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La sera del capriolo morto

Qualche anno fa, in una calda sera di fine luglio, andai con la mia amica del liceo a vedere uno spettacolo sulla Francigena nell’Abbazia di San Galgano. Partimmo che era ancora giorno. Al curvone dei Cappuccini notai che dal ciglio spuntavano le zampe di un capriolo. Io guidavo, la mia amica parlava rivolta verso di me per cui non si era accorta di niente.

  • Presto, presto, chiama il 118 che c’è un capriolo investito.
  • Che c’entra il 118, è un animale…
  • Fidati, hanno l’obbligo di passarti il veterinario di turno.
  • Ma poi sei sicura? Io non l’ho mica visto.
  • Perché eri girata dall’altra parte, sbrigati che si fa tardi.

Solo pochi giorni prima, andando a Siena, avevo visto un capriolo morto sulla rotatoria per la Siena – Firenze all’uscita Nord di Colle Val d’Elsa.

Dopo aver sceso Paola e mamma davanti all’ospedale, mi misi a fare telefonate per avvisare qualcuno che facesse togliere la carcassa.

Il servizio per la fauna selvatica, che mi rispose subito, mi disse però che interveniva solo per gli animali feriti e mi consigliò di avvisare il Comune competente. 

Pensai che la parte dove era il capriolo era sicuramente su Poggibonsi.

Chiamai il Comune. Mi passarono un’impiegata dalla voce scocciata che, non appena le ebbi spiegato la faccenda, mi chiese:

  • Ma lei è proprio sicura che lì sia Poggibonsi? Perché potrebbe essere anche Colle. 

Dopo alcuni minuti, ritornò all’apparecchio e mi informò sconsolata che era proprio Poggibonsi. 

Disse anche che avrebbe mandato qualcuno. 

La sera di San Galgano non c’erano dubbi su quale fosse il Comune competente, ma alle otto di sera non avremmo trovato nessuno. Nemmeno i vigili.

Intanto la mia amica parlava col 118.

  • Oh, mi hanno detto che mi passano il servizio veterinario… Allora avevi ragione te.

Aspetta aspetta, però, il servizio veterinario non rispondeva, per cui le dissi di riagganciare e richiamare il Suem per chiedere che potevamo fare, vista l’ora. 

Non ne avevano idea.

  • Fai il 115, chiama i vigili del fuoco.
  • Ma come fai a sapere tutti questi numeri?
  • Eh, dopo anni di giro di nera…

I vigili del fuoco la ascoltarono e promisero che sarebbero intervenuti.

La mia amica però era ancora scettica.

  • Secondo me te lo sei sognato. Io non ho visto nulla. Sai che figura ora con tutte quelle telefonate…
  • Ma figurati se non c’era. Ho visto benissimo le quattro zampine all’aria che spuntavano dal fosso.
  • Mah, sarà…

Arrivammo a San Galgano, prendemmo posto nella chiesa e guardammo lo spettacolo, “Storie e amori sulla via Francigena, un musical in cammino”, di Nicola Costanti e Marco Brogi.

Marco lo avevamo salutato fuori dalla basilica. 

Scoprimmo anche che il Comune di Chiusdino organizzava un festival estivo di un certo livello, oltre all’opera sulla Francigena c’era già stato un concerto di Max Gazzè e altri appuntamenti interessanti erano in programma, ma noi non ne sapevamo niente.

Dell’evento di quella sera io stessa l’avevo saputo quasi per caso, vedendo un post di Marco su Facebook.

La serata fu molto bella. Bravissimi gli attori e cantanti, ben scritta la storia, fantastico il posto. Bella anche la sera d’estate.

Al ritorno, dopo un po’ di strada, il discorso tornò sui caprioli, anche perché io sono sempre terrorizzata quando guido per le strade in mezzo al verde, che spuntino animali e prego dentro di me che ciò non avvenga.

Quando passammo dal curvone dei Cappuccini, a Colle, il capriolo non c’era più.

“Certo che non c’è – commentò la mia amica – vedrai, non c’è mai stato, te lo sei solo immaginato”.

Qualche giorno dopo una conoscente commentò su Facebook un mio post su che cosa fare quando si trovano animali selvatici morti e feriti, dicendomi di guardare la bacheca di sua sorella.

Aprii la pagina e vidi la foto del povero capriolo a zampe all’aria al curvone dei Cappuccini. 

La sorella scriveva che si era trovata a passare di lì, aveva visto (e fotografato) il capriolo, dopo di ché era impazzita a chiamare carabinieri e non so chi altri per far togliere la carcassa. 

Tra l’altro diceva che si trattava di un esemplare di femmina e pure incinta. Alla fine concludeva che comunque, grazie al suo telefonare a destra e a manca, alla fine il povero animale era stato tolto. 

Oddio, stavo perdendo il primato di avvistatrice di caprioli morti per strada, ma a dire il vero in quel momento non mi sembrava la cosa più importante.

La cosa veramente importante era scaricare la foto e inviarla a quella miscredente della mia amica come prova definitiva che quella sera non avevo avuto le traveggole.

Ogni tanto, una piccola soddisfazione… 

(La foto del capriolo nel verde invece l’ho fatta io sotto casa e almeno quello è indiscutibilmente vivo)

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Il patrono di Firenze

Nei primi anni del liceo con la mia amica e compagna di banco si passavano spesso i pomeriggi a casa sua con la scusa di fare i compiti.

Poi in realtà si facevano delle grandi merende, con i pasticcini o la pizza, e si guardava la tv. 

Ogni tanto veniva anche un’altra ragazza, un po’ più grande di noi, che coinvolgevamo nelle nostre festicciole pomeridiane. 

Questa ragazza era una personcina minuta con dei grandi occhi verdi e i capelli neri. Era anche molto ingenua e credulona per cui noi due ci divertivamo ad approfittarne. 

In quel periodo avevamo iniziato i nostri primi esperimenti culinari grazie alla ricetta delle lingue di gatto che la mia amica aveva avuto dalla nonna.

Sembrava quasi impossibile, ma i nostri biscottini prendevano forma ed uscivano dal forno caldi, dorati e croccanti.

Spiegammo alla nostra amica che quella doratura era un segreto della nonna e che per ottenerla si aggiungeva all’impasto dello stracchino. Uno poi, volendo, avrebbe potuto aggiungerne altro anche dopo la cottura. 

La nostra amica fu entusiasta dell’idea e cominciò a spalmare lo stracchino sulle sue lingue di gatto.

