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Je suis Marina Abramović

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Amo le cose che hanno un prima e un dopo e la mostra di Marina Abramović ce l’ha. Prima, sapevo che era un’artista di performance (perfòrmance) anche prima dell’imitazione di Virginia Raffaele. Sapevo di quella cosa al Guggenheim di New York, che in realtà era al Moma, in cui stava seduta su una sedia davanti a un tavolino, in silenzio, e il pubblico poteva sedersi sull’altra sedia e stare lì, fermo, a guardarla negli occhi. Avevo letto da qualche parte che una volta si era presentato il suo vecchio amore e co-performer che non vedeva da una vita e le si era seduto davanti. E lei aveva continuato la sua opera, ferma, senza muovere un muscolo, ma quelli che avevano assistito raccontavano che la forza dei loro sguardi aveva cambiato tutta l’aria lì intorno. Sapevo che era serba, che ogni tanto si esibiva nuda. Tutto qui. E poi risentivo la voce di Alessio. “Lei? L’adoro”.

Poi sono andata a vederla, a Palazzo Strozzi, e c’è stato anche il dopo. Perché durante la visita è successo qualcosa.

Ero con la mia amica Rossella e quella della mostra è stata anche l’occasione per rivedersi dopo un bel po’.

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Appena entrate la prima performance. Due ragazzi nudi, un ragazzo e una ragazza, l’uno davanti all’altra ai lati di una porta. L’opera originale, quella con Marina, al tempo aveva fatto scalpore. Era il 1977 e alla galleria di arte moderna di Bologna i visitatori dovevano passare in mezzo ai due artisti, Abramović e Ulay. Ne passarono 350, con fatica e imbarazzo, prima che intervenisse la polizia.

A Firenze nel 2018 nessuno scandalo. Solo un piccolo cartello che, lasciando liberi gli spettatori di scattare foto alle opere, chiede gentilmente di rispettare la privacy dei performer.

Marina Abramović non c’è, ci sono le foto e i video. Ma a poco a poco la sua presenza riempie le stanze.

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Nella terza saletta una proiezione su due schermi mostra il viaggio di Marina e Ulay sulla muraglia cinese. Partenze da estremità opposte, tre mesi di cammino in solitaria l’uno verso l’altra, per celebrare il loro addio. Una volta incontrati, lui avvolto in un abito blu elettrico, lei in rosso e nero, si sarebbero salutati per sempre.

Fra le lacrime di lei.

Per rivedersi, a sorpresa, quel giorno di chissà quanti anni dopo al Moma.

I due camminano nel deserto, da soli. Ogni tanto nell’inquadratura compare un nugolo di turisti, un uomo in bicicletta. Poi ritornano loro, Ulay blu elettrico, fra le macerie nelle sabbie del Gobi, e Marina in rosso e nero sulla muraglia.

L’effetto è ipnotico e non finiresti mai di guardarli, di contare i loro passi, di osservarli attraversare paesaggi immobili, di salire ripide scalinate e di arrancare in mezzo a sassi e rovine.

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Passi davanti alle foto di Marina, sperimenti sedie per meditare, panche su cui stendersi, pesanti scarpe di alabastro da indossare.

Nell’ultima sala la performance del Moma. In mezzo troneggia il tavolino quadrato in legno chiaro con le due sedie. Sulla parete le immagini proiettate dei volti. Quello di Marina, sulla destra, ripetuto all’infinito, sguardo partecipe e carico di empatia. Sulla sinistra quelli di chi si è seduto e l’ha guardata negli occhi, immobile e in silenzio, fino a svelare il proprio dolore. Qualcuno non trattiene le lacrime.

Marina osserva, immobile, i volti che le si parano davanti. Non mangia, non beve, non sgranchisce le gambe, non va in bagno. Quello è il suo lavoro, più forte di una religione, più serio di un funerale.

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Indossa un sontuoso abito lungo rosso lucido. Non solo si starebbe per ore a osservare i volti di chi le passa davanti. Ma anche quello di Marina, statua, dea, madre amorevole, amica, sorella.

Non so se avete mai provato a stare in silenzio davanti a una persona guardandola negli occhi. Per molti è impossibile. Chi ci riesce fa i conti con il proprio essere, accolto per una volta nella sua integrità e nella sua semplicità, senza gli alibi delle parole, dei gesti, di una possibilità di fuga.

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Si pensi a quali sarebbero le nostre reazioni per tentare di capire quello che fa Marina.

Ma che cosa fa, poi, Marina Abramović? Spinge le situazioni all’estremo, le esaspera per sfogliare il superfluo e arrivare all’essenza. E da lì far partire il suo messaggio, forte e definitivo. Una freccia dritta al cuore, contro la guerra, la violenza, le ipocrisie sociali. Opera d’arte lei stessa.

Il dopo è una riflessione. Un pensiero nuovo rispetto al prima. Abramovic lavora con il suo corpo come un pilota di formula uno con il suo bolide. Lo sottopone a prove di resistenza inimmaginabili. Il fuoco, il silenzio, il digiuno, il cammino, l’immobilità. Per ore, ore, ore.

Privazioni, costanza, rischio, forgiano la coscienza di Marina come uno scultore la sua statua. Il suo essere cresce, lievita, invade le stanze che ospitano la sua arte fino ad abbracciare ogni singolo visitatore.
Usciamo con una consapevolezza nuova sulla forza che possono avere un’idea, un gesto, un corpo.

Anche di una sola persona.

Il titolo della mostra è The Cleaner, l’addetto alle pulizie. Per la prima volta, si legge nel dépliant, un’artista donna è protagonista di un’esposizione a Palazzo Strozzi.

Marina Abramovic – The Cleaner

Palazzo Strozzi, Firenze

21 settembre 2018

20 gennaio 2019

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Libriamoci 2018 – Giorni n. 2 e 3 (ma lei ha pianto mentre scriveva?)

“Le è capitato di piangere mentre scriveva il suo libro?”.

“Oddio, può darsi. Sono una che si commuove facilmente. Però non posso dirlo con certezza. Perché mi fate questa domanda, a voi è venuto forse da piangere leggendolo?”.

La mattina numero due alla scuola media Leonardo da Vinci di Poggibonsi, nella quale sono stata invitata nell’ambito di Libriamoci 2018, trascorre fra le letture di brani scelti della Guerra di Pietro da parte di alcuni studenti e le domande di altri.

Quando ha deciso di scrivere il libro? Quanto tempo ci ha messo? I suoi parenti le hanno raccontato episodi dell’ultima guerra? Che effetto le hanno fatto?

Rispondo con una certa prolissità, mi pare. D’altra parte non mi sento molto bene, stamani sono stranamente stanca, mi stanno spuntando delle bolle pruriginose addosso (effetto di una qualche intolleranza a qualcosa che avrò mangiato, chissà) e il mio cervello mi sembra abbastanza rallentato.

