Il triste caso del cane Leo

Qualche anno fa abbiamo comprato un piccolo appezzamento di terreno sotto casa da uno straniero che sarebbe rientrato presto in patria. Finalmente si sarebbe risolto almeno il problema del suo cane, un pastore maremmano di cinque anni, trascorsi tutti abbaiando furiosamente attaccato ad una catena. 

Dopo una serie di incontri per trovare un accordo, il proprietario sembrava essersi deciso a portarsi via anche il povero cane. In realtà lui aveva provato in tutti i modi a convincermi che avrei dovuto prenderlo io, che un cane per stare in campagna mi ci voleva e ancor di più considerato che c’era qualcuno che mi voleva male e che urlava sempre contro di me. 

Quest’ultimo problema mi pareva più da affidare a un tribunale, come poi ho fatto, che a un cane. In ogni caso, quando il tizio mi comunicò la sua decisione di portare il cane con sé ne fui sinceramente felice, per lui e per il cane.

A proposito -, gli chiesi un giorno -. Come si chiama il tuo cane?

Eh, questo non posso mica dirtelo, rispose con aria misteriosa.

Ah no? E perché?

Perché se poi sai il suo nome puoi chiamarlo e portarlo via. Te lo dico solo se decidi di prenderlo.

Per fortuna anche questo aspetto si sarebbe risolto con il trasferimento del cane.

In realtà, per ingraziarmi il venditore, che affermava di essere indeciso se dare il terreno sotto casa mia a me o a due famiglie di zingari che ci avrebbero messo cavalli e cani da caccia, lo aiutai a fare una pratica che riguardava proprio il cane. 

Si era beccato una multa, dietro mia segnalazione tra l’altro, perché il cane, che abbaiava notte e dì (ma non da solo) non era microchippato né registrato all’anagrafe. Mi offrii di compilare il ricorso per lui e nell’occasione scoprii senza alcuna fatica che il cane rispondeva al nome di Leo.

Rispondeva per modo di dire.

Dopo aver formalizzato la compravendita dal notaio, lasciai l’ex proprietario libero di stare sul terreno fino al giorno della sua partenza, che si annunciava abbastanza complicata perché doveva organizzare il trasporto dell’auto, dei suoi effetti personali e del cane.

Passato più o meno un mese dall’acquisto del terreno, mi annunciò che durante il week end sarebbe venuto un grosso tir a caricare tutto, compreso il cane. Probabilmente ciò sarebbe avvenuto durante la notte, che non mi preoccupassi quindi per il rumore che avrei sentito.

Passato il fine settimana pensai che avevo il sonno proprio pesante perché non ero stata svegliata da nessun grosso tir. 

Però il cane Leo continuava ad abbaiare (non da solo). Stai a vedere che avevano rinviato la partenza. 

Il lunedì mattina scendo nel campo a vedere che succedeva. C’era il cane Leo, legato alla sua catena, che abbaiava come al solito, e il cancello era aperto. 

Scrivo un messaggio al tizio che mi dice che lui era già arrivato al suo paese. 

Bene, ma quando torni a riprendere il cane?

Non torno più.

Ma come?

Mi spiegò che la ditta di trasporti non aveva voluto prendere il cane con sé e che quindi, a malincuore, lo aveva dovuto lasciare lì.

Tanto a me faceva comodo avere un cane con la gente che mi voleva male e via dicendo.

Ecco, mi ero fatta raggirare bene bene.

E ora?

Intanto pensai a dare qualcosa a quella povera bestia che probabilmente non mangiava da due giorni. Notai nel capanno dei contenitori di crocchette richiusi con lo scotch. Presi la ciotola del cane. Era piena ma i croccantini erano tutti appiccicosi per la pioggia. La svuotai, la pulii e la riempii con i croccantini nuovi. 

Il cane mi abbaiava contro, tirando la catena, ma io stavo attenta a muovermi fuori dal suo perimetro di azione. Vidi un secchio con poca acqua. Mi avvicinai per prenderlo. Ebbi appena il tempo di vedere il cane che scattava con un grande balzo verso di me e di darmi alla fuga. Ma lui riuscì lo stesso ad azzannarmi il dorso della mano destra. Fortuna che indossavo i guanti da lavoro in pelle. Per cui me la cavai con un pizzicotto dolorante e un bel livido. Poteva andare decisamente peggio.

Però quel problema andava risolto, e anche al più presto. Non solo era diventato pericoloso avvicinarmi per dare da mangiare al cane. Ma chi mi garantiva che la catena avrebbe retto ai suoi balzi? Se avesse ceduto sarei stata finita, senza nemmeno starci a pensare.