  • È vero, sono buonissime. Ma voi perché non ce lo mettete?

Lei continuava a spalmare e a mangiare, soddisfatta di questa scoperta.

A noi, spiegammo, ci bastava quello che avevamo messo dentro, quello della crosticina.

Non sapevamo se essere più divertite o attonite. Era stato troppo facile prenderci gioco di lei. 

Che poi, alla fine, ne era addirittura contenta.

La nostra ospite dello stracchino era anche un’appassionata sciatrice e noi, io e la mia compagna di banco, andavamo ogni anno a Natale nella casa della mia amica sulle Dolomiti a fare la settimana bianca. Una volta venne anche lei. 

Faccio fatica a pensare che quella vacanza in montagna ci sia stata davvero. Non ricordo più niente. Forse, vagamente, il fatto che io e la mia amica andavamo sulle piste più facili mentre la ragazza dello stracchino faceva anche la nera, che in quel caso era un terribile percorso ripido fra spuntoni di roccia.

Non ricordo la nostra convivenza in casa, non ricordo il viaggio di andata, sempre in treno da Firenze, dove ci accompagnava in genere il babbo della mia amica, né la sosta d’obbligo a Bolzano con wurstel e senape al baracchino per strada, e nemmeno la salita in autobus lungo i tornanti a picco su versanti di pietre. 

Ricordo invece il lungo viaggio di ritorno sulla tratta ferroviaria Bolzano-Firenze.

  • Se ci chiedono di dove siamo non dite assolutamente che siamo di Colle.
  • Ah no? E di dove saremmo?
  • Di Firenze.

L’amica dello stracchino, scoprimmo, si vergognava delle sue origini provinciali, che poi erano anche le nostre. Solo che a noi non ce ne importava proprio niente.

In ogni caso, pensai, a chi vuoi che interessi sapere di dove siamo? 

  • Ciao, posso? Di dove siete? 

Eccolo lì il tipo che aspettavamo, affacciarsi nel nostro vagone, sedersi e pronunciare la fatidica domanda. 

Io e la mia amica, zitte.

La ragazza dello stracchino con voce trillante: di Firenze.

  • Firenze Firenze?
  • Certo.
  • E di dove, di preciso.

A pensarci era inevitabile che sul Bolzano-Firenze trovassimo qualcuno veramente di Firenze. Questo qualcuno sicuramente aveva capito che gli stavamo raccontando delle stupidaggini e si divertiva a metterci in difficoltà.

Io e la mia amica lasciammo il campo alla ragazza dello stracchino che comunque sembrava cavarsela abbastanza bene. 

Il tizio però non mollava l’osso e insisteva a fare domande sempre più particolari su Firenze. 

  • E chi sarebbe il patrono di Firenze?

Gelo.

La ragazza dello stracchino aveva gli occhioni sgranati e pareva stesse per scoppiare in lacrime da un momento all’altro. Decidemmo di intervenire per aiutarlo.

  • San Lorenzo.
  • No.
  • Santa Maria Novella.
  • No.
  • Aspetta, lo so io. Santo Spirito.

Il ragazzo ci guardava sornione, la ragazza dello stracchino era sull’orlo di una crisi di nervi.

Ma insomma, possibile che non sapessimo chi era questo benedetto patrono di Firenze. Ci sarà stata una festa, un detto, una canzone che lo ricordava…

  • San Fiorenzo!

Urlai, come se avessi scoperto il tesoro dei pirati.

La risata del ragazzo ci fece capire che non ci eravamo proprio. Però scoppiammo a ridere anche noi, con lui.

Almeno la tensione si era smorzata. 

Ma io quel San Fiorenzo uscito chissà da dove non me lo sono più scordato. 

(Panorama – 1954, Ottone Rosai)

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I miei Capodanni lontani

Quando ero piccola per l’ultimo dell’anno avevamo sempre degli ospiti. All’epoca abitavamo ancora in Campolungo, nella casa al secondo piano di una palazzina di tre con un corridoio e tante terrazze. 

Gli invitati erano amici di babbo e mamma, per lo più legati al mondo della scuola, ma non solo. L’avvocato Oreste Mattone Vezzi con la moglie Franca appartenevano alla schiera degli amici di gioventù di babbo. Con loro non ho ricordi particolari se non per il fatto che li guardavo con una certa soggezione di bambina, ammirandoli, specialmente la signora, che sfoggiava sempre mise di gran classe. 

La signorina Iser era la maestra di Paola e a lei si devono alcuni dei regali più belli che abbiamo mai ricevuto, dalla bambola Bettina, al pupazzo Giannino, alla Collina dei Conigli, uno dei libri che ho prestato non ricordo a chi, ma che ho ricomprato tanto mi aveva fatto stare con il fiato sospeso. 

La sera della cena l’aria si faceva frizzante e piena di aspettative. Ogni volta che suonava il campanello e babbo andava ad aprire era una festa. Per me era come essere al cinema. Gli ospiti entravano in casa portando con sè l’aria fredda di fuori mista al loro profumo.

Non c’erano altri bambini e i patti erano che mangiavamo e poi a letto. Ma io non volevo mai andare perché avevo paura di perdermi discorsi, risate e brindisi.

I figli li avevano solo i Mattone Vezzi e non li portavano. 

C’era la Direttrice, Anna Betti, con i suoi cappelli di velluto chiusi da uno spillone con la perla. C’era Robusto Solari, che più tardi diventò lui il Direttore. C’erano Mario Cappelli e Gioli, anche lui insegnante e più tardi Direttore dello stesso circolo didattico di Colle.

Il salotto della casa di Campolungo era arredato con i mobili in teak che andavano di moda negli anni Sessanta. C’era il tavolo che si allungava aprendolo a metà e facendo emergere una giunta dal centro. Le sedie erano foderate di una stoffa nera ruvida con delle piccole escrescenze bianche, così come il divano e le poltrone.

C’era un mobiletto lungo poggiato a terra dove si tenevano i serviti da apparecchiatura più eleganti e dei mobiletti appesi al muro con i bicchieri e i liquori. 

L’illuminazione era a parete, con dei lampadari in legno divisi in quadrati. Ogni quadrato poi o era vuoto o aveva la lampadina. Quelli con la lampada avevano una copertura di plastica bianca o nera per gli effetti di luce. 

Sotto il tavolino basso da fumo un tappeto giallo, alle pareti alcuni quadri e delle stampe giapponesi su delle specie di stuoie.