Stavolta torno a casa con una pianta in vaso, una bella pianta con un fiore carnoso rosso al centro (dovrebbe chiamarsi guzmania, credo). Un regalo da parte di tutti i ragazzi e i docenti che ho incontrato in questi giorni. Sinceramente non me l’aspettavo. Mi sembrava già molto che mi avessero scelta e che avessero avuto l’interesse e anche la pazienza di ascoltare le mie storie.

I bambini leggono le loro frasi, sedendosi accanto a me, al microfono. Lascerei volentieri che fossero solo loro a parlare e a raccontarmi che cosa hanno provato e perché.

Quelli che ho incontrato il secondo e il terzo giorno di questa piccola avventura scolastica, La guerra di Piero di De André la conoscevano. “Ce l’ha fatta sentire il professore in classe”.

Perché il titolo del libro è come quello della canzone, mi ha chiesto una ragazzina, se parlano di cose differenti?

Dirò una banalità, ma con i ragazzi niente è scontato. La storia, le canzoni, i riferimenti.

Cronologicamente ci separano anni luce. Poi, per fortuna, ci sono aspetti della vita il cui valore non cambia con il passare del tempo.

Quando parlo di Tina e dell’ingiustizia che fu costretta a subire, alcune ragazzine scuotono la testa, partecipi e incredule.

Cosi come quando racconto la storia di Alvara che va a buttarsi sotto il treno tenendo il figlio di otto anni per mano. È allora che sento il silenzio aprirsi intorno a me, denso, vedo i loro occhi ben aperti, tutti concentrati nel non perdersi nemmeno una parola.

Forse è questo il punto che li ha fatti piangere, anche se, probabilmente, non lo ammetteranno mai.

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Libriamoci 2018 – Giorno n. 1 (la ragazza con il libro)

Se devo fare un bilancio di questa prima mattina a scuola, per me è positivo. Per dirlo mi basta l’immagine della ragazzina che ha afferrato il mio libro ed è uscita dall’aula stringendoselo al petto.

Lei è stata quella più veloce. Alle altre tre che nel frattempo si erano avvicinate alla cattedra ho detto di aver pazienza, che poi sarebbe toccato anche a loro.

Sono alla scuola media Leonardo da Vinci di Poggibonsi dove mi hanno invitato nell’ambito di Libriamoci, edizione 2018. In questa settimana (22-27 ottobre) in tutte le scuole d’Italia si organizzano incontri con autori e altre iniziative, nell’ottica di promuovere la cultura e la lettura fra gli studenti.

Ho chiesto ai ragazzini se leggessero libri. No, hanno detto tutti. Eccetto qualcuno.

Una situazione abbastanza desolante. Però qualcuno, o meglio qualcuna, che legge con passione e curiosità c’è.

Non conoscono nemmeno La Guerra di Piero di Fabrizio De André, la canzone di cui ho preso in prestito il titolo (aggiungendo la t di Pietro). Solo una ragazzina alza la mano. “La ascoltava mia sorella”.

Arrivo a scuola qualche minuto prima delle otto e mezzo. Mi accoglie la bidella che mi accompagna nella classe dove si terrà l’incontro. Sulla cattedra c’è un computer portatile collegato a uno schermo. Dobbiamo solo trovare il modo di collegarli. Per fortuna ho in borsa la chiavetta con le foto delle lettere e dei luoghi del libro, così posso far vedere anche qualche immagine.

Vedo che manca il microfono. Per puro caso mi è venuto in mente prima di partire di mettere in borsa l’amplificatorino da guida turistica che mi sono fatta regalare per il compleanno. Credo proprio che questa sia l’occasione giusta per inaugurarlo.

I ragazzi di una delle due classi che incontrerò stamani sono già seduti. Scambio due parole con la loro professoressa, mentre un’altra va in cerca di una stufetta. La sala è grande e illuminata da ampie vetrate. Peccato che per permettere di mostrare le immagini vengano tirate le tende.

Arriva anche l’altra classe, con i docenti, uno dei quali sistema i collegamenti del computer.

Si può cominciare. Mi presento e comincio a raccontare come è nata l’idea di scrivere il libro dopo il ritrovamento delle lettere scritte dallo zio Pietro. I ragazzi sono abbastanza attenti. Cerco di coinvolgerli facendo loro qualche domanda, anche banale (tipo: avete mai visto questa casa sulla strada per Colle?). Tenere desta la loro attenzione non è cosa da poco.

In generale sono abbastanza silenziosi. Ringrazio comunque il mio piccolo amplificatore.

Quando comincio a raccontare le vicende narrate nel libro, la storia di Tina, con lo scandalo e la cacciata di casa, li vedo più presenti.

Leggo qualche brano. Una lettera di Pietro in cui racconta alla sorella come vivevano in quegli anni di guerra, il suicidio di Alvara. Quando leggo l’episodio del barrocciaio che finisce sotto il ponte dell’Armi con il carro e delle donne che si precipitano a raccogliere polli, conigli e uova portandoseli a casa, sento addirittura qualche risata. In particolare nel punto che dice che nell’aria si sentivano solo le bestemmie dell’uomo, arrabbiato per aver perso tutta la roba che avrebbe dovuto vendere al mercato di Colle.

Nell’ultima parte dell’incontro i ragazzi sono un po’ stanchi e parlano fra sé. Cerco di attirare nuovamente la loro attenzione rivolgendo loro qualche domanda.

Ma voi li leggete i libri? No.

Ormai siamo vicini all’intervallo e l’attenzione è volata via.

Lascio in regalo una copia del libro e li saluto.

La mattina non mi pare sia andata sprecata.

(Avvertenza – in questo post si usano parole fuori tempo e fuori legge come scuola media e bidella. Con la speranza che nessuno si offenda, nel caso ciò dovesse accadere, ce ne scusiamo fin d’ora con gli interessati)

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Polesine – singolare, maschile

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Polésine s. m. [voce veneta: è il lat. mediev. pol(l)icinum “terra paludosa”, che è dal gr. biz. “che ha molti vuoti”, incrociato con pullus “molle”, cfr. ital. pollino “terreno paludoso”]

 

Rovigo, secondo giorno (ovvero la mattina prima della visita alla mostra Arte e magia)

Sveglia all’alba. L’appuntamento è per le 8.15 nella hall dell’albergo, pronti per partire. Stavolta la meta è la sede della Camera di Commercio, in centro. Una volta lì, ci divideranno in stanze diverse, secondo i Driver (Settore Ittico, Turismo e Parco del Delta del Po, Distretto Giostra del Polesine, Logistica: Territorio e Infrastrutture, Polo Universitario-Cittadella dell’Innovazione, Patrimonio Artistico e Culturale). Dopo le visite del giorno prima, abbiamo un’ora e mezzo per individuare nuove forme per comunicare il Polesine, uscendo dalle frasi fatte e dalle immagini sedimentate nell’immaginario collettivo.

