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Horror vacui da quarantena

Se c’è una cosa che mi disturba, in questa quarantena, è il troppo. Il troppo di tutto. Troppo tempo a disposizione, troppo chiusi in casa, troppe cose da fare con tutto questo tempo a disposizione.
Io, appena si è ventilata la possibilità di stare in casa tranquilli mentre il mondo si fermava, ho tirato un sospiro di sollievo. Finalmente avrei potuto fare quelle due o tre cose che rimandavo sempre, senza sentirmi pressata dagli impegni sociali o di lavoro.
Poi però è successo che il vuoto è diventato il nuovo spettro nazionale e l’inattività è stata inserita fra le piaghe da combattere in questo millennio. E dopo i primi, tutto sommato innocui, canti dal balcone, le bandierine “andrà tutto bene” appese alle finestre e qualche triste aperitivo su Instagram, si è scatenato l’inferno. Dirette Facebook, dirette Instagram. Dirette, ovunque. Il giornale non si legge, si ascolta. I cantanti regalano concerti. Gli attori recitano gratis per noi. Il Globe Theatre di Londra mostra Shakespeare in lingua originale ma solo per dieci giorni. Che ansia. Da ogni app esce un giornalista che intervista la qualunque. Chiunque, famoso o no, fa una diretta.
Le scuole regalano corsi. Impara l’inglese, ripassa l’inglese, impara il russo, parla francese. Le meditazioni, i segreti per crescere, per vincere, per salvare la nostra azienda. Iscriviti subito, l’offerta dura una settimana.

Gli editori donano libri. Gli psicologi regalano sedute. Tutti aprono gruppi sui social. Tu apri i social e sei sommersa da uno tsunami di notifiche.
In un attimo, poche settimane di isolamento sono diventate più caotiche di un talk show su Rete Quattro.
Chissà se l’horror vacui da quarantena è già stato inserito nel grande libro delle sindromi psicotiche.
E poi c’è il frigo. Quello sta lì e non puoi decidere di spengerlo come il mondo che ti entra in casa con il wi-fi. E anche il frigo è decisamente troppo pieno.

Da quando, seguendo le direttive del Governo, faccio la spesa ogni due settimane, nel carrello infilo di tutto. Affettati e formaggi, confezioni di acqua, pane di tutti i tipi, biscotti. Sacchi enormi di biscotti. Merendine, schiacciate, pasta. Verdure. Sacchi di patate e cipolle, reti di arance e limoni, agli, pomodori, zucchine, intere cassette di mele.
E poi zucchero, caffè, i corn flakes per la colazione. Il latte. Le uova, in quantità industriali. Arrivo al reparto animali che non c’è più posto nel carrello, ma appendo un bustone al gancio esterno e riempio anche quello.
Poi spingi tutto quel bendidio, traballando per la fatica, dopo aver pagato un conto a tre cifre, sostenuta solo dall’istinto di sopravvivenza. Hai già fatto un’ora di fila, anche due, fuori, sotto il sole a picco o con un venticello subdolo, armata di mascherina e guanti, senza parlare con nessuno, con l’unica compagnia del freddo schermo del telefonino.
Ma c’è da scaricare tutta quella roba dal carrello alla macchina, pregando di avere la lucidità per non mettere l’acqua sulle uova. E non è finita. Quando sei a casa, devi rifare tutto da capo. Mettendo ogni cosa al suo posto.
È a quel punto che in genere butto giù un cachet per il mal di testa e mi stendo, esausta, aspettando che passi.
Ma c’è subito da pensare alla cena e a tagliare tutto quel pane, prima che secchi, imbustarlo e metterlo nel congelatore.

Siamo salvi. Almeno a tavola. Anche se, tempo qualche giorno, comincia l’incubo delle scadenze.
Ora aspetto la fine dell’emergenza, sperando che le mie giornate, e il frigo, tornino ad avere qualche sano spazio vuoto.

Simona Pacini

Questo articolo è stato pubblicato su http://www.casiquotidiani.it il 27 aprile 2020 nella rubrica #Covid19 – Diari dal mondo

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Diario della quarantena #5

La sentite anche voi questa sensazione di sgonfiamento? Vado fuori raramente ma mi pare che la gente sia più tranquilla. Non si litiga nemmeno più per la fila. (A parte io, ovviamente, che trovo sempre la solita furbetta o il solito furbetto che si mette di lato e poi, dopo aver aspettato che mi avvicini all’agognato sportello, dice: veramente c’ero prima io. Ma ormai lo faccio senza energia, quasi per abitudine). Non è che alla fine abbiamo capito che ci dovremmo comportare così tutti i giorni, al di là del virus e delle mascherine, credo sia più una sorta di rassegnazione. L’accettazione di ciò che non si può controllare.  