Mamma cucinava, babbo stappava le bottiglie, spalmava i crostini e aiutava ad apparecchiare.

I pezzi forti di quegli anni erano il vitel tonné e l’insalata russa. Una volta c’era il pollo in galantina. Quello me lo ricordo bene perché il giorno prima era venuto un cuoco a casa nostra a prepararlo. Si chiamava Imolo e nei miei ricordi di bambina doveva essere per forza emiliano come la città. Faceva il cuoco in un ristorante a Pancole nel periodo in cui mamma e una sua collega ci insegnavano .

Quel pomeriggio non mi allontanai nemmeno un minuto dalla cucina. Guardavo le mani di Imolo, vestito di bianco, che disossavano il pollo, preparavano il ripieno e infine riempivano la sacca di carne che poi veniva avvolta in un tovagliolo bianco e legato con lo spago prima di finire in pentola a bollire.

Io seguivo tutta la procedura senza perdermi un passaggio e chiedendo perché faceva questo e perché faceva quello. 

Imolo pensava di insegnare a mamma quella ricetta, ma dopo di lui in realtà nessuno ha mai più preparato il pollo in galantina, a casa nostra.

Alle cene di Capodanno si apparecchiava con la tovaglia di cotone rosso ricamata di bianco. I piatti, i bicchieri, i vassoi e le zuppiere erano quelli dei serviti del matrimonio di mamma e babbo. I bicchieri in cristallo erano molati, tutti sfaccettati, e lo spumante si beveva nelle coppe. 

Babbo nel pomeriggio sbucciava un ananas e lo tagliava a fette che adagiava in una insalatiera e ci versava sopra lo spumante. Qualche volta c’erano anche delle ciliegine sotto spirito.

Gioli portava uno dei suoi dolci capolavoro. La Direttrice ci regalava dei libri di mitologia greca e romana dopo aver saputo della mia passione per il mondo degli dei.

Mangiando e parlando si aspettava la mezzanotte per brindare e farsi gli auguri. Io però a quell’ora sarei dovuta già essere a letto da un bel po’. Paola andava a dormire senza fare storie. Io invece mi impuntavo, all’inizio chiedendo, per finire supplicando, che mi lasciassero stare ancora un po’ con i grandi.

Per agevolare il trasferimento in camera da letto, mamma ci vestiva già da notte per la cena ma evidentemente, almeno con me, lo stratagemma non funzionava.

Lo facevo anche per Natale e per la Befana, di non andare mai a dormire perché volevo vedere di persona chi veniva a portare i regali. Babbo era disperato perché non poteva andare a letto e doveva aspettare che io crollassi. Ma questo l’ho saputo solo molti anni dopo. 

In ogni caso anche alle cene di Capodanno a una certa ora ce la facevano e mi mettevano sotto le coperte, dopo che avevo salutato tutti con un bacino. 

La nostra camera era in fondo al corridoio, il salotto subito dopo la porta d’ingresso, sulla destra, e non aveva una porta come le altre stanze. Quella del salotto era a vetrata.

Così io, mentre mi credevano a letto, mi alzavo e mi avvicinavo quatta quatta. Poi mi nascondevo rimanendo accucciata tra il muro e la porta, per poter continuare ad ascoltare.

Pare che una volta, al momento dei saluti, mi abbiano trovata addormentata per terra.

Ma il mio obiettivo l’avevo raggiunto.      

(In foto: l’avvocato Oreste Mattone Vezzi e la moglie Franca, Simona con la bambola Bettina e, dietro, la signorina Iser)

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Il mio primo concerto rock

Il 23 maggio 1981 mancavano ancora centocinquanta giorni al compimento dei miei diciotto anni. Nonostante questo, babbo e mamma mi dettero il permesso di andare da sola a un concerto rock a Firenze. Non ricordo perché mi ero tanto fissata con i Clash, che credo nemmeno conoscevo all’epoca. Probabilmente ne avevo sentito parlare da quelli più grandi in piazza. O forse il concerto era pubblicizzato su Radio Centofiori, che ascoltavo tutti i pomeriggi dopo la scuola.

In ogni caso, nella settimana precedente all’evento persi completamente l’appetito. Ero felicissima di fare questa esperienza e felice anche che i miei non me l’avessero negata. Però di fatto la mia gioia fu sopraffatta da un’emozione fortissima, difficilmente definibile, che mi impediva di mangiare. Avevo lo stomaco chiuso.

Al concerto sarei andata con il Bighe, un ragazzo di due anni più grande, del quale i miei si fidavano. 

Il giorno fatidico, un sabato, partimmo da Colle sulla due cavalli verde del Bighe. 

Non facemmo in tempo ad arrivare sul Ponte dell’Armi che il Bighe stoppò la macchina. Sul bordo della strada c’era un tizio con un giubbotto di pelle nera che faceva l’autostop.

Io non mi sarei mai fermata.

Il Bighe invece lo conosceva. Venne fuori che il tizio andava a Firenze al concerto dei Clash. Salì con noi. Si chiamava Pise.  

Al concerto era stata riservata solo una curva dello stadio in Campo di Marte, dove diverse centinaia di scalmanati stavano tutti pigiati. Fu chiaro fin da subito che io, piccola com’ero, non avrei visto nulla se fossi rimasta con i piedi per terra. Non solo.

Avrei anche rischiato di rimanere schiacciata dalla folla che ondeggiava e saltava a un ritmo forsennato.

Il Bighe mi prese a cavalluccio. E lì, accucciata sulle sue spalle, rimasi per tutta la durata del concerto, mentre i fan tiravano sul palco lattine, bottigliette e chissà che.

Dopo quarant’anni si ricorda ancora la fatica di tenermi tutte quelle ore sulle spalle. Fortuna che lui era giovane e forte e io all’epoca pesavo solo quarantacinque chili. 

Quel concerto comunque fu uno schianto.

Davanti ai miei occhi di liceale colligiana diciassettenne, si aprì all’improvviso un mondo di punk, di musica forte, sgangherata, di cantanti ruvidi e chitarre dal suono distorto. 

Le prime note che sentimmo furono quelle del Buono il Brutto e il Cattivo, di Ennio Morricone. Poi esplose London Calling. Sul palco, dietro a Joe Strummer, Paul Simonon, Mick Jones e Nick Headon, scorrevano le immagini violente della rivoluzione sandinista, quella che in Nicaragua aveva destituito il presidente Anastasio Somoza.