Gli organizzatori (Confindustria VeneziaRovigo e Eurogiornalisti) ci hanno fornito un questionario suggerendoci un percorso lungo il quale muoversi per trovare le parole e le forme più adatte alla promozione di questo territorio.

Nel nostro gruppo arriva anche la referente del Settore Ittico per Confindustria, che si rivelerà una presenza preziosa per la discussione.

A che cosa saranno serviti i nostri pensieri, parole, suggerimenti, considerazioni, lo vedremo in futuro.

 

Per il momento vorrei soffermarmi su due aspetti di questo evento.

 

Invitare comunicatori da fuori a cui mostrare le bellezze di casa non è certo una novità. Iniziative del genere si chiamano educational e rappresentano una forma di investimento che aziende e territori compiono per pubblicizzare ciò che vogliono far conoscere tramite la produzione di articoli e servizi vari da parte dei giornalisti ospiti.

In questo caso però nella mail di invito era scritto chiaro: “Ai giornalisti non si chiede di produrre articoli, ma di mettere a disposizione esperienza e professionalità al fine di gettare le basi per promuovere in maniera diversa il racconto del Polesine”.

Un aspetto che mi è piaciuto molto e che mi ha convinto ad accettare subito. Mi pare un metodo intelligente anche perché permette di abbattere la distanza tra chi invita e l’ospite, tra chi spiega e mostra e chi apprende e vede. Che è sempre in qualche modo verticale.

Così invece siamo su un piano che tende all’orizzontale.

È come se ti dicessero: vieni che ti faccio vedere le nostre bellezze. Poi, ammetto (ed ammettere i propri limiti è sempre, a mio avviso, una grande forza) che non riesco a farle conoscere nel modo giusto e ti chiedo se tu, che le vedi con occhi nuovi, da esterno, che impasti a ciò che vedi la tua esperienza di comunicatore, puoi suggerirmi qualche idea per promuoverle al meglio.

Di sicuro un atteggiamento molto positivo che, se portato avanti con coraggio ed umiltà, potrà regalare un bel cambiamento e nuova freschezza a questa terra meravigliosa e ricca di tesori (più o meno) nascosti.

 

Per il secondo punto mi aiuto con un’immagine. Pensate ad una sala grande, con il soffitto vetrato a cupola su base rettangolare. Insomma, una meraviglia (anche se durante il convegno tanta bellezza ci è stata negata da un controsoffitto di tendaggi, probabilmente per questioni di acustica). La sala è piena di persone, qualcuna più attenta, altre meno. Ma non è questo il punto.

Sullo sfondo un lungo tavolo, con microfoni e bottigliette di acqua, al quale sono seduti i rappresentanti delle varie realtà associative che hanno partecipato al progetto. Confindustria, Camera di commercio, Eurogiornalisti. Man mano che i rappresentanti dei vari gruppi di comunicatori (sei, suddivisi per driver produttivi) finiscono il loro intervento, si siedono anche loro al lungo tavolo, occupandone le sedie vuote, subito identificati da un cartellino con il loro nome. Un’organizzazione perfetta, fino alla fine.

Poi, una volta che i singoli interventi sono terminati e si parte con un veloce talk show, alzate gli occhi e guardate quel tavolo. Ci sono sedute dieci persone, forse undici. Sono comunicatori, imprenditori, rappresentanti di categoria.

Riuscite a individuare il tratto che li accomuna?

A parte la fila di sfumature dal blu al grigio.

Sono tutti uomini.

 

Ora io mi chiedo come è possibile che non si sia pensato di far salire sul palco almeno una comunicatrice. Ma soprattutto mi domando quali siano le ragioni che hanno impedito questa scelta.

Purtroppo non sono riuscita a conoscere personalmente tutte le colleghe che hanno partecipato a questo evento. Ma sono sicura che ognuna di loro avrebbe potuto sostenere questo impegno. Solo un esempio, ho scoperto che c’era anche una influencer con oltre cinquantamila follower su Instagram. Penserei che sia una che ha capito qualcosa dei meccanismi misteriosi della comunicazione.

Poi magari mi sbaglio.

Ma usciamo pure dalla logica dei like e dei follower che, come ogni giornalista vecchio stampo sarà ben lieto di spiegarvi, non significano necessariamente bravura e qualità (almeno non nel senso in cui lo si intendeva prima delle nuove figure di comunicatori in rete).

Possibile che nemmeno nel mondo della carta stampata, dei blog, delle radio e delle tv ci fosse una comunicatrice degna di parlare a nome di colleghe e colleghi?

 

Ho il sospetto che questo interrogativo non si sia nemmeno posto e che si scelga automaticamente un referente maschile. Cioè, non è che si escludono le donne, semplicemente non si considerano da un certo punto in là.

Anche le associazioni che ci hanno ospitato, in fondo, mettono in scena lo stesso schema. Frotte di collaboratrici che accolgono, indirizzano, accompagnano, spiegano, organizzano, contattano, scrivono, telefonano. Poi, alla guida dell’ente, però, c’è sempre un uomo.

 

Premetto. Non intendo fare un intervento improntato al femminismo, alla donna a tutti i costi né tantomeno teso a rivendicare il ridicolo e offensivo ufficio delle quote rosa. Il mio sogno sarebbe quello di vedere considerate le persone come tali, per il loro valore intrinseco, al di là del sesso che rappresentano. (Oggi parlo di sogno, fino a qualche anno fa vivevo nell’illusione che già funzionasse così. Purtroppo no).

Un nome al femminile, su trenta giornalisti, poteva uscire. Anche solo per caso.

 

Ma che c’entra tutto questo, vi chiederete, con la promozione del territorio?

 

Credo che quello del riconoscimento femminile potrebbe essere un ulteriore aspetto su cui lavorare. Se è vero che ai cambiamenti interni, del nostro modo di pensare più profondo, del nostro essere, corrisponde il cambiamento del mondo che ci circonda, sicuramente anche questo sarà un passo in più che aiuterà questo fantastico territorio ad emergere.

Se noi rispecchiamo il mondo in cui viviamo e a un certo punto ci accorgiamo che è un mondo chiuso, spento, che non riesce a dialogare e a proporsi all’esterno come vorremmo, possiamo provare a cambiare questi aspetti dentro di noi.

Non sarà una donna seduta al tavolo dei relatori a determinare il cambiamento, ma la sua assenza potrebbe intanto aiutarci a capire dove possiamo migliorare.

(3-fine)

 

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Sorprendente Delta del Po, là dove crescono le ostriche

La barchetta scivola silenziosa sulle acque della laguna facendosi strada in un labirinto di canneti. Nemmeno la nostra guida riesce sempre a orientarsi. “Una volta a Capodanno ho accompagnato dei ragazzi a una festa. Al momento di ripartire era scesa la nebbia. Devo ammettere che ci ho messo almeno mezz’ora solo per capire come riportarli a casa”.

