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Uno spauracchio a Pantelleria

Appena scesa a Pantelleria andai a ritirare la macchina a noleggio. Era una pandina bianca vecchio modello. La spesa era esigua e comprendeva anche una Vespa a cui dovetti rinunciare a malincuore. Il titolare mi disse che sarei potuta andare a prenderla quando volevo, per quella settimana era mia. Ma non lo feci.

Mi diressi verso Scauri. A un bivio mi aspettava il ragazzo dell’agenzia che mi accompagnò a casa. Salimmo una scaletta esterna di mattoni e cemento. 

  • Qui abito io, disse indicando una porta nascosta da una tenda scacciamosche in cordino.

In fondo c’era l’appartamento in cui avrei passato la settimana. Un salotto con le finestre sul mare colore del topazio e le tende che volavano con il vento, una piccola cucina, una camera da letto e un bagnetto con la doccia minuscola.

  • Oggi vieni a pranzo da noi, mamma ha fatto la caponata.

La vacanza iniziò con un’aria di famiglia e l’accoglienza siciliana, calorosa e avvolgente, ma mai opprimente. Nei giorni successivi, ogni volta che rientravo a casa, trovavo un vassoio coperto da un panno su un tavolinetto fuori dalla mia porta. Una volta c’erano dei dolci fritti, un’altra dei cannoli, o della pasta al forno, piatti di carne, pesce o verdura. Tutto buonissimo. 

La prima sera andai a mangiare una pizza al porto. Faceva ancora molto caldo, anche se era la fine di ottobre. Di turisti ce n’erano pochissimi e la maggior parte dei locali aveva già chiuso, ma quelli che rimanevano aperti erano sufficienti. 

Quando andai a comprare le sigarette feci amicizia con il tabaccaio. Una sera mi invitò a mangiare il vero pesce spada alla pantesca in un ristorante sul porto. 

Fuori dal locale c’erano degli anziani seduti sulle sedie, qualcuno con un bastone in mano. Lui salutò tutti e loro risposero con il sorriso furbo e gli occhi stretti di chi sa. 

Al tempo fumavo abbastanza per cui le mie visite dal tabaccaio erano piuttosto frequenti.  

Diventammo amici e lui si offrì di farmi da guida in una Pantelleria quasi deserta. Mi sentii molto fortunata. Di giorno giravo l’isola da sola sulla Pandina, andavo al lago Specchio di Venere, un cratere argilloso dove non si riesce a stare in piedi, e infatti appena ci entrai dentro battei una musata in avanti. Per fortuna sull’acqua. Un po’ seguivo i consigli del tabaccaio, un po’ giravo a caso, tanto ovunque andassi c’era qualcosa da scoprire. Solo una volta non ebbi il coraggio di raggiungere una spiaggia per la quale dovevo attraversare una lunga steppa rocciosa e deserta. 

Un giorno il tabaccaio mi portò a delle vecchie terme romane insieme a degli amici, dei signori di Roma habitué dell’isola. Erano delle vasche scavate nella pietra dentro una grotta, in cui stillava acqua con una qualche proprietà. Lì, sempre su indicazione del tabaccaio, raccolsi delle pietre pomice che si trovavano per terra un po’ ovunque. 

Fra i turisti romani c’era un anziano giornalista, che scoprii essere lo zio di un collega che veniva spesso agli eventi che organizzavamo nelle Crete con gli amici giornalisti di Siena. Con lui un giorno salimmo su una sorta di montagna in cima alla quale c’era una sauna naturale in mezzo alle rocce. Dall’alto vedevamo distese di vigneti a perdita d’occhio fino al mare, con le caratteristiche piantine basse. Di notte invece brillavano le luci della vendemmia nella tenuta Donnafugata. 

Il babbo del tabaccaio aveva certi affari in Tunisia, molto più vicina a Pantelleria rispetto alla Sicilia e spesso era via. Quando tornò  ci invitarono a cena nella casa sopra il tabacchino, me e l’anziano giornalista, a mangiare il cus cus come lo facevano loro, con il pesce. 

Se il figlio era un po’ rotondo e aveva l’aria placida, il padre era magrissimo e nervoso, aveva il fisico nodoso e gli occhi da falco. Mi trattava come se fossi roba sua.

La casa era un po’ scalcinata e denunciava la mancanza di un tocco femminile. 

Sembrava di essere dentro allo Straniero di Camus, con il caldo, l’Africa del Nord e un’umanità indifferente e vogliosa allo stesso tempo. 

Non tornai più a casa del tabaccaio e fui contenta di non rivedere il babbo in giro.

Con l’anziano giornalista invece, quando rientravamo al porto dai nostri giri diurni tra spiagge, mare e saune naturali, avevamo preso l’abitudine di fermarci in un bar pasticceria che faceva delle cassate da sogno.

La prima sera, quando cenai da sola al porto, avevo notato lungo la via un tipo curioso. Era alto, magro, con dei folti ricci neri, l’aria spiritata e vestito tutto di nero come un pipistrello.

Dopo un po’ me lo ritrovai al tavolo che mi parlava di cose che non mi interessavano e non se ne andava più. Tra un mezzo delirio e l’altro, mi raccontò che lavorava in ospedale ed era tecnico radiologo.