Le brutte notizie, la paura e i divieti ci hanno esauriti. 

Ora che il lockdown sta per finire, mi chiedo, che succederà dopo? Torneremo ad urlarci contro da una macchina all’altra per una manovra qualsiasi e a saltare la fila sgomitando e spintonando?

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Nei primi giorni della quarantena avevo pensato di organizzare un blog, una pagina web, un qualcosa, chiedendo a chi volesse scrivere il proprio diario, di mandarmelo che l’avrei pubblicato. Il progetto si sarebbe chiamato Le nostre quarantene e avrebbe raccolto pensieri dei miei amici sparsi qua e là e di chiunque avesse voluto partecipare.

Ho lasciato passare qualche giorno, per pensare a come organizzarlo. Giusto il tempo per vedere spuntare ovunque, come margheritine nel campo a primavera, diari della quarantena, raccolte di racconti della quarantena, pensieri e disegni della quarantena. Insomma, alla fine non ne ho fatto più di niente.

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Poi volevo chiedere al presidente del consiglio se per favore, in uno dei prossimi decreti può inserire, anche piccolo piccolo e in fondo, un punto in cui dichiara annullate le collezioni autunno inverno 19-20 (e ormai buttiamoci anche la primavera-estate 2020). Lo so che il settore della moda, come tutti gli altri, è in crisi, ma noi che cosa ne facciamo di tutte queste mise inutilizzate? Facciamo che le rinviamo pari pari alla prossima stagione e nessuno si farà del male.

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Parlavo dell’autunno inverno non per esagerare, ma perché per quanto mi riguarda io la quarantena l’ho iniziata ancor prima di Natale, quando mi sono rotta l’ossicino di un piede tornando una sera dal cinema. Poi, quando son guarita, hanno cominciato a cadere i pini per la strada di casa e non potevo più uscire. Insomma, fra il gesso e gli alberi, sono arrivata a rimanere chiusa in casa quasi fino all’inizio del lockdown. 

Più di quattro mesi, mica scherzi.

Sarebbe anche l’ora di darci un taglio.

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Diario della quarantena #4

Ieri finalmente sono stata fermata dai carabinieri. Mi hanno fatto accostare a duecento metri dal posto in cui lavoro con un cenno della paletta. Ho spento il motore e ho cercato, trepidante, la mia autocertificazione. Spero sia l’ultima versione, ho detto, porgendo il foglio dal finestrino. Non importa, basta sia una delle ultime, ha detto il carabiniere. L’ha già compilata? Parzialmente. Due domande, dove va, motivi di lavoro, orario. Il resto, tutto come al solito. Documenti, prego. Targa dell’auto. E’ registrata alla mia mamma. Va bene, può andare. Prima di ripartire mi consegnano un’autocertificazione in bianco. Per la prossima volta. 

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Non so da quanto non apro più l’agenda. Prima la guardavo la sera, prima di andare a dormire, per farmi un’idea degli impegni del giorno dopo. Poi, la riaprivo per spuntarli. Fatto. Rinviato. Cancellato. O per aggiungerne di nuovi. Per scrivere appunti di cose che succedevano. Vista mostra a Firenze. Iniziato nuovo lavoro. O per scrivere cose da fare. Medicine, dottore, spesa. Spedire posta, telefonare avvocato. Per segnare appuntamenti.

In quarantena l’ho aperta solo per cancellare le visite mediche ad ogni telefonata di disdetta dalla Usl. 

Ma l’ho subito richiusa. Quella distesa di pagine bianche, una dopo l’altra, mi ricorda il passare dei giorni, sempre uguali, come il mare. A volte più calmi, a volte più mossi, ma senza una fine né un inizio. 

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Che poi non è vero che in quarantena non c’è niente da fare. A me per esempio manca il tempo per far tutto. A parte leggere e scrivere, lo stress della spesa e della cucina, grazie a Zoom ho potuto riprendere a fare yoga con la mia insegnante di Belluno. Rispolvero la corretta pronuncia d’inglese frequentando un corso gratuito per principianti. Cerco di imparare le basi del russo, gratis e impossibile, in tre lezioni. Dovrò togliere le erbacce dall’orto e studiare il modo di ripulire le gronde del fienile. Poi ci sono le cose che rimando, nonostante abbia il tempo. Pulire veramente la casa e fare ordine. Correggere uno scritto di qualche mese fa. Buttare giù un progetto ambizioso.

Confido nel tempo.