Io non ne sapevo niente. Dopo il concerto però cominciai ad informarmi e a cercare di capirne di più.

Fu una serata piena di tante cose. Le ore passarono in un lampo, tra le immagini, la musica, i salti del pubblico. Io, al sicuro sulle spalle del Bighe, non rimasi schiacciata dalla folla e riuscii a non farmi colpire nemmeno da una lattina. Fu lui a dire il vero a scegliere di stare più dietro possibile.

Se ci fossimo avvicinati al palco sarebbe stato peggio.

Insomma, alla fine andò alla grande.

Anche perché poi come sarebbe dovuta andare? Eravamo giovani, negli anni Ottanta, e potevamo fare di tutto, bastava solo pensarlo. 

Al ritorno il Pise era ancora con noi. Dalle cose che disse del concerto, capii che era uno che di musica ci capiva. E infatti venne fuori che suonava la chitarra ed era anche parecchio bravo. 

Dopo il concerto e tutta quella gente strana, mi sembrò meno strano anche lui. E infatti da allora diventammo amici. 

Del Bighe invece ricordo un altro episodio, sempre legato a un concerto, che avvenne parecchi anni dopo la serata dei Clash.

Quella volta eravamo a Certaldo, forse all’Ypsilon, dove c’era un concertaccio punk. A un tratto cominciarono tutti a pogare violentemente e io, che non me l’aspettavo, fui spintonata di brutto. Schizzai come un proiettile contro una cassa sotto al palco senza riuscire a fermarmi. Mi bloccò il Bighe, che chissà come era proprio su quella traiettoria.

Così mi salvò dalla violenza punk per la seconda volta.

Dopo il concerto di Firenze finalmente mi passò l’agitazione e ricominciai a mangiare. Credo che all’epoca però non mi rendessi nemmeno conto che avevo partecipato ad un evento storico, non solo per l’esibizione di un gruppo strabiliante, ma anche perché eravamo all’inizio di un’epoca fantastica di musica, concerti e tutto il resto. 

Soprattutto, perché noi, chi più chi meno,  avevamo tutti vent’anni.

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A ogni morte di papa

L’estate fra la seconda e la terza liceo fu quella della morte dei due papi. 

Girellavamo in motorino, con la mia amica Sandra, io sull’orribile Garelli rosso con il serbatoio sotto al sellino che babbo aveva avuto in regalo tramite il negozio, lei con un elegante Ciao Piaggio di colore blu. Girellavamo in un agosto assolato, nell’assolata via 25 Aprile, la strada che collegava la mia casa di Campolungo alla sua casa sopra Spugna, e ci inventavamo delle frasi con i modi di dire sui papi.  

Era la prima volta nella nostra vita che un papa moriva e già eravamo giunte a un traguardo. A ogni morte di papa. Non era questo che voleva dire quel luogo comune, sentito tante volte senza alcun riferimento concreto? Ecco, ora il riferimento c’era. E ancora.

Morto un papa se ne fa un altro. 

E infatti, dopo la morte di Paolo VI, avvenuta il 6 agosto 1978, venti giorni dopo fu eletto un nuovo papa. Albino Luciani, il 26 dello stesso mese, divenne Giovanni Paolo I. 

Noi continuammo a vivere la nostra torrida estate, fra giratine in motorino e interi pomeriggi passati in cucina a pasticciare. Fino a quando, poco più di un mese dopo, i telegiornali passarono un’altra incredibile notizia. 

Il 28 settembre, dopo trentatré giorni di Pontificato, era morto anche l’altro papa, quello dall’aspetto dolce e mite. 

Le frasi di rito mostrarono subito la loro assurdità. Che cosa voleva dire, dunque, a ogni morte di papa? Si intendeva un periodo lunghissimo o appena un mese e qualche giorno? E per il detto morto un papa se ne fa un altro? Non rischiava di diventare un’attività un po’ troppo frequente, rispetto ai ritmi ben più cadenzati del passato?

Andavamo in motorino e ridevamo. Per noi, all’epoca totalmente sprovviste di un minimo senso della tragedia, quelle frasi diventarono subito inutili. Se non come spunto per inventarci delle battute. A ogni morte di papa diventò un modo di dire per qualcosa che si faceva spesso. Per non parlare di morto un papa se ne fa un altro. E un altro, e un altro ancora.

Diversi anni dopo mi ritrovai a fare una breve sostituzione nella redazione di Belluno per il giornale per cui lavoravo. Ne avevo già girate diverse, di redazioni, da Treviso a Rovigo fino a Pordenone, ma quell’angolo di mondo sperduto in mezzo alle montagne mi mancava. 

Ancora non potevo nemmeno immaginare che in seguito ci avrei trascorso quasi quindici anni della mia vita.

Non ricordo il motivo per cui il capo decise di inviare proprio me, appena arrivata dalla Toscana, a Canale d’Agordo, il paese di Albino Luciani.

Forse era il fatto che pareva fossero riemerse da qualche parte le vecchie pagelle di quando andava a scuola. Io quindi sarei dovuta andare in cerca di questi preziosi documenti, in un paese sconosciuto, in un posto in cui non conoscevo nessuno. Fare tutto in un pomeriggio, tornare in redazione e scrivere l’articolo.

Niente di strano per un giornalista. Nei momenti più belli il nostro lavoro funziona proprio così. Ed è tutto adrenalina. 

Il capo mi disse di chiamare il fotografo e andare insieme a lui. Chiamai il vecchio titolare, come da indicazioni, che al telefono biascicò qualche parola in un dialetto per me incomprensibile. Con un po’ di sforzo e di scocciate, da parte sua, ripetizioni, potei capire qualcosa riguardo a un figlio. 

  • Ah, allora vai con Luca. Mi spiegarono in redazione.

Luca era appunto il figlio di Bepi Zanfron, il fotografo ufficiale del giornale famoso per essere stato il primo ad arrivare sui luoghi della tragedia del Vajont.

Salii sulla sua macchina e partimmo alla volta di Canale, dove arrivammo dopo quasi un’ora e mezzo di strada tortuosa tra boschi, centraline elettriche e costoni di roccia.

Il paese era deserto. 

Suonammo il campanello della parrocchia. Il parroco ci accolse, senza troppo trasporto, disse poche frasi di circostanza e ci lasciò di fatto a bocca asciutta.

  • È possibile vedere queste pagelle?