Alla fine riuscii a mollarlo.

Chiesi un po’ in giro e venni a sapere che era un tizio con dei problemi di vario tipo, tra cui alcune denunce da parte di pazienti con le quali aveva allungato le mani. Qualcuno mi disse che era stato sospeso dal lavoro, nonostante lui andasse in giro a raccontare che faceva questo e quello.

Nella mia settimana pantesca fui impegnata così anche a svicolare dagli agguati del tipo, che non mancava di seguirmi e farsi trovare magicamente nei posti in cui andavo.  

Un vero incubo. 

Una sera, mentre tornavo alla casetta di Scauri sulla Pandina bianca, me lo trovai in mezzo di strada dopo una curva, lui steso a terra e la sua motoretta poco più in là. Appena mi vide cominciò a farmi gesti e ad allungare le braccia come a chiedere aiuto. Feci una manovra repentina, lo scansai e proseguii per la mia strada, urlando nooo nooo.

Arrivai a casa, fermai la macchina in cortile e corsi su per le scale. Mi chiusi la porta alle spalle e finalmente mi sentii al sicuro. Per fortuna presto sarei partita e avrei lasciato lo spauracchio nero agli abitanti dell’isola. Che non è che si possa avere sempre e solo cose belle.

(2 – fine)

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La scoperta di Harvey Milk

Nell’autunno del Duemila ero a San Francisco con un amico. Un giorno, mentre passeggiavamo in un parco, conoscemmo Rob. Ci chiese se volevamo salire anche noi su una pietra da dove in passato i poeti declamavano le loro composizioni e così diventammo amici. Rob era un biondino alto e magro che vestiva di nero e vendeva accessori per animali on line. Nel corso della vacanza ci vedemmo più volte. Una sera venne a cena da noi con un’amica. Io preparai gli spaghetti con il pesto fatto in casa portati dall’Italia, il mio amico le cosce di pollo con le cipolle, che vennero buonissime, nonostante il forno con i gradi Fahrenheit.

Ci eravamo sistemati in un attico pieno di finestre a Pacific Heights, grazie ad un home exchange. Rob ci disse che nella casa di fronte alla nostra, ma al di là del parco, ci stava una scrittrice famosa, Danielle Steel, e che spesso i fan si aggiravano nella zona nella speranza di vederla. Un po’ più a sinistra invece abitava una ex sindaca di San Francisco che aveva fatto molto scalpore la volta che si era fatta intervistare da una tv mentre era sotto la doccia.

Una sera andammo noi a casa di Rob, poi uscimmo e lui ci mostrò alcuni luoghi dove Hitchcock aveva girato i suoi film. Come l’albergo con l’insegna intermittente di Vertigo, La donna che visse due volte. 

Un giorno ci trovammo con la sua amica Vanessa, una ragazza molto ricca e un po’ sola, che pagò taxi, cibo e bevute a tutti senza batter ciglio. Con lei ci divertimmo a mimare un ingresso trionfale all’Opera immaginandoci camminare sul tappeto rosso in abito da sera con piume e lustrini, tra le risate divertite degli addetti del teatro. Con Rob e Vanessa andammo anche a una festa nel Marina District, dove il Cosmopolitan scorreva a fiumi. Trascorremmo il pomeriggio a bere cocktail e a cantare con il karaoke in giardino. 

Una sera Rob, mentre passavamo sotto al municipio, ci raccontò la storia di Harvey Milk e di come, nell’anniversario della sua morte (e del sindaco George Moscone), la City Hall si accenda dei colori dell’arcobaleno.

Fu la cosa che mi colpì di più del lungo viaggio a San Francisco. Non riuscivo a credere che in un posto così bello e cosmopolita fosse successa una cosa così terribile.

In ogni caso, dal momento che San Francisco aveva scalzato il posto nel mio cuore fino ad allora occupato da New York, decisi che avrei fatto di tutto per tornare a viverci.

Il primo pensiero erano i soldi. Me ne sarebbero occorsi moltissimi, non solo per le leggi americane sull’immigrazione. San Francisco in quegli anni era al centro del fenomeno economico dovuto alla crescita delle imprese high-tech della Silicon Valley e si era conquistata il titolo di città più cara di tutti gli Stati Uniti.

Speravo che il mio amico mi lasciasse usare una foto che gli avevo scattato mentre si sfilava il maglione sullo sfondo dei grattacieli. Ero piuttosto convinta di potermi mantenere trasformandola in poster da vendere nel quartiere di Castro, simbolo della comunità LGTB di San Francisco. 

Dopo aver scoperto la storia di Harvey Milk, pensai che avrei potuto scrivere un libro sulla sua vita (che sarebbe ovviamente andato a ruba in Europa e in America) permettendomi di vivere in California anche meglio che con il poster. 

Quando tornai a casa cominciai a documentarmi e raccolsi un bel po’ di materiale da diversi siti on line. Pensai però che per scrivere un libro andando veramente a fondo in quella storia avrei dovuto trascorrere un certo periodo a San Francisco per raccogliere testimonianze e intervistare qualcuno che poteva averlo conosciuto di persona. 

Insomma, qualche anno dopo arrivò il film di Gus van Sant con Sean Penn nelle vesti di Harvey Milk e io non avevo ancora scritto niente. 