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E’ il Delta del Po, una serie di canali formati dai detriti e dalle sedimentazioni del fiume (ricordate, a scuola, la differenza fra delta e estuario?). Un’oasi naturale che a vederla, così, dalla parte delle acque, nel silenzio, riempie il cuore e gli occhi. Paradiso degli amanti dell’ambiente ma anche dei cacciatori, che si appostano nelle botti, e dei pescatori.

Faccio parte di un gruppo di comunicatori arrivati un po’ da tutta Italia (anche dalla Slovenia). Siamo stati invitati da Eurogiornalisti che sta promuovendo un format per la comunicazione in positivo dei territori meno conosciuti, o gravati da luoghi comuni duri da abbattere, come il Polesine “solo nebbia e zanzare”. L’ospitalità e l’organizzazione della due giorni è di Confindustria VeneziaRovigo. Hanno suddiviso le varie attività trainanti, i Driver, assegnandone ognuno ad un piccolo gruppo. A me è toccato quello ittico con annessa la gita in barca. Con noi ci sono anche i colleghi destinati al comparto turistico. Gli altri, giostra e settore pirotecnico, infrastrutture, patrimonio culturale, polo universitario-cittadella dell’innovazione, sono rimasti sulla terraferma. E, per una volta, ci hanno anche un po’ invidiato.

La giornata brilla di sole e all’inizio ci lamentiamo un po’ per le giacche che ci hanno chiesto di portare. Più avanti, completamente circondati dalle acque e bagnati dagli spruzzi del barchino, non ci lamenteremo più.

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La barca dal fondo piatto scivola sulle acque poco profonde dei canali. Ogni tanto su una briccola si avvistano un airone cinerino o un cormorano. Il cielo è pieno di gabbiani. Vicino ai canneti nuotano le famigliole di anatre. Siamo nella Sacca di Scardovari, un lago di acqua salmastra che si apre sull’Adriatico. Tutto intorno il Po, diviso in cinque rami, forma un territorio giovanissimo, di 400 anni, nato con il Taglio da parte della Serenissima. Il corso del fiume fu deviato a sud per evitare che le sue acque riempissero la laguna di Venezia. C’è il Po Grande (di Venezia), da cui si diramano il Po di Goro, il Po di Gnocca (o della Donzella), il Po di Maestra e il Po delle Tolle.

Qua si coltivano ovunque vongole e cozze, Lo chiamano l’oro del Delta. Le cozze hanno ottenuto anche la Dop. Ma il nostro viaggio prevede una meta che ha dell’incredibile. Più avanti ci attende Alessio, che ha avviato addirittura una coltivazione di ostriche. La perla del Delta.

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La vista dell’impianto ci strappa nuove esclamazioni di sorpresa. Sembra un’installazione della Biennale d’arte di Venezia. E invece, appese a quei fili o racchiuse nelle retine, ci sono centinaia e centinaia di ostriche. Un piccolo apparecchio eolico e uno fotovoltaico fanno muovere tutti quei fili riproducendo l’andamento delle maree. I molluschi vengono immersi e fatti emergere dalle acque secondo ritmi ben precisi. La Normandia è più vicina al Polesine di quanto possiamo immaginare.

Alessio Greguoldo ha intrapreso questa attività da sei anni. Ci ha investito tanto, in macchinari e in saperi, cercando di carpire tutti i segreti dei produttori di ostriche francesi. Oggi, dopo le inevitabili perdite e gli errori iniziali, lo 0.1 per cento delle sue ostriche va proprio in Francia. Il resto, rimane in Italia, distribuito nei ristoranti stellati.

Qualche numero: l’impianto è dotato di 1440 corde. Ogni filo ospita 90 ostriche che i grossisti vendono a 5 euro al pezzo. Alessio ha 5 dipendenti. Prevede di ampliare il capanno dove lavorano i molluschi (ogni ostrica passa dalle mani dell’uomo almeno 7 volte) e di realizzare 4 o 5 nuovi impianti entro il prossimo anno.

L’acqua salmastra della laguna ha già segnato un punto a suo favore. Qui – spiega Alessio – le ostriche completano la propria maturazione in 16 mesi, anziché nei 32 della Francia, perché qui l’acqua è più ricca. L’anno scorso dagli Scardovari uscivano mille ostriche a settimana. Oggi sono già tremila.

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Qualche fortunato assaggia alcune delle ostriche aperte da Alessio. Non servono parole. Bastano le espressioni sui loro visi.

Il tempo passa ed è tempo di tornare sulla terraferma. Il programma prevede una visita allo stabilimento New Sea di Rosolina, un’azienda di import export specializzata nella vendita all’ingrosso del pesce, con sessanta dipendenti e un listino di 400 prodotti fra fresco e lavorato. Indossiamo un camice celeste di carta e un cappellino, passiamo da un macchinario che ci disinfetta scarpe e mani et voilà, siamo dentro al magazzino. Lo spazio è enorme ma, essendo quasi alla fine della giornata, la maggior parte del pesce è stato già distribuito. Facciamo in tempo a gironzolare fra enormi pesci spada, casse di molluschi e crostacei, e pesci di tutti i tipi. Sulle pareti ci sono dei grossi cartelli con i nomi di varie nazioni. Il pesce arriva da tutto il mondo e per il mondo riparte, tre volte alla settimana. La metà del prodotto è distribuito in Italia, fra dettaglio e grande distribuzione. Il fatturato è di 30 milioni annui.

Finita la visita gettiamo il camice e ci teniamo il cappellino, insieme a un vago odore di pesce che ci accompagnerà per il resto della serata.

E’ ora di andare. Ma la giornata non è finita. Dopo un veloce passaggio in albergo, il Capital di Rovigo, è già ora di ripartire. Per la cena, stavolta, alla Trattoria Al Ponte, a Lusia, la trattoria del Polesine. E’ il momento di brindare con i nuovi amici e di rilassarsi un po’ dopo le corse della giornata.

Ma il lavoro non è finito. I tavoli infatti sono organizzati per Driver, così che possiamo cominciare a conoscerci fra colleghi e a organizzarci per la riunione della mattina dopo, quando produrremo le nostre idee per la promozione di questo sorprendente Polesine.

(2 – continua)

 

 

 

 

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Se di notte una strega dai capelli rossi…

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Ho deciso, parto dalla fine. E quindi inizio dalla visita alla mostra “Arte e magia” a Palazzo Roverella, a Rovigo, che ha concluso la nostra due giorni in Polesine come esperti di comunicazione, ospiti di Confindustria Venezia Rovigo in un evento organizzato da Eurogiornalisti.

La raccolta di opere, curata da Francesco Parisi, comprende anche qualche lavoro di Klee, Kandinskij, Mondrian e Munch, ma più che sui grandi nomi l’esposizione corre sul filo del magico, dell’esoterico, dell’occulto. Opere crepuscolari, talvolta gotiche, di autori ai più sconosciuti, ma che hanno affrontato in vari tempi e in modi diversi questo tema.