Naturalmente non le aveva certo la parrocchia, eccetera eccetera…

Provammo con il Comune, ovvero il Municipio, come dicono da quelle parti. 

Chiuso.

In giro non c’era anima viva. 

Luca disse, diamo un occhio alla sua vecchia casa. Magari troviamo qualcuno che ne sa qualcosa. Ci spostammo un po’ verso la montagna, dove c’erano delle case bianche con gli infissi in legno scuro, ma non ci fu niente da fare.

Nemmeno il corrispondente del posto ci poteva aiutare. Lui aveva passato la notizia, ma poi era dovuto andare via per impegni personali.

Ero demoralizzata e non sapevo proprio che cosa fare.  

Non esisteva che tornassi in redazione a mani vuote. E in effetti qualcosina si poteva sempre scrivere, condendo la notizia con un po’ di colore, il luogo deserto, la casa sul crinale, le frasi vuote del sacerdote. 

Ma quale notizia?

Mentre facevamo, sconsolati, un ultimo giro nella piazza principale, vedemmo passare un’anziana signora. Chiediamo a lei, disse Luca.

E io, ma che vuoi che ci dica?

In realtà qualcosa ci disse. 

Era stata la maestra di Albino Luciani, come di tutti i bambini della valle, tanti anni prima, e lo ricordava come un bambino serio e studioso. 

Che voti aveva in pagella? chiese Luca, andando al sodo.

I voti non li ricordava ma poteva dire quali erano i suoi punti di forza e le materie a lui più congeniali.

D’altra parte, secondo un altro modo di dire, anche il papa fu scolaro.

In ogni caso avevamo la notizia.

Facemmo ancora la strada piena di curve per rientrare a Belluno e tornammo in redazione cantando vittoria. 

Solo noi sapevamo quanto ci era costato quel risultato.

Ma se i latini dicevano che la fortuna aiuta gli audaci (e, aggiungerei, anche i caparbi) qualche motivo ci sarà pur stato.

(foto da Wikipedia.org)

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Il caso dell’orata al forno

Quando vivevo nel centro di Belluno, una delle cose che più mi piacevano era il fatto di avere la maggior parte dei negozi a pochi passi da casa. Bastava uscire dal portone e c’erano un bar e un parrucchiere cinese. Dietro l’angolo, l’edicola e un altro bar. A pochi passi il panificio, il mercato ortofrutticolo, un alimentari di qualità, una pasticceria, una libreria, un supermercato, negozi di oggettistica, scarpe e abbigliamento, gli uffici postali, il Comune.    

Ogni mattina, dalla finestra di camera, potevo verificare che ci fosse il furgone dei formaggi, anche se la presenza si intuiva già dagli allegri buongiorno dei venditori.

Il giovedì, accanto al banco dei formaggi, c’era il pescivendolo.

L’anziano sacerdote che viveva sotto il mio appartamento, tra le diverse badanti che si alternavano a casa sua, in un certo periodo ne aveva una russa che andava molto orgogliosa di come cucinava l’orata al forno.  

Ogni giovedì, al mattino, si metteva in fila davanti al furgone del pesce e comprava un’orata per il sacerdote e probabilmente una anche per sé. 

Ad un certo punto la badante russa conobbe l’anziana scrittrice, il cui appartamento dava sullo stesso pianerottolo di quello del sacerdote. La scrittrice, in buona salute nonostante l’età avanzata, cercava sempre qualcuno fidato che potesse darle una mano in caso di bisogno.

Chiese alla badante russa del sacerdote se qualche volta poteva passare da lei, per aiutarla a fare qualche lavoro, ma il sacerdote e la sua famiglia non glielo permisero.

La badante però era riconoscente all’anziana scrittrice per averglielo chiesto e per dimostrarglielo un giovedì preparò un’orata al forno anche per lei.

La scrittrice apprezzò molto il pensiero ma disse che non poteva accettare. La badante insistette e la scrittrice alla fine accettò, ma solo se le fosse stato permesso di pagare il pesce. E così fu. 

Ogni giovedì la badante cuoceva un’orata per l’anziano sacerdote e una per l’anziana scrittrice a parte, in un contenitore di alluminio usa e getta. L’orata costava dodici euro. L’anziana scrittrice gliene dava venti, per far conto pari. A volte anche cinquanta.

È una donna a cui non sono mai mancati i mezzi ma è anche molto generosa.

Il sacerdote però non voleva che la sua badante facesse qualcosa anche per altre persone e lei stava ben attenta a non farsi scoprire.

L’anziano era quasi sempre a letto, ma un giorno furono dei parenti a scoprire che il numero delle orate in cottura non era quello giusto. Brontolarono la badante e le vietarono di cuocere orate o qualsiasi altro cibo per chicchessia al di fuori del religioso. 

Iniziò allora il periodo dell’orata clandestina. La badante riusciva sempre a farla franca e l’anziana scrittrice ogni giovedì aveva la sua bella orata cucinata come si deve e allungava la banconota alla russa.

La scrittrice però a un certo punto si era stufata di mangiare orata al forno tutti i giovedì. Più che per l’orata in sé si era stufata dell’obbligo che la badante aveva istituito, e anche del giro clandestino di orate di cui si era resa complice, dal quale non riusciva a sottrarsi per pura buona educazione.

Come tutte le cose belle, anche il dono dell’orata un giorno finì. Non è chiaro se ciò sia accaduto grazie ad un’improvvisa partenza della scrittrice verso le terme o la casa di montagna o all’ennesimo cambio di badante nella casa dell’anziano sacerdote.

Ma a un certo punto finì.

L’anziana scrittrice si liberò in un sol colpo sia dall’obbligo gastronomico che della cospicua mancia.

Alla badante forse andò un po’ peggio. Chissà se perse anche il lavoro. Di sicuro perse l’entrata extra del giovedì.

Anche al pescivendolo, a ben pensarci, non andò poi tanto bene.

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Una vicina fuori dal comune

Il 14 febbraio 2012 avevo il giorno libero. Lo trascorsi in casa a cucinare dei dolcetti vegani a forma di cuore. Poi, non sapendo a chi darli, decisi di fare un regalo ai miei vicini, scegliendo nel condominio una rosa ristretta delle persone che salutavano quando le incrociavi per le scale. 

La signora del secondo piano ne fu felicissima. Più del contatto, mi parve di capire, che del dolce in sé. Chiacchiera chiacchiera venne fuori che la sua nonna era una Pacini di Colle e che si era scambiata qualche lettera con babbo su un racconto per cui era stato premiato.