Nemmeno il mio amico mi ha più detto se potevo usare quella foto per i poster.

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Il Tarallo d’Oro

Un inverno, tanti anni fa, andammo a sciare sul Plan de Corones. Partimmo con il furgone della mia amica, io, lei e una coppia di amici romani. Avevamo prenotato due camere in un garnì di Riscone. Quando arrivammo, io e la mia amica scegliemmo la prima che ci fu mostrata, con gli armadi dipinti alla tirolese sul verdino con i fiori colorati. Ho saputo in seguito che l’altra coppia c’era rimasta male e che quella camera sarebbe piaciuta a loro.

La mattina facevamo le solite colazioni pantagrueliche da montagna, ingurgitando tutto quello che era possibile prima di scoppiare: latte e cereali, yogurt, marmellata di mirtilli, krapfen. Poi ci servivamo al tavolo dei salati e preparavamo dei panini con formaggi e affettati che nascondevamo nello zaino per mangiarli a pranzo.

Quindi ci dividevamo, io e la mia amica agli impianti di risalita, l’altra coppia agli anelli di fondo.

Non sono mai stata una grande sciatrice, in ogni caso quell’anno prendemmo anche un maestro. Uno io, che ero più scarsa, e uno la mia amica, molto più brava.

C’era un’ovovia, o qualcosa del genere, che portava a San Vigilio di Marebbe e attraversava il paese sovrastandolo dall’alto. Ma anche per gli impianti di risalita non ho mai avuto una particolare passione.

In ogni caso la vacanza andava avanti. La sera, dopo cena, ci sedevamo ai tavoli dell’albergo e giocavamo a nomi, cose, città. Una sera ci fu una discussione con il ragazzo della coppia per una parola che avevo scritto io. Fra le categorie avevamo messo anche feste e manifestazioni. Era uscita la T e io avevo giocato il Tarallo d’Oro.

  • E questo che sarebbe? disse lui.
  • E io: una manifestazione pugliese.
  • Secondo me non esiste, io non ne ho mai sentito parlare.
  • Vabbè, che c’entra. Vuoi che in Puglia non ci sia un Tarallo d’Oro da qualche parte?
  • Ah, ma te la sei inventata. Non la conosci nemmeno te.
  • No, ma è possibile che ci sia.
  • Eh, ma così non vale… Ognuno allora può inventarsi qualsiasi cosa.  

Insomma, alla fine venimmo a patti, probabilmente avrò rinunciato al punto o me lo avranno assegnato per mettere pace, ma quella questione del tarallo rimase lì, ferma, sospesa a mezz’aria, mal digerita.

Un pomeriggio di cattivo tempo andammo a Brunico a pattinare sul ghiaccio. La ragazza della coppia, che pronunciava Brunìco con l’accento sulla i, a un certo punto cadde e si fece male a un polso. Proprio quella mattina avevo detto alla mia amica che cominciavo a sopportarli sempre meno. E se vogliamo dirla tutta mi riferiscono che lei cadde dopo che io mi ero girata verso di lei per commentare qualcosa della pista. 

Il marito la portò al pronto soccorso, alla fine si era proprio rotta il polso e ritornò con l’ingessatura. Però era contenta perché non aveva mai visto un ospedale così bello pulito e organizzato come quello di Brunìco e lei che veniva da Roma non aveva trovato le file al pronto soccorso e gli infermieri erano gentili e l’avevano visitata subito e bene e tutto quanto e se le fosse successo a Roma a quest’ora sarebbe stata ancora lì. 

Insomma, alla fine questo piccolo incidente separò un po’ di più le nostre strade perché mentre noi andavamo a sciare, loro si facevano dei giri nei posti vicini in cerca di occasioni vintage nei negozi di articoli sportivi.

Un giorno tornarono entusiasti per aver trovato una salopette blu di tessuto elastico impermeabilizzato con una stella alpina di filo sulla bretella. 

La lontananza del giorno allo stesso tempo rendeva più accettabile la frequentazione della sera. Io poi ero dispiaciuta in quanto mi sentivo anche un po’ responsabile di quanto era accaduto, fosse solo per il desiderio che avevo espresso. Quindi mi sforzai di essere un po’ più accomodante.

Un pomeriggio, verso la fine della vacanza, facemmo un giro a Brunico per scegliere qualcosa da portare a casa. Girammo per le strade del centro, visitammo i panifici, i negozi con i prodotti caratteristici, comprammo pretzel e speck.

A un certo punto, alzando gli occhi, vidi un’insegna in ferro battuto. C’era scritto: Il Tarallo d’Oro. Era una specie di alberghetto, piccolo e ben curato, come tutto in quello zone.

Non potevo credere ai miei occhi.

Riuscii a recuperare un po’ di fiato per urlare: guardate lassù! E scoppiare a ridere.

L’amico prese atto della cosa, ma volle comunque puntualizzare che non si trattava di una manifestazione e non eravamo nemmeno in Puglia.

Però era sicuramente un segno. Qualcuno osa forse pensare di no? 