Cominciai a fare una serie di telefonate, vigili, volontari, servizio veterinario. Ma ognuno mi rimbalzava all’altro. Il problema sembrava irrisolvibile. 

Il cane non era mio, quindi non potevo prendere decisioni in merito.

Eh, ma il terreno sì. 

Poi, il proprietario non lo aveva ufficialmente abbandonato (ah, no?) quindi non si poteva intervenire su un cane di proprietà con il padrone assente.

Provai a spiegare al proprietario che avrebbe dovuto chiamare il servizio veterinario e chiarire la situazione. Non credo che l’abbia mai fatto.

Però colse l’occasione per informarmi di un piccolo particolare.

Sul terreno aveva lasciato anche una gatta con i gattini, ma ormai avevano quasi due mesi e si sarebbero arrangiati da soli. In ogni caso suo figlio aveva già pensato a tutto e presto sarebbero venuti a prenderli per portarli da una signora. Ci aveva già parlato lui ed era tutto a posto.

Certo, da credere al cento per cento.

Nel frattempo c’era da risolvere un altro problema. Dare da mangiare ai gatti, grandi e piccini, mentre il cane Leo faceva tremare il capanno come un terremoto dalla voglia che aveva di addentarmi. 

Un vigile aveva anche ipotizzato che questa situazione l’avessimo concordata insieme, io e l’ex proprietario, per forzare gli eventi. 

Grazie per la stima. 

Di cuore. 

(1 – continua)

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Che noia il consiglio comunale!

Quando ero ancora corrispondente da Colle, uno degli appuntamenti che dovevo seguire era il consiglio comunale. Era ancora l’epoca del monopartito e delle elezioni vinte con percentuali altissime. L’opposizione c’era? Sicuramente sì, ma pur sforzandomi non riesco a farmi venire in mente né un nome né un volto.

Le sedute erano di una noia mortale, però andavano seguite. Si era negli anni Ottanta e le notizie si leggevano sul giornale o si ascoltavano in tv. Gli articoli si dettavano al dimafono, un apparecchio che registrava quanto si diceva al telefono, per essere poi sbobinati dalle poligrafiche che li inserivano nella memoria del sistema. Questo lo imparai quando mi chiamarono a lavorare in redazione. Come corrispondente l’esperienza si fermava al telefono. Naturalmente quello fisso.

A quell’epoca Colle era un disastro. 

Castello era ancora Repubblica (Repubbriha, come diceva babbo) e non era un posto dove andare troppo in giro, specie se da soli. Ci stavano i ragazzi del bar della Pugnalata che già ci facevano paura a trovarli giù in Piano, figurarsi a casa loro. 

Le case erano vecchie e cadenti, c’erano macchine e motori dappertutto e panni stesi da finestra a finestra. I magazzini a piano strada erano chiusi alla bell’e meglio con tavole di legno affastellate o pezzi di bandone. 

Alle medie la professoressa ci portò perfino in gita in Castello.

Le mura erano crollate e Bacìo era un’immensa discarica a cielo aperto. Credo che anche il bastione di Sapia fosse soltanto un rudere.

Il consiglio comunale di Colle si riuniva a Palazzo dei Priori, in Castello.

In quegli anni però furono fatte un bel po’ di cose per recuperare la parte più vecchia della città. Ricordo che ad ogni consiglio veniva approvato il recupero di un lotto di mura. Furono decisi interventi di edilizia popolare nelle distese di terreni alla Badia, dove allora c’era solo il campo sportivo e poco più in là la Calp. Le nuove case furono destinate agli abitanti di Castello mentre nel vecchio quartiere si cominciava a ristrutturare e a valorizzare le antiche architetture. 

In quel periodo la cronaca della Valdelsa gravitava intorno a tre punti e sempre quelli: il monoblocco ospedaliero, lo svincolo di Drove, la Francigena. 

Si parlava di chiudere gli ospedali di Colle, Poggibonsi e San Gimignano e di farne uno grande e ben attrezzato in una zona baricentrica, un posto che chiamavano Campostaggia e che rimaneva prima del bivio per San Lucchese.

Lo stesso sarebbe avvenuto in Valdichiana, a Nottola, Montepulciano.

Ma allora erano solo progetti e se ne discuteva in consiglio e sui giornali. C’era chi si schierava contro e chi a favore, così le discussioni non finivano mai.

A Colle era tutto un lamentarsi per la chiusura dell’ospedale. Ci mancava solo quello, dopo che avevano spostato la compagnia dei carabinieri e la pretura a Poggibonsi.

