le cuffie. Finché non fossero finiti non mi avrebbe sentito. Rientrai in casa e cercai di distrarmi smangiucchiando qualcosa. 

Verso mezzanotte ripresi coraggio e suonai di nuovo. Alla fine sentii urlare.

  • Chi è?

Purtroppo ero io, la vicina che lei non sopportava. E per di più avevo perso il gatto. 

– Credo che sia entrato in casa sua.

– Qui non c’è nessun gatto – rispose lei -. Ci mancherebbe altro. Io ho paura degli animali. 

– Eppure ci deve essere, lo sento miagolare.

Ribadì che era impossibile ma si decise ad aprirmi la porta.

Mi scusai tantissimo mentre lei ripeteva che se ci fosse stato un gatto in casa se ne sarebbe accorta, tra l’altro quegli animali le facevano una gran paura. In quel mentre vidi una macchia nera spostarsi alla velocità della luce.

  • Eccolo. È entrato in quella stanza…
  • Secondo me se lo è immaginato. In ogni caso vada pure a vedere, ma sono sicura che non c’è nessun gatto.

Ercolino era proprio in quella stanza che purtroppo aveva una portafinestra. Aperta. 

Fuggì di nuovo. Lo seguii, con la signora che mi veniva dietro ripetendo che tanto era solo un frutto della mia fantasia.

  • Qui che c’è? le chiesi di fronte a una porticina socchiusa.
  • Un ripostiglio.
  • Posso entrare?
  • Faccia pure, tanto ormai…

Ercolino era là, fra sacchi di patate, agli e cipolle. Ma appena mi avvicinai scappò di nuovo. 

  • Là non ci arriva di sicuro, disse alle mie spalle la voce sarcastica della vecchietta.
  • Perché, che cosa c’è?
  • È un corridoio stretto che circonda la casa come un sotto tetto. Ma una persona non ci passa mica… Se è andato là non lo rivede mica più il suo gatto.

Ecco, ora che poteva prevederne la morte per stenti, il gatto era diventato reale anche per lei.

  • Signora, abbia pazienza. Faccio un salto a prendere i croccantini, torno subito. Le chiedo solo un piacere, se può stare distante. Quando lo avrò preso filerò in casa diretta, ma lei non dica niente, non si faccia sentire. È paurosissimo.
  • Ma come, mi lascia da sola in casa con un gatto?

Schizzai alla velocità della luce e tornai con il ciottolino dei croccantini. Entrai nel ripostiglio e lo appoggiai a terra, non troppo vicino alla porta ma nemmeno troppo lontano. Uscii.

  • Ha visto che non è venuto? 
  • Ora rientro. Può fare silenzio, per favore?

Entrai piano piano, Ercolino non aveva resistito al richiamo del croccantino, anche perché era tutto il giorno che non mangiava. Mi avvicinai lentamente e… lo acciuffai proprio mentre stava per fare un altro balzo.

  • Signora, vado – dissi bisbigliando -. Mi scusi tanto, buonanotte.
  • L’ha preso alla fine… Ah, ma quel gatto è enorme,  che paura. In casa mia non era mai entrato un animale prima d’ora…
  • Signora, per favore – sussurai -. Può stare zitta che lo impaurisce?

Se non lo avessi stretto forte, Ercolino sarebbe scappato di nuovo. Era terrorizzato. Sentivo le sue unghie conficcarsi nella mia spalla. 

La vicina invece era un fiume in piena. Mi seguiva blaterando a voce alta che ero una pazza, che solo una pazza poteva tenere in casa un gatto così, che lei sarebbe morta di paura, un gatto in casa sua, oddio!, chi l’aveva mai visto… 

Mi chiusi la porta alle spalle e, nel silenzio, liberai Ercolino. 

Ce l’avevamo fatta.

Il giorno dopo spedii un gran mazzo di fiori alla vicina, per scusarmi del disturbo. Sperai che il gesto potesse valere anche come segnale di pace.