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Il posto di blocco

Anche quella mattina uscii come al solito intorno alle 10 per andare al lavoro. Quella volta, a dire il vero, era un po’ più tardi. Tanto che, quando andai a salutare il mio cane Taro, un siberian husky bianco e rosso che avevo salvato da una serie di abbandoni, presi la ciotola della pappa e anziché portarla a casa la infilai nel portabagagli della macchina, una Polo Volkswagen bianca usata.

Poi attraversai la città per infilarmi sull’autopalio in direzione Siena, dove lavoravo nella redazione di un giornale. Sarei uscita dopo nemmeno mezz’ora all’Acquacalda, subito dopo il varco per Siena Nord, se nella piazzola prima della galleria una pattuglia della Guardia di Finanza non mi avesse mostrato la paletta intimandomi lo stop.

Misi la freccia a destra e fermai la macchina. 

“Patente e libretto” disse uno dei finanzieri avvicinandosi al finestrino.

Consegnai i documenti.

Mentre aspettavo che me li ridessero indietro con un “grazie, può andare”, uno dei finanzieri mi chiese di aprire il portabagagli.

Era armato e teneva una specie di mitra a tracolla, rivolto verso il basso.

Scesi dall’auto e lo aprii.

“E quella che cos’è?”

“È la ciotola del mio cane”.

“E perché la tiene nell’auto?”.

“L’avrei dovuta riportare a casa ma siccome stavo facendo tardi l’ho lasciata in macchina. Ci penserò stasera quando rientro”.

“Dove sta andando?”

“Al lavoro, sono una giornalista”.

“E dove abita?”

“A Colle Val d’Elsa”

“E ha un cane…”

“Si, certo”

“È sicura che quella sia la ciotola del cane?”

“Ma sì, ci mancherebbe. Quale sarebbe il problema, mi scusi?”.

“Lei non si preoccupi. Quindi lei di solito porta la ciotola del cane in macchina mentre va al lavoro?”

“No, in genere non lo faccio. Stamani mi ci è rimasta perché ero in ritardo…”

“Ma perché ha messo la ciotola nel portabagagli?”  

“Perché non avevo tempo di riportarla in casa, gliel’ho detto. Ero in ritardo”.

Non riuscivo a capire che cosa ci fosse di tanto importante in una ciotola in plastica rossa sporca.  

Continuarono a chiedermi più volte perché avessi quella ciotola e se fosse vero che avevo un cane. E ogni volta ripetevo la storia di Taro che stava nel recinto dietro al garage. Di ogni mattina che andavo a riprendere la ciotola nel recinto e la portavo in casa per sciacquarla cosi che fosse pronta per la pappa della sera. E di quella mattina che invece, essendo in ritardo, avevo cambiato la mia routine lasciando la ciotola in macchina.

L’avevo fatto apposta, era stata una dimenticanza? 

Cominciavo ad innervosirmi. Non solo non capivo il motivo di tanto interesse per una semplice ciotola da cane, non solo stavo rispondendo da un quarto d’ora alle stesse domande. Ma non coglievo la minima utilità in quell’interrogatorio. Senza contare che il mio ritardo stava ormai diventando esagerato e di lì a poco, sempre che mi avessero lasciato andare, avrei dovuto sorbirmi il sarcasmo del capo sulle mie abitudini mattutine. 

“Senta, se vuole telefonare in redazione possono confermarglielo loro che mi aspettano al lavoro” dissi nella speranza di uscire da quell’incubo. 

I Finanzieri si guardarono e alla fine uno di loro disse, “va bene, può andare”.

Schizzai al lavoro. Posteggiai l’auto e salii le scale esterne più trafelata del solito. 

Per giustificarmi del ritardo raccontai la storia assurda del posto di blocco.

“Avranno sospettato che portavi da mangiare nel nascondiglio di uno dei rapiti”, disse una collega.

In quegli anni, all’inizio dei ’90, la Toscana era ancora terra di nascondigli per le persone sequestrate dall’anonima sarda. 

All’improvviso tutto mi fu chiaro. 

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Incontro sulla Quinta Avenue

Camminavo con Luana sulla Quinta Avenue quando ad un semaforo vicino a Central Park sentimmo, Simona.

Io non mi girai. Luana invece al secondo Simona disse, cercano te. 

Si, figurati.

Simona, ancora.

Alla fine mi volto verso la voce e vedo M., un’amica del nordest. 

Si era fermata un giorno a New York per fare un giro nei musei. Poi sarebbe partita per il Messico dove l’aspettava il fidanzato.

Noi eravamo state al Guggenheim, lei arrivava dal Metropolitan. 

Mangiammo qualcosa insieme. Fu un bell’incontro. 

Ora anche io potevo vantare una di quelle coincidenze che sembravano succedere solo a babbo. Come quando, una volta che era in un ristorante a Pattaya, sentì chiamare Asvero. 

In quel caso si trovò di fronte proprio il cassiere che gli aveva cambiato la valuta per la Thailandia.

M. l’avevo conosciuta al giornale. Lei scriveva dal suo paese del nordest e io la chiamavo per mettere i suoi pezzi in pagina. In quella redazione li chiamavano tòcchi.

Xè rivà el tòco de Cióza? Che starebbe per Chioggia.

Una sera con un collega giornalista oggi piuttosto conosciuto, a cui allora affittavo una stanza di casa mia, andammo nel paese di M. a mangiare una pizza speciale con lei e altri suoi amici. Un viaggio lunghissimo che sembrava non finire mai. 