Lo svincolo di Drove oggi è l’uscita di Poggibonsi Nord ma in quegli anni era infinita la discussione anche su quello.

Nemmeno la Francigena esisteva se non nella mente di qualche fissato che vedeva nella riscoperta di un vecchio itinerario da pellegrini addirittura delle possibilità di sviluppo per il turismo.

Una sera venendo via dal consiglio comunale verso mezzanotte, all’altezza del palazzo del Campana fummo investiti da un odore terribile. Era estate e faceva caldo anche a quell’ora, l’aria era ferma e pesante. Ci chiedemmo schifati che cosa potesse essere a fare quel puzzo ma poi passammo e dimenticammo.

Me lo ricordai qualche giorno dopo quando uscì la notizia di una persona che era morta in casa, il cui corpo era stato trovato dopo quattro o cinque giorni. Era avvenuto proprio lì, al palazzo del Campana.

Un’altra sera, prima del consiglio comunale, andai a mangiare una pizza da Vittorio con un’amica che scriveva anche lei. Poi salimmo in Colle Alta, facemmo le scale del Palazzo dei Priori e ci sedemmo al tavolo della stampa. 

Io credo di ricordare che si parlasse del monoblocco di Campostaggia. O forse dell’idea di trasformare Colle Bassa in un anello a senso unico. O forse… boh.

Ricordo che la discussione era noiosa e pesante. O forse era la pizza, o la birra.

Insomma, ricordo che chiamai a raccolta tutte le mie forze ma a un certo momento non ce la feci più. La testa mi pesava e gli occhi mi si chiudevano. 

Appoggiai la testa sul quaderno e mi addormentai, sperando che nessuno facesse caso a me. 

Naturalmente non fu così.

La discussione andò avanti in tutta la sua noiosità e alla fine il consiglio finì. Io rialzai la testa e feci finta di essere sveglia, mentre la mia amica mi giustificava dicendo deve essere stata la pizza.

Un bel po’ di tempo dopo, però, quello che al tempo era l’assessore alla sanità mi disse: 

  • Una cosa non te la perdonerò mai. Quella di aver dormito mentre parlavo in consiglio comunale.    

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Il suonatore di sitar

L’insegnante di yoga che seguivo a Belluno ogni tanto organizzava delle pratiche free all’aperto. Questo accadeva con l’arrivo della bella stagione, in genere alla chiusura dei corsi. Un anno la giornata fu organizzata al parco di Villa Montalban. Come al solito l’evento era aperto a chiunque, per cui le mamme portavano i bambini e qualcuno veniva con amici e fidanzati. 

L’appuntamento era per la mattina intorno alle dieci, dieci e mezzo. La pratica yoga durava un’oretta e mezzo, dopo era previsto un picnic sul prato con cibo e bevande da condividere.  

Quell’anno c’era una novità, una delle ragazze aveva un amico che suonava il sitar. Era stato invitato anche lui per intrattenerci con la sua musica prima di pranzo.

Per fortuna la giornata era bella, che a Belluno non è mai detto, per cui la pratica di yoga filò che era una meraviglia. Dopo un’ora e mezzo tutti concentrati in silenzio sugli esercizi, ci sarebbe stato bene anche un aperitivino.

Ma toccava al ragazzo del sitar. Per cui, dopo aver steso dei teli su cui furono disposti i cibi, i piatti e le bevande che ognuno aveva portato, ci apprestammo ad ascoltare, ancora in silenzio, ancora concentrati, quella musica indiana suonata apposta per noi.   

Io mi appoggiai ad un albero, sempre seduta a terra, e mi lasciai pervadere dalle note vibrate che uscivano dallo strumento mentre mi perdevo nei miei pensieri. 

Passò un po’ di tempo in cui stavamo tutti zitti e rilassati mentre il tipo suonava. 

E suonava.

I bambini in realtà non erano affatto rilassati. Uno ad uno avevano cominciato ad agitarsi, dai più grandi ai più piccoli e le mamme cercavano di tamponare la situazione distribuendo carote crude o cracker. La cosa sembrava funzionare, sul momento, ma dopo un po’ tornavano subito ad agitarsi e le mamme con loro.

Ogni distribuzione di cibo o di acqua però veniva fatta in silenzio, cercando di non disturbare il musicista e di non rompere l’atmosfera che si era creata.

Anche io cominciavo ad avere un po’ fame, a dire il vero. Ma non avendo la mamma a cui chiedere cracker o carote crude, mi consolavo pensando che presto sarebbe finito anche quel concerto e ci saremmo messi a mangiare.

D’altra parte non era mica un problema aspettare una mezz’oretta. 