La mostra inizia con l’invito al silenzio, espresso tramite alcune opere, sculture e dipinti. Si invita la ragione a far silenzio, mettendo da parte la razionalità per far posto al mistero; si invita lo spettatore a entrare in una dimensione raccolta, silenziosa, per poter assaporare quanto di magico queste opere sono in grado di offrire; si invita l’adepto, infine, a non rivelare quanto appreso durante i riti iniziatici.

Fra le opere, Un velo di Louis Welden Hawkins, Parsifal di Jean Delville, Il silenzio di Giorgio Kienerk.

Una sezione è dedicata all’architettura esoterica, all’arte di costruire templi che costituiscono dei veri e propri monumenti dedicati ai simboli cari all’esoterismo. Un’altra affronta il mistero dei Rosacroce, il movimento fondato da Joséphin Péladan (alias Sar-Mérodack), occultista, esteta e filosofo francese che lottò contro il realismo per restituire all’arte la sacralità che riteneva perduta. Fra gli altri, sono esposti, Il Manifesto per il primo Salon de la Rose+Croix di Carlos Schwabe, Studio per il Sar Péladan di Alexandre Séon e Fantasticheria nella notte di Alphonse Osbert.

La notte, con i suoi abitanti misteriosi, è il regno indiscusso della magia e dell’occulto. Ma il dipinto Tre donne e tre lupi di Eugène Grasset mostra un aspetto diverso di questo mondo che attrae ma che al tempo stesso suscita anche timore. Le tre donne, tutte streghe, sono terrorizzate. Fuggono volando, coperte appena di veli, con i lunghi capelli al vento, scoperte, braccate da chi dà loro la caccia.

Il cuore più oscuro della mostra è rappresentato dalle opere di Odilon Redon, Paul Ranson, Jean Delville, Albert von Keller e Felicien Rops, artisti specializzati nel raffigurare il Demonio e i suoi servitori, streghe e maghi. E’ qui che si realizza il percorso contrapposto all’Illuminismo, la fascinazione per l’alchimia, per diavoli, streghe, maghi e spettri, rafforzata in antitesi con l’affermazione del secolo dei Lumi.

La Circe di Louis Chalon, La fonte del male di George de Feure, La Notte di Valpurga (antica celebrazione pagana della primavera) di Fritz Roeber, raccontano tutto questo.

Gli appassionati di fantasmi e sedute spiritiche potranno apprezzare in particolar modo il tavolino di legno finemente intagliato di Thayaht, sul cui ripiano sono rappresentate le mani dei partecipanti alla seduta.   E’ in questa sezione che troviamo anche L’urna di Edvard Munch.

La luce che arriva dall’Oriente rischiara tutta questa oscurità con la ricerca di un mondo nuovo fatto di spiritualità e un misticismo che passa per dottrine come il buddismo ma anche attraverso lo yoga, il tantrismo indiano e gli animismi tribali di cui sono testimoni Frantisek Kupka, Jan Toorop e Sascha Schneider.

L’opera di Vasilij Kandinskij “Rosso in una forma appuntita” è la sintesi di una ricerca che si rifà agli archetipi, alle forme ancestrali, per manifestarsi in una rappresentazione sempre più rarefatta. Astratta. Così come accadrà a Paul Klee e a Johannes Itten. E a Piet Mondrian del quale in questa mostra possiamo ammirare un’opera paesaggistica, risalente al periodo precedente la sintesi astratta per cui oggi tutti lo conosciamo.

Nell’ultima sala si compie il salto estremo dalle credenze legate ai secoli più oscuri fino alle avanguardie del Novecento. Una nuova attenzione ai sensi interiori, l’affacciarsi delle dottrine psicanalitiche, la (ri)scoperta dell’aura, delle onde elettromagnetiche, sono gli ingredienti che caratterizzano le opere esposte, firmate da autori come Giacomo Balla, Frantisek, Mondrian e Romolo Romani.

La strega di Luis Ricardo Faléro è l’immagine scelta come simbolo della mostra. Una giovane in carne, secondo i dettami estetici in voga alla fine dell’Ottocento (l’opera è del 1882), con una chioma spettinata di capelli rossi (il colore generalmente attribuito alle streghe), imbraccia una scopa al contrario, volando in un cielo denso di nuvole e pipistrelli. Il disegno originale decora un tamburello. La posizione della scopa, nel tempo, non ha mancato di suscitare interpretazioni a sfondo erotico.

The  witch, by Luis Ricardo Falero

Noi, in ogni caso, ci facciamo la foto di gruppo davanti al grande manifesto stando ben attenti a non coprirne la protagonista.

La mostra, aperta tutti i giorni (feriali 9-19, sabato e festivi 9-20) chiude il 27 gennaio 2019.

(1 – continua)

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Che cosa c’è di sbagliato nel silenzio, di grazia?

Mi piace e mi diverte leggere quello che giornalisti e scrittori stranieri scrivono di noi italiani e dei nostri comportamenti. Rimettendo a posto alcuni fogli è tornato alla luce questo articolo apparso sul Times di Londra il 31 luglio 1995, a firma Libby Purves. Credo che la traduzione non sia troppo fluida ma non ho il testo originale per cui, oltre a limare un po’ il senso in italiano, non so che cos’altro fare. Ma il messaggio appare chiaro.

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Che cosa c’è di sbagliato nel silenzio, di grazia?

Da Venezia, come un gran suono di campana, arriva un messaggio che ispira ogni parroco, capitolo, vescovo e cardinale, su come essere cristiani. I responsabili della chiesa hanno ridotto, nella Basilica di San Marco, il numero di visitatori permessi contemporaneamente. Di più, hanno impedito di scattare foto e imposto a tutti la regola del silenzio.

Bene, non esattamente imposto, ma più precisamente reintrodotto. Da sempre è stabilito in tutta l’Europa cattolica che non si possa parlare ad alta voce in chiesa se non per le risposte liturgiche.. I cattolici fin da piccoli, come me che venni via da un convento francese a 10 anni, sono profondamente scioccati dal modo anglicano di chiacchierare e socializzare nelle loro chiese, mai a bassa voce, cosicché si potrebbe pregare meglio ad un cocktail party. Il modo dei cattolici europei era quello di stare in silenzio, di sentire il calpestio dei passi e lo strisciare del vestito nella genuflessione. Il sommesso schiarirsi della gola, il mormorio del confessionale nell’angolo. Tutte queste cose erano parte dell’edificio, come le vetrate istoriate.

Ma nelle chiese che sono “stelle del turismo” come San Marco, le autorità lasciano correre. Notre Dame e il Sacro Cuore, Chartres a Rouen, non hanno mai troppo rumore perché i francesi sono duri e non si preoccupano di essere rudi con gli stranieri. (Ho visto un vescovo in piena porpora fermare un bambino che correva in Notre Dame, sgridarlo e benedirlo per poi restituirlo ai suoi attoniti genitori americani). Gli italiani invece sono più malleabili e disposti ad accettare fatalisticamente le intemperanze degli stranieri senza Dio; così ci sono stati anni in cui sono stati molto gentili e tolleranti, “molto inglesi” su queste cose.