Ma su queste cose, purtroppo, sono sempre stata un’illusa.

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Il gattino siberiano

Qualche anno fa abbiamo cominciato a vedere un gatto nuovo, un altro, girellare nei campi sotto casa. Un giorno che ero andata giù con mamma per sistemare la pompa dell’acqua, abbiamo chiesto al rumeno se fosse suo.

Disse di no, che anche lui lo vedeva girare da un po’, che gli aveva dato dell’acqua e qualcosa da mangiare, ma non era suo.

Il gatto era bellissimo e molto dolce, si faceva avvicinare senza problemi e aveva un pelo di seta. Di sicuro aveva una famiglia da qualche parte.

In ogni caso, poco tempo dopo salì fino a casa nostra. Così toccò a me mettergli un ciottolino con l’acqua e un altro con il cibo e tenerlo alla larga dagli altri energumeni felini di casa. 

Fosse stato per me, l’avrei tenuto senza pensarci due volte. Mamma invece cominciò a martellarmi: questo gatto deve andare via, scrivi un appello per cercare i padroni, se non ci pensi te lo fo io ma lo metto nel bosco. E così via.

Qualcuno mi disse che in un certo ambulatorio veterinario c’era un appello per un gatto simile. Ci andai ed era vero. Cercavano proprio lui.

Un gatto siberiano.

Chiamai subito il numero indicato e, dalla descrizione che feci a un incredulo proprietario, sembrava proprio che fosse il gatto giusto. Poi misi giù e, come al solito in ritardo, pensai: azz, un gatto siberiano!

Uno di quei gatti che possono stare con gli allergici al pelo di gatto, uno di quei gatti che i figli di mia cugina vorrebbero comprare e per questo mettono da parte cinque euro su cinque euro per arrivare a mille.

Che bella sorpresa sarebbe stata per loro! 

Finita la telefonata tentai di rientrare in macchina, ma ero rimasta chiusa fuori. Era bastato che scendessi per guardare dentro all’ambulatorio lasciando dentro le chiavi che per qualche motivo erano scattate le chiusure automatiche. 

Meno male che avevo il telefono con me.

Richiamai il probabile proprietario del gatto e ci accordammo perché, dopo essere passato da casa mia a vedere se il micio era proprio il suo passasse nel posteggio del veterinario per aiutarmi a riaprire la macchina. 

Finalmente arrivò, su un grosso suv. Era un padre giovane con un bambino di sette-otto anni al fianco, con il gatto stretto in braccio.

Abitavano in un altro comune ma in linea d’aria la loro casa non era molto distante dalla nostra. Era più che plausibile che il gattino si fosse allontanato per qualche motivo e, solo attraversando alcuni campi, fosse arrivato direttamente fino da noi. 

I siberiani, mi disse il padre, in realtà erano due, entrambi cuccioli. Un giorno la famiglia era rientrata a casa e non li aveva più trovati.

Uno era ricomparso una settimana dopo, in un posto non molto lontano. L’altro invece, cioè il “nostro”, mancava ormai da una quindicina di giorni e avevano quasi del tutto perso la speranza di ritrovarlo.

Potevo immaginare la loro felicità. E la loro gratitudine, anche.

Mentre il babbo trafficava con la mia auto per riaprire lo sportello, mi avvicinai al bambino che teneva il gattino stretto in braccio. 

  • Fammelo salutare un’ultima volta, bello lui.
  • È di razza purissima, fu la risposta, abbastanza bizzarra, del bambino.

Mi feci dire il nome, un’inutile accozzaglia di lettere che mi sforzai di dimenticare subito.

Poi ci fu una metamorfosi. Il piccolo viso si trasformò in una maschera, i muscoli del collo e la mascella tutti tesi e la bocca contratta in un ghigno da grande.

  • Sono stati i vicini a portarlo via… lo so io, lo so, disse alzando il mento a rafforzare la sua accusa.