Della pizza invece non ricordo.

Anni dopo, nel mio girovagare, un’estate che lavoravo più a nordest del solito, andai a trovare M. a casa diverse volte.

Nel frattempo aveva avuto un bambino, un putto biondo che aveva fatto innamorare perfino me.

In quel periodo avevo una macchina cabrio, una Mazda X5 rossa con tettuccio nero e fari a palpebra di cui andavo molto orgogliosa. 

Il bimbo era piccolo ma la macchina sembrava che gli piacesse molto, così dissi, lo porto a fare un giro qui intorno.

M. disse forse è meglio di no, magari è pericoloso. E io, ma scherzi? Facciamo un giro breve e fra cinque minuti siamo qui.

Misi il bimbo sul sedile della macchina scappottata, feci un giro per uno, due chilometri, e tornai da M. 

Quella fu l’ultima volta che la vidi e che ci parlai.

Io continuai a cercarla ma lei non rispose più alle mie telefonate.

Solo anni dopo, ripensando alla successione degli eventi, ho ricostruito quella che potrebbe essere stata la causa della sua chiusura.

Sul momento non collegai il silenzio che venne dopo con l’episodio del bambino.

All’epoca vivevo le amicizie in modo tanto assoluto e viscerale che potrei non aver notato il suo disappunto. O non dargli il giusto peso. 

Consideravo, piuttosto infantilmente, ogni persona amica come una stella del mio cielo e non potevo concepire dissidi o malintesi che non si potessero chiarire e risolvere.

E poi c’era quell’incontro inaspettato a New York che, almeno per me, dava alla nostra amicizia un suggello speciale.

Chissà. Forse la ragione era un’altra. 

Una di quelle che non saprò mai.  

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Cronaca di una notte immaginaria

Alla fine, la storia della camera gelida di Venezia si è conclusa con un rimborso totale da parte di Airbnb, le scuse, sempre di Airbnb, per i disagi che ho dovuto sopportare, e l’erogazione di un buono spendibile con Airbnb entro un anno.
Io, a dire il vero, me l’ero anche messa via, ma quando da qualche parte on line mi è ricomparso un sunto del viaggio veneziano, ricordandomi che avevo soggiornato nella Private Deluxe Room di Yasia, che nel frattempo si era trasformato in un tal Mala, mi è sembrato veramente troppo.
Diciamo che il Deluxe, nel caos di quei giorni, lo avevo dimenticato. Rileggere quella parola, dopo l’esito di quel pernottamento, mi ha fatto anche ridere. Nell’occasione sono andata a rileggermi l’annuncio e ho visto che c’era scritto proprio “camera matrimoniale con colazione e bagno privato”. Dunque non l’avevo sognato sul momento.
Ora, almeno il bagno, seppur condiviso, c’era. Ma quando ho chiesto a Yasia-Mala della colazione, ricordo bene che lui mi aveva spiegato, in quel suo inglese preciso e fluente, come ci fossero tanti bar lungo la strada e che mi sarebbe bastato uscire per trovarne uno che facesse al caso mio.
Questo però, solo dopo aver ripetuto quelle quattro o cinque volte di fila le sue frasi standard: “city taxes three euro” e “check out at ten in the morning”.
Fra le recensioni della Private Deluxe Room ho visto finalmente apparire anche la mia. L’ennesima stroncatura fra tante che stranamente non avevo notato al momento della prenotazione. C’è da dire anche che a ben guardare, a ogni stroncatura corrisponde una recensione (firmata da utenti asiatici, vedi un po’ le coincidenze) che ne ribalta il concetto, esaltando la bellezza e la funzionalità di quella stanza e i suoi molteplici servizi.
A questo punto mi è sembrato opportuno far sapere direttamente ad Airbnb con che tipo di struttura avessero a che fare.
Da quando ho inviato la segnalazione si sono messe in moto diverse cose, tutte velocemente. Prima mi ha chiamato un ragazzo da Lisbona per conto di Airbnb spiegandomi la procedura da seguire se avessi voluto proseguire il mio ricorso, inizialmente chiedendo all’host il rimborso della spesa, in un secondo tempo, se questi non avesse accettato, sollecitando l’intervento diretto di Airbnb.
Poi, non appena ho cliccato sul link che mi è stato inviato, è successo che il sistema mi ha informato di come non fosse possibile effettuare alcun tipo di ricorso per quella prenotazione. Il perché mi è stato subito chiaro non appena ho ricevuto la notifica che Yasia-Mala l’aveva cancellata, con un tempismo perfetto.
A quel punto mi sono messa l’animo in pace pensando che ormai tutto fosse perduto. E invece no. Poco dopo mi è arrivato un messaggio di Airbnb che mi annunciava che, dal momento che “questo host non era reale e il nostro dipartimento di Sicurezza sta svolgendo le dovute verifiche”, per velocizzare la procedura mi avevano rimborsato il costo totale della prenotazione.
Poi è arrivato un secondo messaggio contenente un codice per un buono di 21 euro da spendere nel mio prossimo viaggio.
Che dire? Di sicuro che, per quanto sia piccola cosa, questo 2019 inizia molto meglio di come sia finito il 2018.
Ed è già un buon segno.