Ora a San Marco padre Antonio Meneguolo, il delegato del Patriarca, è ritornato a essere un cattolico italiano quasi sputafuoco.

Prevedibilmente egli tiene questa linea solo perché rifiuta di accettare il suggerimento delle autorità cittadine di far pagare l’entrata – sacrilegio: trattare la casa di Dio come un museo o un night club – ma ora sta andando oltre. “Non è possibile più a lungo – dice padre Meneguolo – che la chiesa sia così maltrattata e offesa. Non può più essere dilazionata una più severa regolamentazione dei turisti. “Le compagnie turistiche si sentono oltraggiate. Come possono fare i loro commenti registrati? Come possono dare la loro valutazione? La risposta, naturalmente, è che potrebbero suggerire ai loro turisti se vogliono avvicinarsi con amore a San Marco di andare alla Messa o alla Benedizione e cercare di pregare. La partecipazione alla messa della mattina presto è aumentata anche in estate (e in ogni caso la gente sensibile va a Venezia d’inverno).

Poiché i visitatori non in gruppo non sono più di venti per ogni minuto, questi devono fare la coda. Bene. Se tu vuoi trattare una chiesa come un’attrazione turistica la coda è una cosa dovuta e se protesti che vuoi entrare per pregare vi sono dozzine di altre chiese aperte a Venezia, la maggior parte delle quali gradevolmente vuote e fresche.

Io spero, spero ardentemente che padre Meneguolo non ceda e non sia obbligato a cedere da questa sua nuova rigida posizione. Spero inoltre che egli ispiri i manager – uno può difficilmente trovare altri nomi in questi giorni – di alcune delle nostre cattedrali. Al momento, in certi giorni della piena estate, si potrebbe pregare in un supermarket bene come nella cattedrale di Canterbury, York Minster o St. Paul. Questi vogliono dirmi che hanno bisogno di soldi; ma riducono a poco e in rovina l’unica cosa che offrono, la meraviglia e il senso della fede e di un mondo superiore, le cattedrali presto non prenderanno neppure più i soldi del biglietto di ingresso.

Dateci silenzio, dignità, libertà dalle macchine fotografiche e dalle videocamere specialmente, rendete a Dio ciò che è di Dio e vendete i gioielli di Cesare (e biglietti di ingresso, se volete), fuori. Chissà, potrebbe anche aumentare il vantaggio. Dopotutto le moschee e i templi dell’Est sopravvivono senza il consenso secolare. Se puoi toglierti le scarpe in Thailandia puoi smettere di chiacchierare in basilica di San Marco. O no?

Libby Purves

Times (Londra) – 31 luglio 1995

(L’immagine è stata tratta da http://www.flickr.com. Se soggetta a copyright mi scuso con l’autore e sono pronta a cancellarla, basta che mi si faccia sapere. E’ una precisazione che faccio giusto per correttezza, considerata la limitata diffusione di questo blog)

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Due o tre cose che ho imparato sull’Accademia della Crusca

Sapevate che l’italiano avrebbe potuto essere una delle lingue scelte dalla Comunità Europea fra quelle ufficiali dell’Unione e questo invece non è avvenuto nonostante sia la quarta studiata al mondo?

Sapevate che l’Accademia della Crusca (la più antica del mondo) non legifera sulle parole ma dà solo pareri e non fa più un vocabolario dal 1923? Sapevate che in altre nazioni europee questo non accade, cioè le rispettive accademie legiferano, perché la lingua nazionale è stabilita addirittura dalla loro Costituzione?

Non credo che questa sia una storia conosciuta da molti. Io sono rimasta stupita e anche addolorata a dire il vero nell’apprendere un altro dei tanti tristi pasticci all’italiana.

Oggi ho fatto un corso di formazione per giornalisti all’Accademia della Crusca. A parte le quattro ore volate senza che nessuno si sognasse di fare altro che non fosse ascoltare o far domande, alla fine ci hanno proposto anche una visita guidata.

Ed è in quest’occasione che ci sono state raccontate delle storie bellissime. Questa, proprio bellissima non lo è, però secondo me merita conoscerla.

In pratica a un certo punto, questi della Crusca che stanno sempre lì a studiare il significato delle parole, a salvare la lingua del passato e a vedere come cambia con il tempo, ci hanno provato a far inserire nella Costituzione il punto sulla lingua italiana. Non è stata una cosa facilissima, pare, perché i vari governi di vari colori sembra che siano più propensi a chiudere l’Accademia che ad ampliarne l’attività (anche se Franceschini di recente ha mandato un bel po’ di soldi). Però loro ci provano sempre, quando possono.

Dal Duemila, per due volte, la cosa è stata discussa in Parlamento. La prima è stata la Lega Nord a mettersi di traverso sostenendo che se si inseriva nella Costituzione la lingua italiana come lingua dello Stato allora bisognava mettere anche il padano. Il padano. Non i dialetti dell’arco padano. No, proprio il padano. Che non esiste, ovvio.

Quindi, affogato tutto.

La seconda volta è toccato a Rifondazione Comunista, da non credere. Questi hanno detto. Eh no, se si fa con l’italiano allora bisogna mettere anche le lingue delle minoranze.

Au Revoir. Auf Wiedersehen. Goodbye.

Ecco, sono queste le lingue dell’Europa. Inglese, francese e tedesco. Tedesco. Mentre l’italiano, che risulta essere la quarta lingua studiata al mondo, non esiste a livello ufficiale in Europa. Per dire, se fosse stata scelta tutti i documenti e gli interventi europei sarebbero stati tradotti anche in italiano.

Occasione persa. Qualcuno dirà, ecchissenefrega (che fra l’altro pare fosse l’espressione più in voga nella Roma di fine ‘800 prima dell’avvento di sticazzi). Sì ma sarebbe stato qualcosa di importante, penso io. Anche per i posti di lavoro che sarebbero stati creati.

Poi c’è il discorso Accademia. Questi dopo il casino di petaloso hanno dovuto addirittura oscurare il sito perché venivano attaccati e insultati di continuo per aver inserito quella (peraltro orribile) parola nel vocabolario della Crusca.

Sbagliato. Primo perché l’ultimo vocabolario della suddetta Accademia, che aveva iniziato a farlo fin dal 1590, risale al 1923 quando il governo fascista li ha gentilmente pregati di smettere che tanto all’italiano ci pensava da sé.

Secondo perché, proprio perché la lingua italiana non è nella Costituzione, l’Accademia non ha potere di legiferare sulle parole. Nelle altre nazioni lo fanno. Lo fa l’Académie Francaise. Lo fa la Real Academia Espanola (ispirandosi, fra l’altro, proprio alla Crusca). Quindi non decide questa parola sì e quella no. Dà pareri.

Peccato. Un’occasione persa tutta all’italiana.