Poi passai dalla ragazza con la figlia e anche lei sembrò apprezzare molto. Infine, suonai il campanello alla signora col bastone che avevo conosciuto in ascensore. 

“Ma lei è toscana… Io ho vissuto tanti anni a Siena, sa?”.

Lo sguardo diretto e la parlata sincera la rendevano diversa dalla maggior parte della gente del posto. 

Mi invitò ad entrare in casa, mi offrì dei cioccolatini. Sedemmo in salotto a parlare. Mi raccontò la sua vita come moglie di funzionario governativo, vice prefetto, poi prefetto, che aveva girato mezza Italia seguendo il marito. 

Quella donna parlava tantissimo e lasciava appena lo spazio per annuire più che per rispondere, ma non importava. 

A un certo punto venne fuori che in gioventù aveva scritto dei gialli. E che glieli aveva pubblicati la Mondadori. Nella collana dei Gialli Mondadori per Ragazzi. 

Era stata la prima scrittrice di gialli in Italia, per quel che ne sapeva. 

Man mano che raccontava la sua storia, nella mia testa prendeva forma la trama di un romanzo. Non capita spesso di conoscere una persona così interessante. Intelligente, arguta, battagliera. Potevi stare ad ascoltarla per ore. Ed era la mia vicina, quella che viveva nell’appartamento sotto il mio.

Disse che il marito non era assolutamente contento di questa sua attività e le chiese di scrivere sotto pseudonimo.  

Le dissi che la sua storia era fantastica e avrebbe meritato un articolo. Lei disse che forse era meglio di no, in quel posto così piccolo bastava poco per attirarsi le critiche anche degli amici.

“Però, se dovesse servire per farla avanzare nella sua carriera, lo faccia pure”.

La mia carriera in realtà era inchiodata saldamente lì dov’era e non aveva alcuna possibilità di avanzamento. L’unica cosa che era libera di avanzare poteva essere la mia passione e la voglia (il bisogno?) di far capire quello che potevo e volevo dare a quel lavoro.

Quando rientrai in redazione, povera me, piena di entusiasmo, riferii che avevo una storia fantastica. Mi si fece presente che al giornale servivano notizie e di quella storia lì non importava niente a nessuno.

Se proprio volevo, avrei potuto scrivere l’articolo e una volta che non avessimo avuto niente ma proprio niente da mettere in pagina, allora avremmo potuto pubblicarlo.

In realtà, essendo la titolare della cronaca nera e di quella giudiziaria di notizie ne portavo a bizzeffe. Ma mi è difficile credere che i giornali vivano di soli morti e condannati.

In ogni caso ero abbastanza abituata a queste reazioni, per cui mi apprestai a scrivere la storia della signora Giuliana, alias Giulia Sarno, che era stata autrice di dieci volumi dei Gialli Mondadori per Ragazzi con i suoi giovani investigatori Marcello e Andrea.

La pagina, pronta con le foto, le didascalie e i titoli, rimase a decantare per mesi nella memoria del computer. Naturalmente c’era sempre qualcosa di più importante da pubblicare. Incredibilmente verso la fine di ottobre si verificò una congiunzione astrale favorevole. Il giorno del mio compleanno, il 20 ottobre, non c’erano notizie importanti. La congestionata cronaca bellunese sembrava essersi calmata. Non si erano scatenati terremoti, non c’erano state sette rapine di fila a furgoni valori, nessun personaggio importante si era suicidato e nemmeno un marciapiede cittadino mostrava crepe degne di segnalazione.

Erano trascorsi otto mesi e la mia pagina sulla scrittrice di gialli era ancora valida.

Mi dispiace non poter raccontare che il giorno della pubblicazione si sia verificato qualche evento eccezionale legato all’uscita dell’articolo. Probabilmente qualcuno lo apprezzò e ad altri sarà rimasto indifferente. Succede così per tutto.

Ci fu in realtà qualche piccola evoluzione legata a un ragazzino a cui l’autrice aveva promesso un gelato, che fu rintracciato, fotografato e intervistato. Ma poi finì tutto lì. 

Intanto però coltivavo l’amicizia con la signora Giuliana, come faccio tutt’ora che ha novantuno anni, con mia grande soddisfazione.

Qualche giorno fa sono stata contattata dal responsabile della Cultura del Piccolo di Trieste, la città di origine dei due protagonisti, Marcello e Andrea. Aveva trovato on line la mia intervista alla signora Giuliana e pensava che fosse una storia bellissima e di grande interesse per il loro giornale. Se potevo dare loro qualche notizia… La signora era ancora in vita? E se sì, come la potevano rintracciare? Per loro sarebbe stato importantissimo scrivere un articolo su di lei. Lo avrebbero pubblicato nell’inserto Tuttolibri della Stampa, nella parte distribuita a Trieste con Il Piccolo. 

Li misi in contatto, tempo qualche ora e la signora fu intervistata. L’articolo, molto bello, fu pubblicato  pochi giorni dopo.

Da Trieste mi hanno ringraziato tantissimo e la signora Giuliana, per quanto sembri rifuggire queste piccole occasioni di fama e notorietà, mi ha detto: “Certo, se non fosse stato per lei e per la sua intuizione di tanti anni fa, tutto questo non ci sarebbe mai stato”.

È così, forse, che le piccole ingiustizie vengono riparate, da qualche parte.

Qui la pagina uscita il 21 ottobre 2012 a Belluno

https://wordpress.com/post/jesuisunejournaliste.wordpress.com/204

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Incontro sulla Quinta Avenue

Camminavo con Luana sulla Quinta Avenue quando ad un semaforo vicino a Central Park sentimmo, Simona.

Io non mi girai. Luana invece al secondo Simona disse, cercano te. 

Si, figurati.

Simona, ancora.

Alla fine mi volto verso la voce e vedo M., un’amica del nordest. 

Si era fermata un giorno a New York per fare un giro nei musei. Poi sarebbe partita per il Messico dove l’aspettava il fidanzato.

Noi eravamo state al Guggenheim, lei arrivava dal Metropolitan. 

Mangiammo qualcosa insieme. Fu un bell’incontro. 

Ora anche io potevo vantare una di quelle coincidenze che sembravano succedere solo a babbo. Come quando, una volta che era in un ristorante a Pattaya, sentì chiamare Asvero. 