Non trovai alcuna parola con cui rispondergli.

Intanto il gattino si faceva accarezzare, morbido e rilassato. 

  • Ora però deve bere, ha sete. È tanto che non beve, disse ancora quel bimbo.
  • Come lo sai?, gli chiesi.
  • È fuori di casa da tanti giorni, ora deve bere e mangiare sennò muore.

Mi stavo innervosendo.

  • Ma guarda che a casa nostra ci sono altri gatti ed è pieno di ciotole di acqua e cibo, e lui ha mangiato e bevuto ogni volta che ha voluto. E anche quelli del campo di sotto che lo avevano visto prima di noi gli hanno dato da bere e da mangiare…, dissi con il tono metallico della rabbia trattenuta.
  • Ora devo chiudere il finestrino perché sennò scappa di nuovo, disse il nostro piccolo eroe, stringendo ancor più la povera bestiola a sé.

Ecco, se c’è una buona azione di cui mi sono pentita è questa. Anche se, a dire il vero, essendo cresciuta con la sindrome da Giovane Marmotta, di buone azioni di cui pentirmi ne ho collezionate un bel po’. In ogni caso sarebbe stato meglio telefonare ai bambini di casa e dire loro, ho trovato il gattino che cercate. Avrei avuto più soddisfazione. Probabilmente anche per il micio. E lo avrei chiamato Ivan, al posto di quel nome ridicolo da gatto di pezza.

Accanto al cartello del micio siberiano, nello studio veterinario, ce n’era un altro, di un gatto comune che si era perso, i cui proprietari promettevano una ricompensa per chi li avesse aiutati a ritrovarlo.

Il siberiano invece è stato riconsegnato gratis e senza un grazie, dopo essere stato accudito per giorni e pure con l’impegno della ricerca dei padroni.

La mia solita fortuna.

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Una pazza a giro per Venezia

Oggi, se vado a Venezia, mi perdo come un Pollicino senza sassolini. Ma c’è stato un tempo, una venticinquina di anni fa, che non era affatto così.

Al termine della mia prima sostituzione a Mestre un collega mi disse, e ora che programmi hai? Potresti visitare la Biennale d’Arte, ti accrediti gratis e puoi andarci tutti i giorni che vuoi.

Lo presi in parola.

Armata di una piantina della città, con il mio accredito in borsa, partivo ogni giorno in treno da Treviso, dove abitavo, per scendere alla stazione di Santa Lucia. L’estate stava per finire e la luce già pronta all’autunno rendeva a Venezia i suoi colori.

Iniziai dai Giardini della Biennale, poi passai alle mostre sparse tra chiese e palazzi. La mia vacanza artistica si arricchiva di giorno in giorno. Esaurite le esposizioni della Biennale, continuai a marciare per calli e campielli, visitando tutto il possibile.

Il collega mi aveva raccomandato di non perdermi le Scuole Grandi, San Rocco, San Marco, i Carmini. E poi ricordati, mi disse, del Tiziano in Santa Maria dei Frari.  

I primi giorni dovevo studiare la cartina abbastanza spesso. Quando i cartelli indicatori mancavano o non segnavano quello che cercavo io, mi fermavo, spianavo la pianta della città e cercavo di capirci qualcosa. 

Un giorno mi si avvicinò un tizio, grassottello con pancia, stempiato sul bianco-grigio, abbigliamento casual, chiedendomi se avessi bisogno di una mano. Anzi, attaccò direttamente con may I help you? Gli dissi dove volevo andare e lui mi suggerì di seguirlo, mi avrebbe mostrato lui la strada. 

Intanto cominciò con le domande, come mi chiamavo, da dove venivo, se volevo bere qualcosa.

No, grazie. Vado di fretta.

Ma a Venezia non bisogna avere fretta.