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La notte più fredda della mia vita

Quando entra in ballo, la mia immotivata fiducia nel mondo e nelle persone è difficile da tenere a bada.
Così ho prenotato. Una notte in centro storico a Venezia, a trentacinque euro o giù di lì.
Un’occasione. Già mi pregustavo l’ultimo giretto notturno fra le calli dopo la cena al ristorante. Il sonno ristoratore in quella bella stanzetta con le pareti tinteggiate di arancione come il piumino del letto. Colori, luce e il calore di un’antica casa veneziana.
Già mi immaginavo l’accoglienza di Yasia, sicuramente una studentessa universitaria che subaffittava una stanza per arrotondare le spese veneziane. Avremmo scambiato due chiacchiere in inglese, o magari perfino in italiano, facendo colazione la mattina dopo.
Il treno è arrivato in orario nel tardo pomeriggio. Le indicazioni per arrivare alla casa spiegavano dove prendere il battello o il taxi giusto. Io decido di non perdermi l’occasione di una camminata serale in una Venezia svuotata dai turisti.
Il primo problema è il trolley, una valigetta piccola e leggera con le ruote in plastica, troppo rumorose per le silenziose calli veneziane. Cerco di alternare il trascinamento, portandolo a mano per la maggior parte del tratto.
Secondo problema. Il mio ormai offuscato senso dell’orientamento che fu, reso ancora più appannato dal complicato labirinto veneziano.
Io so qual è la direzione da seguire, ma questo non mi impedisce di perdermi e di chiedere conseguentemente per una ventina di volte indicazioni per l’Accademia.
Intanto trascino il trolley per due metri e lo porto a mano per cento, sempre attenta, da orecchio sensibile quale sono, a non urtare altre orecchie sensibili.
L’umidità che sale dalla laguna, insieme al sudore dovuto alla fatica e al piumino, si gela sui capelli e sul viso.
Alla fine arrivo nella calle giusta. Mentre cerco di decifrare il complicato sistema della numerazione civica veneziana, un ragazzo indiano si affaccia da una porticina di legno.
“Sei Yasia?”
Pare di sì. Prima delusione.
Mi fa cenno di entrare. L’aria dell’angusto ingresso è satura dell’odore di lisoformio. Seconda delusione.
Armeggia fra dei fogli e mi chiede in un quasi inglese se sono Elena.
Addio camera subaffittata in appartamento di studente. Qui c’è una specie di residence, altroché. Terza delusione.
Saliamo una ripida scala di legno per arrivare alla camera. Una stanza stretta, gelida come l’esterno di un igloo.
Mi indica un piccolo radiatore elettrico che non riscalderebbe nemmeno un armadio, facendomi capire orgoglioso che è addirittura acceso. Quarta delusione. Se non ho perso il conto.
Mentre il tipo mi spiega come aprire la finestra e chiudere gli scuri, lo sguardo mi cade sulla lampadina orfana di plafoniera e sulla testata del letto in simil pelle bianco panna.
Quella che in foto appariva come una stanza accogliente e dai colori caldi, è oggettivamente un ammasso casuale di mobilia squallida. Come i poggia colonna traballanti colore noce al posto dei comodini, o la toelettina bianca in stile veneziano tarocco.
Il bagno? Ah, è fuori.
Ah, è in condivisione. Nell’annuncio c’era scritto privato, ma faglielo capire a questo. Tanto poi, per quel che vale.
Chi c’è nell’altra camera, un uomo o una donna?
City taxi, three euro.
No, no, guardi, non ne ho bisogno. Tanto mi muovo a piedi. Ma chi sono i vicini, female or male?
City tax, three euro.
Non ho bisogno del taxi grazie. Scandisco: woman or man?
City tax, three euro, ripete Yasia come una macchinetta.
Mi si apre improvviso un barlume. Ah, la tassa turistica. Certo, glieli do subito.
Sui vicini nulla è dato sapere.
Check out, at ten in the morning.
Certo, anche prima.
Check out, at ten in the morning.
È partito un altro disco.
Finalmente Yasia se ne va.
Rimango sola nella stanza gelida. Confido nel piumone arancione. E in quel cappottino di lana in più che oculatamente ho infilato in valigia all’ultimo minuto.
Cara Venezia, ora dovrei aver imparato come funzionano le cose su da voi.
La prossima volta prenoto direttamente al Danieli.

 

L'immagine può contenere: notte, cielo, spazio all'aperto e acqua

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Del viaggio e dei suoi fastidi