In quel caso si trovò di fronte proprio il cassiere che gli aveva cambiato la valuta per la Thailandia.

M. l’avevo conosciuta al giornale. Lei scriveva dal suo paese del nordest e io la chiamavo per mettere i suoi pezzi in pagina. In quella redazione li chiamavano tòcchi.

Xè rivà el tòco de Cióza? Che starebbe per Chioggia.

Una sera con un collega giornalista oggi piuttosto conosciuto, a cui allora affittavo una stanza di casa mia, andammo nel paese di M. a mangiare una pizza speciale con lei e altri suoi amici. Un viaggio lunghissimo che sembrava non finire mai. 

Della pizza invece non ricordo.

Anni dopo, nel mio girovagare, un’estate che lavoravo più a nordest del solito, andai a trovare M. a casa diverse volte.

Nel frattempo aveva avuto un bambino, un putto biondo che aveva fatto innamorare perfino me.

In quel periodo avevo una macchina cabrio, una Mazda X5 rossa con tettuccio nero e fari a palpebra di cui andavo molto orgogliosa. 

Il bimbo era piccolo ma la macchina sembrava che gli piacesse molto, così dissi, lo porto a fare un giro qui intorno.

M. disse forse è meglio di no, magari è pericoloso. E io, ma scherzi? Facciamo un giro breve e fra cinque minuti siamo qui.

Misi il bimbo sul sedile della macchina scappottata, feci un giro per uno, due chilometri, e tornai da M. 

Quella fu l’ultima volta che la vidi e che ci parlai.

Io continuai a cercarla ma lei non rispose più alle mie telefonate.

Solo anni dopo, ripensando alla successione degli eventi, ho ricostruito quella che potrebbe essere stata la causa della sua chiusura.

Sul momento non collegai il silenzio che venne dopo con l’episodio del bambino.

All’epoca vivevo le amicizie in modo tanto assoluto e viscerale che potrei non aver notato il suo disappunto. O non dargli il giusto peso. 

Consideravo, piuttosto infantilmente, ogni persona amica come una stella del mio cielo e non potevo concepire dissidi o malintesi che non si potessero chiarire e risolvere.

E poi c’era quell’incontro inaspettato a New York che, almeno per me, dava alla nostra amicizia un suggello speciale.

Chissà. Forse la ragione era un’altra. 

Una di quelle che non saprò mai.  

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david

Certe persone non lo sapranno mai che cosa significano per gli altri
Lui non lo sapeva di sicuro che io lo pensavo sempre
Non era un pensiero voluto
semplicemente lui era lì, e per tante cose mi veniva da pensare a lui
lo vedevo con gli occhi della mente
ma come fai a dire a un amico che vive lontano che la sua faccia ti passa davanti agli occhi un mucchio di volte
per esempio, quando vorrei dire una cosa intelligente e ironica per commentare una situazione ma senza farmi prendere troppo sul serio
lo so non ci riuscirò mai
lui in questo era speciale

e il pensiero è sempre andato lì
A david

David rossi, si doveva sempre specificare per non scambiarlo con david taddei, amici, colleghi, stesso ambiente, stessi anni

quando penso al modo giusto per sdrammatizzare una situazione mi viene in mente lui, david, e cerco di immaginarmi che cosa direbbe
E se non fosse successa questa cosa terribile probabilmente non avrei nemmeno realizzato che senza saperlo mi faceva compagnia e mi ispirava quando ce n’era bisogno

Fai come faresti, mi diceva quando gli chiedevo un consiglio
e giù, la bocca gli si apriva appena in quel sorrisino furbo

Per avvisarmi si e’ scomodato il mio direttore in persona
Si ricordava di quella volta che gli avevi mandato i saluti per me
anche allora mi chiamò e mi disse che gli avevi parlato molto bene di me
“E che dovevo dire, che avevo lavorato con una incapace? Ci avrei fatto una brutta figura anche io”

Mi sono seduta sul divano cercando di focalizzare il pensiero che non riusciva a prendere forma nel mio cervello
Si e’ suicidato david rossi
Lo so che son frasi che si dicono sempre e fa tanto oddio io non ci credo
Ma e’ veramente difficile crederci

Devo parlare con qualcuno
Non puoi stare da sola quando ti dicono una cosa così
Chiamo david, l’altro
Telefono staccato
Chiamo raffa, al telefono, niente messaggi anche se è tardi
ho visto dopo che mi aveva già scritto che c’era una notizia terribile

Quando alla fine rimango da sola dopo le parole inutili ma necessarie il dolore si espande

L’idea che quella cosa orribile è veramente successa si fa concreta
Tutti i giornali on line la danno come prima notizia con tanto di foto

La sofferenza è come un’onda che entra nel cuore nei polmoni si diffonde nei muscoli esce dagli occhi e dalla gola
Perché ti sei fatto così male?
Perché hai valicato quel confine
Perché tu

Tanti anni fa comprai la Mazdina cabrio dopo averla vista a lui
Avevo paura di non farcela a mantenerla, eran tempi un po’ incerti
E lui, con quel modo di fare tutto suo, la bocca quasi chiusa a metà fece la sua battuta
“No, l’unica sarebbe che compri la macchina sportiva e ci metti la bombola a gas”
Quanto mi faceva ridere
Apriva bocca, diceva le sue glacialità, frasi fendenti e mai fuori luogo di un’intelligenza lucida e lungimirante
Poi apriva le labbra in un sorriso bellissimo e muoveva le mani per accompagnare il discorso
E se la battuta gli veniva bene ne faceva un”altra e un’altra ancora, divertendosi un sacco

Qualche tempo fa passai a salutarlo al monte, all’ufficio di rocca salimbeni
no, mi viene mal di pancia ora non posso pensare a questo

David
Intelligente pungente ironico misurato
Equilibrato, sempre perfetto, preciso, puntuale
L’altro david lo prendeva in giro, con quanto affetto, per quel modo di essere sempre perfettino e posato e lui faceva anche finta di incazzarsi con sdegno e altezzosità, rilanciando senza pietà

Ora i pensieri si accavallano senza logica rimestando nei ricordi
Non credevo nemmeno, tu così lontano, di poter soffrire tanto per te
ma abbiamo condiviso giorni mesi e anni
e un mondo
In questo periodo di crisi della banca ti ho pensato spesso, mi sono chiesta come la vivevi
Il tuo profilo facebook era vuoto da mesi