Purtroppo per lui all’epoca ero una ragazza che correva sempre, voleva fare più cose possibili e non si stancava mai. Per cui lo salutai e, anche se dovetti insistere ancora un po’,  finalmente riuscii a togliermelo di torno. 

Dopo un po’ quell’intricato labirinto di calli cominciò ad avere meno segreti per me. Avevo i miei punti di riferimento e potevo girare per tutta Venezia senza perdermi, da Castello a Cannaregio. Avevo imparato anche dove erano i ponti per attraversare il Canal Grande. 

Furono giorni intensi, pieni di arte, di spuntini ai bar dei musei, di lunghe camminate, di corse per non perdere il treno, di biscotti veneziani acquistati nei panifici.

Ogni mattina decidevo dove sarei andata quel giorno, ma il programma poteva anche cambiare, aggiungendo un monumento scoperto per caso o consigliato da qualcuno.

Ero famelica. Non avrei voluto perdermi niente di tutta quella bellezza. Venezia mi ossessionava con i suoi canali, le sue pietre e i tesori nascosti. Di tutte quelle visite fatte di corsa come un bulimico di arte, rimangono pochi ricordi affastellati l’uno sull’altro. Su tutti la mancata visita alle Gallerie dell’Accademia (per fortuna recuperata pochi anni fa) per gli orari incompatibili con i miei folli giri.

Ripensando a quei giorni in laguna, oltre a vedermi camminare sostenuta e decisa verso la mia mèta, esplodono come piccoli flash delle immagini isolate.

Una volta, mentre scendevo dal campanile della Basilica sull’isola di San Giorgio, un frate mi chiese se ero americana. A malincuore risposi di no, al tempo ero fissata con gli Stati Uniti, ma la domanda almeno mi mise di buonumore.

Quando uscii dalla casa museo di Peggy Guggenheim, che da allora è uno dei miei posti preferiti al mondo, scoprii che aveva fatto seppellire i suoi cani tibetani in giardino, dove riposa anche lei. 

Un altro giorno invece ero all’imbarco di piazza San Marco quando sentii qualcuno che diceva, may I help you? Mi girai e vidi il tizio, grassottello con pancia, stempiato sul bianco-grigio, abbigliamento casual, che tampinava un’altra turista.

Si vede che doveva essere proprio il suo mestiere. Chissà se gli rendeva, e come.

In ogni caso, non mi sforzai nemmeno di reprimere lo scoppio di risa e dentro di me ringraziai per essermene liberata in un attimo.

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Il verso della rana

La prima volta che montai a cavallo fu a Sibari, nel maneggio dietro al campeggio, durante le vacanze di seconda o terza liceo. L’istruttore faceva parte del gruppo degli amici della spiaggia così venne abbastanza facile accordarsi per delle lezioni che potemmo fissare, però, solo dopo aver superato la strenua opposizione di babbo, che sosteneva si trattasse di uno sport troppo costoso.

Al primo incontro l’istruttore mise le mani a cestino, mi disse di appoggiarci il piede destro e di infilare, alzandomi, il sinistro nella staffa. Sempre da sinistra, si sale, mi disse.

Poco prima mi aveva brontolato perché ero passata dietro ai cavalli. 

Non farlo mai più, disse. Per fortuna non ti è successo niente. Ma posso raccontarti di uno che passò dietro a un cavallo mentre portava una sella in braccio, e il calcio, oltre a sfondare la sella, lo fece volare per dieci metri.

Non avevo ancora iniziato e già avevo maturato il senso dello scampato pericolo.

In ogni caso, misi il piede sinistro nella prima staffa, sedetti sulla sella e infilai anche il destro. 

Poi fu la volta delle briglie, come si tengono e come si tirano per determinare la direzione del cavallo. Subito dopo, con il cavallo tenuto per una lunga corda, mi fecero girare in tondo, per prendere confidenza.  