Poi, dicevo, ci sono delle storie belle. Una è anche quella che in genere si pensa agli Accademici come a degli studiosi imbalsamati chini sui libri e con le ragnatele alle orecchie. E invece non è così. Fosse solo per il fatto che devono rispondere quotidianamente a una media di 250 email su questioni linguistiche. Ma anche perché la lingua è in movimento. Sempre.

Da qualche tempo la Crusca si è aperta anche alle donne. Nel 2008 è diventata presidente Nicoletta Maraschio (già vice di Giovanni Nencioni che nel 1997 costituì un consiglio direttivo di sole donne) che ha lavorato molto sul femminile professionale. Quello della ministra, della consigliera e dell’avvocata, per intenderci. Piaccia o no, anche questa è un’evoluzione della lingua legata alla crescita del ruolo delle donne.

I primi crusconi, una banda di ricchi fiorentini gaudenti, per salvare la lingua italiana si rifecero alle parole scritte da Dante, Petrarca e Boccaccio nelle loro opere. Ad un certo punto però si sentì la necessità di inserire nel vocabolario anche una definizione precisa di parole come stelle, mare, cielo. Cosa difficile da fare con le accezioni squisitamente poetiche dei tre. L’Accademia allora, e ci sono ancora le prove, scrisse a Galileo chiedendogli di preparare la spiegazione scientifica di quei vocaboli.

Poi c’è la storia di Filippo Salviati, presidente della Crusca ai primi del ‘600,  imparentato coi Medici e con papa Leone X, che ospitava spesso proprio Galileo, al quale forniva i mezzi per realizzare i suoi strumenti scientifici, nella sua villa di Lastra a Signa. Le parentele illustri non gli portarono granché bene, a dire il vero, proprio a causa dell’amicizia con lo scienziato. Un giorno fu avvisato che due sicari partiti da Napoli o da Roma, non ricordo, inviati dagli affettuosi congiunti lo avrebbero raggiunto a Lastra a Signa per ucciderlo. Se lo avessero trovato a casa sarebbe stata la fine anche per Galileo che in quel periodo era suo ospite. Filippo non ci pensò due volte, prese il cavallo e fuggì in Spagna. I sicari lo seguirono e fecero in modo che mangiasse cibo avvelenato. Morì a Barcellona a 32 anni. Galileo, nonostante gli scherzetti del Sant’Uffizio, gli sopravvisse una trentina d’anni.

Insomma, ci sarei rimasta tutto il giorno a sentire questi racconti. E’ stato uno di quei momenti in cui mi sale l’orgoglio di essere toscana e italiana (forse un po’ più la prima). Ma non un orgoglio sterile, come se la geografia fosse un merito. E’ quella cosa che senti ogni volta che conosci meglio quello che c’è stato prima di te, nei posti in cui vivi e anche se non hai fatto nulla però ci sei legata, fai parte di quel mondo, ce l’hai vicino, lo respiri e in qualche modo ti influenza, se gli permetti di farlo.

Saranno anche tristi questi accademici, ma anche no.

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ma che bello ascoltare gli scrittori/3 (Andrea Scanzi e Silvia Truzzi)

Premetto che anche un sol giorno del festival Pordenonelegge ha talmente tanti appuntamenti, belli e interessanti, da non sapere dove mettere le mani. Uno deve sceglierne pochi e rinunciare ad altri. Io, per dire, ho rinunciato a incontrare Gordana Kuic’, la scrittrice del Profumo della pioggia nei Balcani, e Vanessa Diffenbaugh del Linguaggio segreto dei fiori, che presentava Le ali della vita. E mi è dispiaciuto molto.

Come terzo appuntamento potevo scegliere fra “Un Paese inventato. Un Paese da inventare”, con i giornalisti del Fatto Quotidiano Silvia Truzzi e Andrea Scanzi, e “Il cuore nero delle donne”, per finire il percorso giallo attraverso le storie delle assassine.

Sono andata al primo.

Un po’ per non fare proprio tutto un giro monotematico sul giallo.

Un po’ perché mi è sembrata una strana coincidenza ritrovarmi nello stesso posto di Scanzi, dopo appena due settimane da quando l’avevo conosciuto a Colle Val d’Elsa nello spettacolo su De Andrè con Giulio Casale. Anche a quello avevo partecipato per una serie di fortuite casualità.

Un po’ perché questo Scanzi è anche un bel ragazzo ed è pure intelligente. E magari rappresenta l’ideale di giornalismo che ognuno di noi vorrebbe vivere. Non solo libero nel senso di senza padroni, ma anche libero dagli obblighi della redazione. Sarei curiosa di capire come funziona al Fatto, se questo è sempre in giro per l’Italia a presentar i suoi libri e i suoi spettacoli.

Allora, l’incontro è stato molto interessante. Si è parlato di politica attuale, governo e società attraverso la memoria e il giornalismo.

Silvia Truzzi ha raccolto in un volume, Un Paese ci vuole. Sedici grandi italiani si raccontano, altrettante interviste realizzate per il Fatto. Sedici anziani, da Stefano  Rodotà, a Pietro Citati, ad Andrea Camilleri, a Gustavo Zagrebelsky, a Gherardo Colombo, Giovanni Sartori, Claudio Magris,  Luciana Castellina e altri che, per la loro vita, esperienza, cultura, avrebbero da dare tanto, ma in questo tempo e da questi politici non vengono presi in considerazione. Anzi, fosse per loro li rottamerebbero.

Tipo la Boschi, ministro Maria Elena, con i suoi “professoroni” che le vogliono bloccare le riforme.

Scanzi e Truzzi sono giovani carini e intelligenti (che è molto meglio che disoccupati, tanto per citare un film di parecchi anni fa) e il fatto che parlino del valore della memoria, della necessità di ascoltare gli anziani che possono dire cose importanti, a me ha perfino commosso.

Mi ha commosso perché lo penso da sempre, ma sono quei pensieri in cui ti senti sola o magari in due. Ora pare che potremmo essere addirittura in quattro, ma in realtà non è così. Siamo molti di più.

E’ solo il pensiero dominante che va in un’altra direzione. In questo momento.

“La memoria è rivoluzionaria” hanno detto. E ora non ricordo se era una loro affermazione o una citazione di qualcun altro ma poco importa. E’ proprio così.

Scanzi ha scritto La vita è un ballo fuori tempo che parla di un giornalista un po’ sfigato e allineato che scrive per un giornale che si chiama La Patria e vive in un periodo storico in cui c’è un presidente del consiglio un po’ così. Così come Renzi, per esempio.

Scanzi racconta che credeva di avere esagerato, descrivendo i personaggi e mettendo loro in bocca determinate frasi. Antonio Padellaro, allora direttore del Fatto, lo aveva tranquillizzato. Non era affatto così. E infatti pochi mesi dopo l’uscita del libro certe affermazioni da parte del premier sono diventate reali, se non addirittura superate.

Una tristezza. Triste la situazione, che conosciamo perfettamente. Da tempo, nel senso che il problema non è Renzi, o almeno non solo lui.