La mente mi porta in via Montanini
Nella redazione del Cittadino
Dove fumavate tutti e alla fine io per protesta lavoravo con la mascherina antigas
Quante polpette del vitti si saranno mangiate insieme al tavolo bianco

Mi ricordo il giorno del suicidio di kurt cobain
Io ero nell’altra stanza quando arrivò la notizia
Non ricordo che cosa dicesti, una frase mi frulla in testa ma non prende forma

Mi viene in mente il tuo cane, quello di allora
E i tuoi quadri, belli, forti
la passione per l’arte, che prima o poi entrava sempre nei tuoi discorsi

Ti vedo davanti ai miei occhi risento la tua voce ma non riesco a trovare le parole per descrivere la persona che eri i tuoi atteggiamenti le sensazioni che trasmettevi
eri tanto, David
tanto

Penso solo al peso enorme che avrai avuto dentro e non so spiegarmi perché in tutto quel disastro proprio tu

No, lui no
Lui no
Perché lui
Perché tu

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luca

Ho conosciuto luca funes meno di un anno fa
Quel giorno ero con michela in piazza alla bancarella del mercatino dei giornalisti che avevamo organizzato per raccogliere fondi per il soccorso alpino
Era il week end del 10 e 11 dicembre, quello lungo dell’immacolata
Un sole che non sembrava nemmeno inverno
Poco più avanti al nostro gazebo giallo nei casottini sotto porta dante vendevano pastin, patatine fritte e vin brule’
Era l’ora di pranzo o appena dopo
Io e michela sistemavamo le nostre carabattole sul banco smangiucchiando patatine con la senape
Tiziana aveva fatto un salto a casa

Fra i tanti oggetti esposti, oltre a quelli ricevuti in dono da ditte e negozianti, c’era un quadro dipinto per l’occasione da franco murer
Avevamo deciso di metterlo all’asta, lo avremmo dato al miglior offerente
La causa era buona
Il fondo di solidarieta’ per le famiglie che avevano perso i loro cari nelle tragedie di falco e del pelmo
Il 22 agosto 2009, quando precipito’ l’elicottero del suem e morirono in 4
E il 31 agosto 2011 quando due soccorritori furono travolti dalla frana del pelmo

Era un momento tranquillo
In giro a quell’ora c’era poca gente
Quando arrivarono due persone, un uomo giovane e corpulento dai lineamenti decisi sul volto sorridente e una donna alta e magra
Lei se ne stette sempre zitta e un po’ in disparte
Lui chiese se il quadro di murer fosse gia’ stato aggiudicato
Non ancora, dicemmo noi
Vorrei fare un’offerta, disse lui
Okay, ci dica la cifra, la scriviamo sul quaderno, ci lascia il numero di telefono e quando chiudiamo l’asta la chiamiamo per farle sapere se il quadro e’ suo o no
Quanto pensava di offrire
Mille euro, rispose come se non potesse essere altrimenti
Noi rimanemmo di sasso, ma probabilmente riuscimmo a non darlo troppo a vedere
Avevamo gia’ capito che il quadro sarebbe stato suo, ma diligentemente scrivemmo la cifra sul quaderno, e gli chiedemmo nome e telefono
Ci dette un bigliettino da visita
I numeri sono tutti qui, disse, mi chiamo luca funes
Ah, il veterinario?
Piacere!
Non l’avevo mai conosciuto di persona ma avevo sentito parlare mille volte di lui al giornale e mille saranno stati gli articoli in cui era stato citato per un motivo o per l’altro

Ci racconto’ di come sentisse vicini in modo particolare quelli del soccorso alpino perche’ anche lui faceva volontariato, come veterinario, con la protezione civile
E che era stato all’aquila dopo il terremoto e tutto il resto
Poi c’era la storia delle testuggini marine e un sacco di altre cose

Me le sono fatte rispiegare in seguito, perche’ li’ per li’ ero rimasta un po’ confusa per l’emozione di aver venduto il quadro cosi’ bene

Finche’ non chiudemmo il mercatino, che duro’ due giorni, lui continuo’ a fremere per sapere se si fosse aggiudicato il quadro o no
Fu felicissimo di sapere che era suo
L’avrebbe messo nella sala d’aspetto del suo ambulatorio, disse
Che tutti lo vedessero
Il disegno di franco murer raffigura le due grandi tragedie del soccorso alpino, falco e pelmo (la terza, quella del cridola, non era ancora successa) e questo per lui aveva un grande significato

Ci spiego’ che ogni anno faceva una donazione di mille euro a un’associazione
E quell’anno, anche grazie al nostro mercatino e al quadro, aveva scelto di farla al soccorso alpino

Poi cominciarono gli scambi di sms ed email, per chiedere gli estremi del conto corrente per la donazione, per sapere se il soccorso l’aveva vista, se avremmo fatto la conferenza stampa e come e quando sarebbe finalmente entrato in possesso del quadro

La fissammo una mattina qualche giorno prima di natale
Io sarei partita lo stesso pomeriggio per la toscana
Lui arrivo’ puntuale ed emozionato
Ci fu la consegna, i discorsi, le strette di mano, la cerimonia

Arrivata a casa in toscana capito’ che un cagnetto mi dette un morso alla mano. Niente di grave. Ma c’era bisogno di un consiglio comportamentale
Scrissi una mail a luca mentre avevo ancora il cagnetto tra i piedi
Tempo pochi minuti e mi rispose, fra la sorpresa dei presenti che mi chiesero se avessi un veterinario personale, spiegandomi la psicologia dei cani di quella razza (schnautzer) e l’atteggiamento che i padroni dovrebbero tenere in casi simili

Non era solo un amante degli animali. Le attenzioni che dedicava alle bestiole Luca Funes le aveva anche per gli esseri umani

Proprio in quei giorni scrissi sul blog il mio addio a vanessa, il setter irlandese che avevamo dovuto sopprimere più di un anno prima quando i reni l’avevano abbandonata
Non ero mai riuscita a liberarmi di un dolore sordo che mi era rimasto bloccato dentro, nella pancia
Ripensandoci ora, capisco che il fatto di aver conosciuto luca, pur senza aver mai parlato con lui di quell’episodio, mi ha aiutato a elaborare il lutto, scrivendo e pubblicando il racconto di quel momento tristissimo e doloroso (che lui fu il primo a commentare), e liberando il dolore che mi era rimasto bloccato dentro

Questo e’ il mio ricordo di Luca Funes, veterinario, ma soprattutto persona di un valore immenso

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