Il tempo però passava, il tipo continuava a far vibrare le corde del suo sitar, le mamme e i figli erano sempre più agitati, le persone cominciavano a guardarsi, timidamente, con aria interrogativa, ma niente. Il tizio continuava a suonare.

Cercai di attirare lo sguardo dell’insegnante di yoga. Niente. Se ne stava seduta a occhi chiusi beandosi di quella musica. 

Una musica che sinceramente mi stava cominciando a dare anche un po’ sui nervi. Altro che relax.

Intanto il tempo passava, il buco nello stomaco si allargava e quello continuava a strimpellare quel cavolo di sitar.

L’una e mezzo era già passata e quel suono vibrante, lagnoso e sempre uguale a se stesso continuava. Cominciai a temere seriamente che la loro concezione ciclica del mondo investisse anche la musica. Senza inizio e senza fine. Ohimè.

Intanto l’insegnante aveva aperto gli occhi. Riuscii ad incrociarli e le feci un segno con le dita a forbice. 

Lei alzò le spalle, come dire, che vuoi farci.

Mi alzai e andai a parlarle all’orecchio. 

  • Credo che sia l’ora di mangiare, vedi i bambini come sono agitati. E anche i grandi…
  • Ma non si può, sta ancora suonando.

Si erano fatte le due. 

Non ricordo se fossi più disperata, infastidita o affamata. Ma credo un mix in parti uguali di tutte e tre le cose. Forse anche qualcuna in più.

Alla fine, intorno alle due e mezzo, non ricordo come e per merito di chi, il sitarista si zittì e noi potemmo finalmente alzarci, sgranchirci le gambe, parlare un po’ tra noi e, soprattutto, mangiare. 

Penso che la volta che mi verrà voglia di scrivere un libro giallo, il primo mistero da risolvere riguarderà l’omicidio di un suonatore di sitar. 

Più di qualcuno, ne sono certa, tirerà un sospiro di sollievo. 

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La sera del capriolo morto

Qualche anno fa, in una calda sera di fine luglio, andai con la mia amica del liceo a vedere uno spettacolo sulla Francigena nell’Abbazia di San Galgano. Partimmo che era ancora giorno. Al curvone dei Cappuccini notai che dal ciglio spuntavano le zampe di un capriolo. Io guidavo, la mia amica parlava rivolta verso di me per cui non si era accorta di niente.

  • Presto, presto, chiama il 118 che c’è un capriolo investito.
  • Che c’entra il 118, è un animale…
  • Fidati, hanno l’obbligo di passarti il veterinario di turno.
  • Ma poi sei sicura? Io non l’ho mica visto.
  • Perché eri girata dall’altra parte, sbrigati che si fa tardi.

Solo pochi giorni prima, andando a Siena, avevo visto un capriolo morto sulla rotatoria per la Siena – Firenze all’uscita Nord di Colle Val d’Elsa.

Dopo aver sceso Paola e mamma davanti all’ospedale, mi misi a fare telefonate per avvisare qualcuno che facesse togliere la carcassa.

Il servizio per la fauna selvatica, che mi rispose subito, mi disse però che interveniva solo per gli animali feriti e mi consigliò di avvisare il Comune competente. 

Pensai che la parte dove era il capriolo era sicuramente su Poggibonsi.

Chiamai il Comune. Mi passarono un’impiegata dalla voce scocciata che, non appena le ebbi spiegato la faccenda, mi chiese:

  • Ma lei è proprio sicura che lì sia Poggibonsi? Perché potrebbe essere anche Colle. 

Dopo alcuni minuti, ritornò all’apparecchio e mi informò sconsolata che era proprio Poggibonsi. 

Disse anche che avrebbe mandato qualcuno. 

La sera di San Galgano non c’erano dubbi su quale fosse il Comune competente, ma alle otto di sera non avremmo trovato nessuno. Nemmeno i vigili.

Intanto la mia amica parlava col 118.

  • Oh, mi hanno detto che mi passano il servizio veterinario… Allora avevi ragione te.

Aspetta aspetta, però, il servizio veterinario non rispondeva, per cui le dissi di riagganciare e richiamare il Suem per chiedere che potevamo fare, vista l’ora. 

Non ne avevano idea.

  • Fai il 115, chiama i vigili del fuoco.
  • Ma come fai a sapere tutti questi numeri?
  • Eh, dopo anni di giro di nera…

I vigili del fuoco la ascoltarono e promisero che sarebbero intervenuti.

La mia amica però era ancora scettica.