Triste il quadro giornalistico nazionale tracciato dai due colleghi.

Secondo Scanzi di questi tempi si sarebbero allineati al potere anche gli artisti. Che, se fosse vero, sarebbe proprio la fine di tutto.

De Andrè, che Scanzi ben conosce e infatti cita, definì l’artista come l’anticorpo che si è creato la società per difendersi dal potere. Se si integra anche lui, lo prendiamo nel culo tutti.

Così,  tanto per finire in poesia.

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ma che bello ascoltare gli scrittori/2 (Maurizio De Giovanni)

Finito il primo sono scattata di corsa per raggiungere il posto del secondo incontro pronta a fare un’altra lunga fila. Camminando per il centro sono stata agganciata da un ragazzo del Senegal che, nonostante le mie proteste, è riuscito ad appiopparmi un libretto sulla cucina africana.

E questo è stato il mio bottino al festival della letteratura di Pordenone.

Dopo aver sbagliato coda ed evento, per fortuna ci hanno chiuso la porta in faccia per esaurimento dei posti, ho finalmente trovato il padiglione di Maurizio De Giovanni, il creatore del commissario Ricciardi.  (A proposito… ha anche un nome? Comunque sia ora non mi viene).

Io pensavo che, quando avessi incontrato De Giovanni, gli avrei voluto dire quanto mi fa incazzare quando gigioneggia con la penna riempiendo pagine e pagine di svolazzature partenopee e interrompendo (volutamente, ovvio) il ritmo della narrazione di quelle storie che ci piacciono tanto.

Ecco. Me ne sono dimenticata. Quell’omone là, la personificazione del napoletano che più ci piace, uno che sembra il fratello di Pino Daniele, mi ha fatto talmente ridere e divertire che non avrei potuto dirgli proprio nulla del genere.

Poi, a quanto pare, c’è già chi lo fa.

“A tutti i complimenti – ha  detto -, a me i cazziatoni”.

Un giorno, ha raccontato, era al bancone di un bar, a Napoli, a bere un caffè quando una donna attraversò la sala puntandogli il dito contro: “Io glielo devo proprio dire (senza presentarsi, senza dire buongiorno io sono la tale e leggo i suoi libri, no) lei, se non la smette di trattare così quella povera Enrica non so che cosa le faccio. Ma le sembra il modo di comportarsi con una ragazza così dolce e timida?”. Quindi, senza aspettare risposta, se n’era tornata dall’amica. “Ecco, gliel’ho detto”.

Il commento del barista: “Un euro”.

De Giovanni: “No, sa… è che io scrivo romanzi…”

Il barista, irremovibile: “Un euro”

Questo aneddoto lo ha raccontato dopo che dal pubblico si era alzata una signora che gli aveva detto più o meno la stessa cosa.

“Io sono arrabbiata con lei. Ma li vuole far sposare quei due? Che cosa aspetta? Guardi che se Ricciardi non sposa Enrica io le auguro che i suoi racconti finiscano in serie zeta”.

Un’invettiva che ha generato anche un gesto scaramantico da parte dello scrittore.

“Eduardo De Filippo diceva: essere superstizioni è da ignoranti, ma non esserlo porta male”.

Appunto.

Ma insomma come è nato questo commissario Ricciardi? (ah ecco, Luigi Alfredo, si chiama, barone di Malomonte).

Allora in pratica siccome al De Giovanni piaceva stare sempre con quell’oggetto non identificato in mano, un libro, gli amici per fargli una sorta di scherzo, ma anche per incoraggiarlo chissà, gli regalarono l’iscrizione a un concorso che si teneva al Gambrinus di Napoli. In pratica gli iscritti dovevano scrivere un racconto nella sala del bar.

“Io non sapevo proprio che scrivere – racconta De Giovanni -. Me ne stavo lì, ad un tavolo vicino alla vetrata, e guardavo fuori. Tutti gli altri sapevano che cosa volevano scrivere. Io no. Il concorso era sponsorizzato dalla ribolla gialla. Passavano delle signorine con la minigonna e ci versavano il vino. Faceva un caldo pazzesco. Loro versavano, noi si beveva e si sudava. Alla vetrata c’era una bambina che da fuori guardava all’interno della sala. Lei mi guardava e io la guardavo. A un certo punto mi fece una boccaccia e se ne andò. Io mi guardai intorno pensando che gli altri l’avessero vista e pensassero che l’avevo infastidita in qualche modo. Invece niente, stavano tutti lì a scrivere e non l’aveva vista nessuno. Allora immaginai che quest’uomo vedesse qualcosa che nessuno vedeva. Vinsi il concorso“.

Ma non è finita qui.

“Quando mi mandarono l’email del vincitore risposi dicendo che avevano sbagliato l’invio. Ma invece mi dissero che era proprio per me. Poi ci fu la selezione nazionale e feci una nuova storia di Ricciardi. E vinsi di nuovo”.

Era il 2005.

“Ma io lo scrittore non lo volevo fare. Volevo fare il lettore”.

Fra risate e applausi De Giovanni analizza la solitudine del suo personaggio Ricciardi.

“Una solitudine data dalla compassione che lui prova per il genere umano ma resa ancor più forte, assoluta, dal fatto che lui, di questo ‘dono’, quello che considera la sua maledizione, non può parlarne con nessuno. Una solitudine disperata, la sua. Il segno dei nostri tempi è il telecomando. Noi cambiamo canale quando quello che vediamo non ci piace. Io volevo uno che non fosse in grado di evitare il dolore degli altri”.

Dell’evoluzione della storia fra Enrica e Luigi Alfredo niente si sa.

“Io quando scrivo un romanzo preparo la trama del fatto, quello che poi fanno i personaggi viene fuori da sé in un secondo momento. Non so dire che cosa accadrà. Dipende se Enrica deciderà di sposare l’uomo che ama o se invece privilegerà il sogno di una famiglia con dei bambini”.

Una anticipazione. “Le nuove storie del commissario Ricciardi si incentreranno su delle canzoni”.

Fino ad ora ci sono state le stagioni e le feste comandate. Ma già nell’ultimo libro, “Anime di vetro”, la storia ruota intorno a una canzone del cantautore napoletano Libero Bovio.

Alla fine un regalo per tutti.

Il primo capitolo, letto proprio da lui, del prossimo libro dei Bastardi di Pizzofalcone, “Cuccioli”, un’altra serie poliziesca nata in onore di Ed McBain, lo scrittore americano di origini italiane morto nel 2005 che considera il suo maestro.

Quindi, l’appello per Napoli. L’invito a non pensare, come ha fatto in questi giorni Rosy Bindi, che la criminalità organizzata sia una malattia incurabile in Campania.

“Abbiamo tremila anni di storia alle spalle, questa è solo quella degli ultimi 150 anni, nata fra l’altro a causa di un vuoto lasciato dallo Stato. Non possiamo misurare tutto in base a quella. E soprattutto, non è una malattia incurabile”.

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