Il cavallo andava al passo e io cominciavo a imparare come si stava in sella, come si dovevano usare i muscoli dell’interno coscia (qualche anno dopo qualcuno mi disse che si chiamavano muscoli della verginità e che si usavano solo per andare a cavallo. Oltre che per difendere la virtù, naturalmente). 

Poi l’istruttore disse, ora passiamo al trotto.

Fai il verso della rana.

Continuavamo a girare in tondo e il cavallo camminava tranquillo.

Continua con la rana, così parte il trotto. 

Niente.

Andammo avanti ancora un po’ con il fai la rana, perché il cavallo non parte? Poi l’istruttore mi chiese, mi fai vedere come lo fai il verso della rana?

E io: waaaa, waaa, come la rana dalla bocca larga.

Ma no, non è così, disse. Il verso si fa arrotolando la lingua verso il palato e schioccandola. Prova.

A quel punto il cavallo partì e io dovetti imparare la difficile arte di adattarmi al suo ritmo senza battere troppe culate. 

Qualche giorno dopo, ero stesa su una sdraio a leggere un libro e babbo mi disse, o che hai combinato lì didietro? Mi guardai le cosce e vidi che erano completamente nere. Un unico enorme livido. Evidentemente sul ritmo del trotto c’era da lavorare ancora un po’. 

Un giorno mi vennero a cercare in campeggio. 

Eugenio ha chiesto di te. È a letto con la febbre a quaranta. 

Ma che è successo?

È caduto da cavallo e si è rotto un braccio. Ha battuto anche la testa ma niente di grave.

A sedici anni il mio istinto infermieristico era abbastanza sommerso. Altri istinti invece, legati anche al fatto che Eugenio era il ragazzo più bello del mondo con quei due laghi verdi al posto degli occhi, mi fecero correre a casa sua, dove lo trovai a letto, in semi delirio, circondato da servitori adoranti. Le operazioni erano dirette dall’inflessibile mamma, quella che anni dopo mi avrebbe fatto il terzo grado al telefono, rifiutandosi di darmi il nuovo indirizzo del figlio.

Che ci facevo io lì? 

Ermengarda, è arrivata Ermengarda, disse Eugenio. Ermé, siedi sul letto e stai qui con me.

Già, in quella vacanza calabra a un certo punto cominciai ad essere chiamata Ermengarda dopo che qualcuno durante le presentazioni aveva detto stupito, noooo, ma davvero ti chiami Simona? Non ci posso credere. 

Infatti mi chiamo Ermengarda, dissi io. E da allora…

Eugenio era il figlio di un commerciante di un paese vicino. Ai ragazzi del gruppo non piaceva. Troppo bello, troppo ricco, troppo di tutto. Con le ragazze il discorso era diverso.

Gli chiesi della caduta. Ma insomma, come è successo? Anche perché lui era bravo, mica uno che faceva la rana dalla bocca larga.

C’era stato uno scarto improvviso del cavallo, uno stivale si era incastrato nella staffa e lui era finito giù per terra.

Mi dissero che chiedeva sempre di me, così tornai diverse volte a trovarlo. La mamma preparava il tè e controllava dalla porta.

Qualche tempo dopo fu lui a telefonarmi dicendomi che sarebbe venuto a Siena con la gita della scuola. Quella volta ci trovammo in piazza del Campo, a Fonte Gaia. Io ero con un’amica, facemmo un giro, bevemmo una Coca e poi lo riaccompagnammo al pullman. 

Non l’ho più rivisto. E non ho più avuto il suo numero di telefono.

Non credo che la mamma fosse preoccupata tanto per le ragazze che giravano intorno al figlio. Ho sempre avuto l’impressione che si trattasse di altro, qualcosa di molto serio. L’ho sentita troppo guardinga al telefono. Terrorizzata, forse.

Non bastava che fossi l’Ermengarda di un’estate, quella che il figlio voleva accanto a sé mentre era bloccato a letto per la caduta da cavallo. Per evitare certi pericoli, immagino, serve ben altro.  

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