Ogni volta che devo prendere un treno perdo qualche anno di vita per i ritardi del pullman che mi porta a Firenze. Poi per fortuna, o perché recupera lungo il tragitto, o per il ritardo del treno, riesco a salire in tempo.
Oggi mi scocciava particolarmente perderlo poi perché ho un biglietto di prima classe acquistato un mesetto fa a prezzo stracciato.
Il treno è in perfetto orario. Siamo sulla banchina in attesa di salire. I passeggeri si accalcano dimenticando che all’apertura delle porte dovranno farsi da parte per fare scendere altri passeggeri.
Stavolta l’operazione si rivela più lunga del previsto. Per primo scende un uomo con un trolley, dopo averlo appoggiato a terra afferra una grossa valigia nera che qualcuno gli porge dall’interno. Poi è la volta di una bambina, dietro alla quale appaiono i piedini di un’altra piccola seduta su un passeggino. L’uomo l’afferra e la fa scendere, insieme alla donna coperta dal chador che tiene il passeggino.
Poi torna subito su per aiutare un’anziana dal passo incerto, con la fronte resa brillante da un velo intarsiato di piccole pietre.
Accanto a me, in piedi, un uomo di stazza con la pancia prominente e il fare arrogante si avvicina alla porta.
“Xè finio oea?”.
L’assistente al treno gli dice di aver pazienza. Scende ancora un anziano, poi è la volta di salire, per noi. Veloce come una lucertola una donna magra con la giacca attillata colore ramarro dribbla me e l’ingombrante passeggero riuscendo a salire per prima. Mi chiedo quale gara fosse in corso poi finalmente salgo anch’io. Non faccio in tempo ad individuare il mio posto, numero due sul vagone due, peraltro occupato da un ragazzo che lo lascia subito libero, che noto con delusione chi è il passeggero del numero uno.
Il panzone veneto, ovviamente. Un uomo dotato di una voce rimbombante e, purtroppo, di un telefono cellulare, che usa incessantemente da quando il treno è partito.
“Amore, ci vediamo domani. Buonanotte”.
Sono le quattro del pomeriggio.
Poi è la volta di qualcuno con cui discute animatamente. Sssht, faccio io. Abbassa un po’ la voce, ma dura poco.
Ora io a questo sarei tentata di fargli proprio una bella foto da fare vedere ai miei colleghi di su, che magari lo riconoscono.
Da quel che dice parrebbe un personaggio con un incarico politico. Parlava di qualcosa detto in consiglio. Ma potrebbe anche essere un imprenditore. Ora per esempio discute con un terzo interlocutore di come cambiare un documento senza farlo sapere a una tale e dei soldi che deve dare in contanti a qualcun altro.
“Bisogna capire se dirglielo… Io non son per le cose… preferisco parlare chiaro. Però abbiamo un rischio se parliamo chiaro”.
Bologna si è passata, ora devo solo concentrarmi forte forte perché scenda a Padova che io questo fino a Venezia Santa Lucia non lo reggo proprio.
È, ovviamente, l’unico di tutta la carrozza due che si fa sentire. Ed è seduto vicino a me.
Ovviamente.
Oh, numerosa famiglia araba, ma perché siete scesi a Firenze?

sdr

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Viva l’Ungheria

Rientro in autostrada dopo la sosta in autogrill.
Ormai mancano solo 150 chilometri.
Margherita guarda i gatti, e i gatti guardano nel sole.
“Se non succede niente sarò a casa per le otto e mezzo” le dico al telefono.
All’inizio non capisco perché tanto buio. Che all’improvviso si sia spenta l’autostrada o il mondo che mi circonda. E invece no, son saltati i fari. Gli anabbaglianti. Cavolo.
Ormai sono in ballo. Chissà se le luci dietro funzionano.
Mi prende il terrore di non essere vista.  Metto le quattro frecce e vado avanti.
Il prossimo autogrill, ho visto il cartello, è fra 26 chilometri.
Ogni tanto sparo gli abbaglianti, ma solo ogni tanto.
Oh ecco l’area di servizio. Quasi inutile visto che c’è sciopero dei benzinai,  proprio oggi, fino alle 22.
Alla cassa però c’è qualcuno.
“Scusi mi sono saltate le luci dei fari. Voi le cambiate?”
“No”, risponde la signorina.
“Perché è sciopero?”.
“No, perché è troppo complicato”.
“Ah”.

Chiamo l’assistenza Alfa Romeo. Ma loro possono solo mandarmi il carro attrezzi, non risolvermi il problema. Per stavolta evito di discutere sul concetto di assistenza.

“Scusate – vado verso due camionisti che fumano nel parcheggio loro riservato – siete italiani?”
“No, hungarian”.
Forse puoi parlare tedesco, dice uno pressappoco.
No, english? Faccio io.
Okay. Un po’.
Spiego la faccenda degli anabbaglianti e loro mi chiedono se ho le lampade di ricambio.
Ribalto la macchina, sposto le valigie, ma ovvio che no.
Loro si avvicinano con una cassettina degli attrezzi e mi fanno cenno di aprire il cofano.
Sono la mia unica speranza.
Armeggiano per un po’ con i cacciaviti fino a smontare il faro. Un salto nel camion e spuntano due lampadine di ricambio.  Non ho parole.
In compenso io sfoggio una collezione niente male di torce di tutte le dimensioni.
“Mini” dice il più grosso fra i due, chiedendomi quella piccolina.
Mentre si muovono intorno alla mia macchina, accendono i fari, li spengono, aprono la portiera,  la chiudono, io li osservo chiedendomi se mi sono messa in un pasticcio ancor più grande.

Decido di no. Poi staremo a vedere.
I due, avranno trent’anni,  hanno facce larghe e fisico tozzo. Indossano abiti in stile militare,  mimetico il piccoletto, verde a tinta unita l’altro. Questo fuma la pipa e mentre assiste il compagno con la torcia diffonde nell’aria un buon odore di tabacco.
Ci capiamo a gesti. Qualche parola ogni tanto.
“Contatto”. “Kaputt “.
Parlano fitto fra sé nella loro lingua.
La lampadina di destra si accende. Evviva.
Mettono anche l’altra. Non succede niente.
Oddio ti prego non farmi stare tutta la notte al buio in un autogrill.