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Diario della quarantena #3

Oggi ho dovuto fare un discorso alla Nazione. Sono salita su, e mentre Paola ripiegava i panni e mamma finiva di dare il cencio per terra, senza aspettare che finissero, ho parlato.
“Allora – ho detto – in questi giorni sono andata a fare la spesa, abbiamo i frigoriferi e le dispense piene. Abbiamo le pizze, i formaggi, gli affettati, la pasta, il riso, il pomodoro, le uova, le brioscine, i biscotti e i corn flakes, abbiamo il pane a fette nel congelatore. Sono andata dal dottore a prendere le ricette, ho fatto la coda in farmacia per prendervi le medicine più inutili ma che vi avrebbero fatto sentire sicure. Ho pensato, ecco, ora abbiamo tutto, possiamo stare tranquille in casa.
E invece no, oggi devo uscire per andare a prendervi arance e mele perché ne sono rimaste solo tre? In tempi come questi non vi pare possibile che per un giorno si possa stare senza qualcosa o si possa mangiare una cosa diversa ma che abbiamo in casa?”.
A dirla tutta il discorso è stato un po’ più colorito ma dato che nessuno l’ha registrato posso riportarne anche solo il succo, che è questo.

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Il fatto è che io sono l’unica di casa che guida l’auto, al momento, e quindi tutte queste incombenze toccano a me. Ma non me ne lamento. Solo che bisogna veramente comprendere la situazione e mettersi un po’ calmini. L’altra sera mia sorella se ne esce con un serafico “la prossima volta che vai a fare la spesa mi prendi le cioccolate Kinder che mi è venuta la nostalgia?”. Quella volta, almeno, ne siamo uscite con una risata.

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Sono anche l’unica, in casa, che ha una specie di raffreddore che non passa da più di un mese. E sì, lo so che è l’allergia al cipresso e all’ulivo. Ma allora nei due giorni di pioggia sarei dovuta stare meglio. E invece. Prima della chiusura delle attività sono stata anche cinque giorni in malattia. La dottoressa mi ha dato l’antistaminico e poi mi ha detto, ora il protocollo è così.
E ogni giorno a misurare la febbre. Due, tre, quattro volte. Col termometro al mercurio. Niente. Col termometro elettrico. Ancora meno. E a far la conta dei sintomi.

Finalmente ieri, rovistando nei cassetti, ho trovato un vecchio spray al cortisone scaduto da tre anni. Ma ha funzionato, e ora posso dire con certezza che è solo allergia.
Per la fortuna delle due criste di casa e anche mia, che poi, dopo, come ci convivi con una cosa così?

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Esco nella campagna intorno casa, quella zona agricola di pregio ormai da troppo tempo infestata di costruzioni abusive di cui pare non importi un accidente a nessuno (eccetto che a me) e mi prende una gran paura che, una volta che sarà finito tutto questo, quella roba orribile in mezzo ai campi coltivati, potrebbe non sembrare più nemmeno un problema.

(Colle Val d’Elsa, 28/03/2020)

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Diario della quarantena #2

In banca si entra uno per volta e su appuntamento. Arrivo in anticipo e aspetto fuori. C’è un signore che non riesce a entrare. “Ce n’è già uno dentro. Si deve aspettare che esca”.
Arriva una tipa, stivaletto grigio con tacco, jeans elasticizzato, piumino avvitato e borsetta griffata, mascherina, guanti in lattice.
“Non fate caso che entro, ma io ho l’appuntamento”.
“Sì, – dico – ma c’è il signore che aspetta da prima di lei”.
Lei suona il campanello, ma non le aprono.
Arriva un signore anziano, anche lui, come tutti (eccetto l’altro già in attesa) con il volto coperto da una mascherina.
Finalmente il cliente esce. E’ un ragazzone di colore, con la mascherina. L’anziano commenta il suo passaggio con un gestaccio del braccio.
Non mi trattengo. “Guardi che è una persona anche lui come chiunque altro”.
“Ah, non credo proprio…” dice il tizio.
“E comunque ci sono delle regole da rispettare” interviene stivaletto grigio.
“Fra l’altro – faccio io – in questa situazione pare che il contagio lo portiamo noi, non loro”.
Il tizio si surriscalda. Ha voglia di litigare. Le sue parole si perdono dietro la mascherina.
“Babbo, calmati” gli fa stivaletto grigio.
Non si calma.
Mi allontano, indosso un’espressione di ghiaccio e li ignoro.
Il tizio continua a inveire. La figlia cerca di calmarlo.
“Stai zitto, babbo”.
“Ma lei ha parlato (cioè io), potrò rispondere?”.
Finalmente entrano, lasciando dietro di loro una scia di parole inutili, di gesti di troppo, fuori luogo e ormai fuori tempo.

***

Tornando a casa, sulla strada sterrata mi attraversa una poiana in volo basso. Arriva dai campi sulla sinistra, si infila fra gli alberi spogli e passa di là, nei campi sulla destra. Continua a volare basso, bassissimo, finché non la vedo più. Lascia dietro di sé una scia di eleganza, un volo armonico, il colore sfumato delle sue grandi ali.