Non capisco. Mi preoccupo un po’ ma non so bene che fare.
“Sinistra destra” dice quello con la pipa facendo il gesto con le mani.
Hanno invertito. Tolgono le lampadine e le rimettono ognuna nel fanale opposto.
In meno di un’ora gli anabbaglianti si accendono. È tutto a posto.
“Home. .. house. .. control…”.
Ho capito sì. Meglio far controllare quando torno a casa. Due luci che saltano insieme non è normale.
Mettono a posto le ultime viti, chiudono il cofano e raccolgono la loro cassetta soddisfatti.
Ringrazio e do al più piccolo, quello mimetico, un foglio da 50.
Avevo solo quel taglio nel portafoglio, se si esclude una banconota da 10.
Lui rimane lì con i soldi in mano e con la faccia mi fa segno che son troppi.
Troppo complicato spiegargli che se non avessi trovato loro il giochetto mi sarebbe costato sicuramente di più.
Me la cavo con un internazionale thank you.
E poi butto là un “viva l’Ungheria”.
Loro alzano il braccio in segno d’intesa e di saluto e se ne tornano verso il loro camion.
Viva l’Ungheria, ma davvero.

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una vacanza speciale – tutte le cose belle finiscono (6)

ritorno   Capisco che la vacanza è finita quando Lula si rimette i gioielli che in questi giorni non aveva mai indossato. Sono solo ninnoli africani, niente di prezioso, ma il gesto indica che ci stiamo preparando a rientrare nella civiltà dopo i giorni passati a dormire per terra in mezzo agli eucalipti. Finché stavamo a Capraia, fra il campeggio, le calette sul mare,  la passeggiata centrale, non c’era bisogno di niente. Un paio di pantaloni qualsiasi, una maglietta e un golfino. Niente trucco, niente inganno Fuori da qua sappiamo che è diverso. E il gioiello, pregiato o di bigiotteria,  funziona un po’ da scudo. Anche se solo simbolico. L’ultima mattina a Capraia proviamo a fare un giro in barca Ma soffia il maestrale “Mai successo a luglio” commenta Marco, il proprietario del campeggio Impossibile uscire, troppo pericoloso pur stando vicini all’isola rischieremmo di venire sbattuti contro le rocce Non importa, lo faremo un’altra volta Passiamo le ultime ore prima dell’arrivo del traghetto sulla “spiaggetta” di sassi e cemento vicino al porto. Il vento è fortissimo ed è difficile leggere e tenere il cappello in testa All’ombrellone in spiaggia abbiamo già rinunciato accampamentoe L’ultimo pranzo lo facciamo al ristorante del campeggio, una sorta di self service, negozio di alimentari e bazar Prendiamo verdure cotte e insalate miste e poi diamo fondo alla nostra cambusa svuotando una lattina di lenticchie e accompagnando tutto con le immancabili gallette di riso La scelta gastronomica è legata alle mie intolleranze alimentari La vacanza è scivolata anche sulle nostre cene e i nostri pranzi cotti al fornellino da campo Ceci, lenticchie, fagioli in scatola, come Zio Paperone ai tempi del Klondike Una volta abbiamo cotto anche gli spaghettini di fagioli mung comprati allo spaccio dell’isola E per condimento, oltre all’olio al sale speziato e al pepe, il finocchietto selvatico di capraia E a volte anche qualche erba meno conosciuta (e subito sputata) cactus Per colazione latte di capra (a lunga conservazione in confezioni da mezzo litro, giusto per due, vista la mancanza del frigorifero) e biscotti senza glutine Lula mi ha accompagnato condividendo i miei stessi pasti Per me è stato un gesto di amicizia eccezionale Poi lei ha detto anche anche che non era mai stata così bene, anche fisicamente, in vacanza, e questo mi ha consolato per le sue privazioni Ma intanto abbiamo provato che si può fare E questo è stato un altro passo avanti verso la libertà Nel pomeriggio, raccolti i nostri bagagli al camping e dopo aver pagato, saliamo sul traghetto per Livorno Il viaggio con il sole ad occidente è pieno di colori nuovi Lungo il tragitto salutiamo la Gorgona ripromettendoci di visitarla appena possibile   gorgona   Dopo due ore approdiamo al porto Poco fuori ci sono due ragazze sedute su una panchina all’ombra dove ci fermiamo con zaini e valige Chiediamo loro di farci una foto ricordo “Da dove arrivate?” Glielo spieghiamo “Che bello! Quindi organizzano gite per Pianosa e Capraia?” No, decisamente no. Non le organizza proprio nessuno Ci siamo organizzate tutto da sole Ed è stato proprio ganzo Alla fine è filato tutto liscio come l’olio Sulla strada del ritorno ci fermiamo a mangiare una fetta di cecina Poi, arrivate a casa, scarichiamo le borse E allora si, che è finito Ma io questa vacanza, ne sono sicura, non me la dimenticherò mai bagagli

 (6 – fine)

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