***

Sulla stessa strada ogni tanto passa gente a passeggiare, da sola, con il cane. Forse è più corretto dire passava.
Fra questi anche un vecchio signore che ogni tanto si appoggiava, forse per la stanchezza, a un rialzo della terra, a una radice, a un tronco.
Da qualche settimana, all’inizio della strada, in una striscia di terra sul lato, sono sorti una panchina in legno e un tavolinetto.
Chiedo al vicino se li ha fatti per i suoi bambini.
“No – mi dice – è che qui passeggia spesso un vecchio signore albanese, e mi piangeva il cuore che non avesse un posto dove fermarsi a riposare”.
Le parole non servono.

(Colle Val d’Elsa, 26/03/2020)

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Diario della quarantena #1

Oggi non mi hanno fatto entrare in ospedale. “Lei chi sarebbe, scusi?” mi ha chiesto l’infermiera al check point.”Sono la figlia”. “Allora non può entrare, aspetti fuori”. “Va bene, mamma. Vado in macchina, ti aspetto lì”.”No, guardi. Si metta pure seduta sulle sedie, qua fuori”. Nel corridoio, al buio, cinque seggioline in fila. Una era già occupata da un signore corpulento, con mascherina di ordinanza. Sono andata in macchina. A gennaio andai da sola alla visita in ortopedia e ogni infermiera si sentiva in diritto di cazziarmi perché non ero accompagnata. Le cose che cambiano.


***

Dal dottore è lo stesso. Le battaglie che ho fatto con l’infermiera, quella più antipatica, ogni volta che telefonavo per ordinare la ricetta del solito farmaco per il mal di testa. “Le ricette sono una cosa delicata, deve portarmi la richiesta di persona. Queste sono le disposizioni”. Allora facevo chiamare mamma, per lei le disposizioni non valevano.

Ora, che andare dal medico è anche più semplice perché in giro non c’è nessuno e i posteggi sono tutti liberi, le ricette si ordinano per telefono e meno ci vai, in ambulatorio (dove peraltro nemmeno ti fanno entrare) e meglio è.


***

Una delle (poche) cose belle di questa pandemia è la distanza personale. Mi chiedo come fanno quelle persone che prima stavano sempre appiccicate al prossimo, tocchicchiandolo. O quelli che quando ti metti in fila ti si incollano dietro e tu chiedi aiuto alla tua grossa borsa, spostandogliela sempre un po’ di più addosso, per ricreare una minima distanza.

Quando i divieti di ora erano solo consigli, ero in un istituto sanitario a prendere un macchinario per mamma. Mi sono seduta davanti al bancone a una certa distanza dall’operatrice. Poi è arrivata una tipa e si è messa in mezzo. Stava in piedi e fissava i fogli che l’impiegata stava riempiendo. Io la fissavo, sperando che capisse, ma lei fissava i fogli. L’impiegata le dice che ne ha per un po’ e che dovrà aspettare. Lei dice, va bene, aspetto. Ma non si schioda da lì. Io sposto il mio zaino verso di lei, per mangiarle dello spazio. Niente. “Comunque può aspettare anche più in là, eh” le dico, alla fine. Mi guarda stupita. “Perché, che problema c’è?”. “Magari la privacy”. “Ma pensavo che qui si era tutti fra noi”. Si è allontanata brontolando che a lei non gliene importava mica niente delle cose mie, che mi credevo, e lei ne aveva già tanti di suo di problemi che figurati se si metteva a pensare anche a quelli degli altri.


***

Fino a ieri avevo un punto di orgoglio. Il mio frigorifero era sempre vuoto. C’erano solo le cose essenziali. Cibo fresco e niente sprechi. Da quando sono diventata la cuoca ufficiale di casa (dopo la frattura di mamma a entrambi i piedi) qualcosa in più c’era entrato, ma sempre con molta misura.

Ieri invece mi sono trovata per la seconda volta in fila fuori dal supermercato (la spesa on line l’hanno scoperta in troppi e non si riesce più ad entrare nel sito), con guanti e mascherina, una lista infinita di cose e la paura di arrivare al punto di non poter comprare più cibo. Mi son trovata a buttare a caso formaggi e affettati nel carrello, con la sola logica dello sconto. Biscotti, brioscine, acqua, patate e cipolle, insalate e pomodori. Pollo, latte, uova. Di riso ne era rimasto solo un pacco. La farina, scomparsa. Ho comprato otto pagnotte che la sera, diligentemente, ho tagliato a fette, distribuite in sacchettini ermetici e riposte nel congelatore (quello di mamma, tristemente vuoto). Ho sempre odiato il cibo congelato e non compro surgelati per principio. Ho dovuto cambiare anche questo. 

(Colle Val d’Elsa, 24/03/2020)

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