  • Secondo me te lo sei sognato. Io non ho visto nulla. Sai che figura ora con tutte quelle telefonate…
  • Ma figurati se non c’era. Ho visto benissimo le quattro zampine all’aria che spuntavano dal fosso.
  • Mah, sarà…

Arrivammo a San Galgano, prendemmo posto nella chiesa e guardammo lo spettacolo, “Storie e amori sulla via Francigena, un musical in cammino”, di Nicola Costanti e Marco Brogi.

Marco lo avevamo salutato fuori dalla basilica. 

Scoprimmo anche che il Comune di Chiusdino organizzava un festival estivo di un certo livello, oltre all’opera sulla Francigena c’era già stato un concerto di Max Gazzè e altri appuntamenti interessanti erano in programma, ma noi non ne sapevamo niente.

Dell’evento di quella sera io stessa l’avevo saputo quasi per caso, vedendo un post di Marco su Facebook.

La serata fu molto bella. Bravissimi gli attori e cantanti, ben scritta la storia, fantastico il posto. Bella anche la sera d’estate.

Al ritorno, dopo un po’ di strada, il discorso tornò sui caprioli, anche perché io sono sempre terrorizzata quando guido per le strade in mezzo al verde, che spuntino animali e prego dentro di me che ciò non avvenga.

Quando passammo dal curvone dei Cappuccini, a Colle, il capriolo non c’era più.

“Certo che non c’è – commentò la mia amica – vedrai, non c’è mai stato, te lo sei solo immaginato”.

Qualche giorno dopo una conoscente commentò su Facebook un mio post su che cosa fare quando si trovano animali selvatici morti e feriti, dicendomi di guardare la bacheca di sua sorella.

Aprii la pagina e vidi la foto del povero capriolo a zampe all’aria al curvone dei Cappuccini. 

La sorella scriveva che si era trovata a passare di lì, aveva visto (e fotografato) il capriolo, dopo di ché era impazzita a chiamare carabinieri e non so chi altri per far togliere la carcassa. 

Tra l’altro diceva che si trattava di un esemplare di femmina e pure incinta. Alla fine concludeva che comunque, grazie al suo telefonare a destra e a manca, alla fine il povero animale era stato tolto. 

Oddio, stavo perdendo il primato di avvistatrice di caprioli morti per strada, ma a dire il vero in quel momento non mi sembrava la cosa più importante.

La cosa veramente importante era scaricare la foto e inviarla a quella miscredente della mia amica come prova definitiva che quella sera non avevo avuto le traveggole.

Ogni tanto, una piccola soddisfazione… 

(La foto del capriolo nel verde invece l’ho fatta io sotto casa e almeno quello è indiscutibilmente vivo)

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Noi siamo zingarelle…

La seconda estate che mi chiamarono a lavorare a Rovigo la solita agenzia mi trovò una casa minuscola. Era nel sottotetto di un condominio a due passi dal centro. C’era tutto. Tavolo, sedie, divano letto, armadio, cucinetta e bagno. In ventidue metri quadrati. Il bagno era fin troppo grande, però a differenza del soggiornocucinacamera ci si muoveva bene. La cucina era uno di quei mobili compatti che contenevano pensili, frigo, fornelli, acquaio. C’era anche una bella finestra larga come la parete, su in alto, che dava su una falda del tetto. 

Il divano letto era posizionato sotto la finestra e, considerato il caldo di Rovigo, quando ero a casa stavo sempre svestita. 

Un giorno alla finestra comparve un uomo. 

Camminava sul tetto, tirando un filo o non so che. 

Io urlai e tirai le tende, ma lui nemmeno mi considerò. 

Il padrone di casa poi mi disse che era il solito inglese che saliva spesso sul tetto per sistemare l’antenna o con altre scuse, ma che stessi tranquilla che era innocuo. 

In ogni caso un po’ mi infastidì pensare di non essere più del tutto libera nella mia microcasetta. 

Dopo un po’ però non ci pensai più. 

In quel periodo stavo terminando di scrivere la mia tesi di laurea. Ero al terzo relatore, dopo che il primo mi aveva abbandonato per malattia e il secondo era morto. Questo invece era vivo e vegeto e sembrava che fosse arrivato il momento di chiudere il capitolo università. 

La tesi stava tutta nella memoria di un computer portatile, una rarità per l’epoca, che avevo comprato a prezzo di favore tramite il giornale quando ero collaboratrice. Internet non era ancora diffuso e si usavano i floppy disk. Il computer aveva un modem che tramite il filo del telefono permetteva di trasmettere i pezzi in redazione. 

Un giorno tornai a casa in Toscana per il weekend e lasciai il computer nel micro appartamento. 

La domenica sera, al rientro, mentre salivo l’ultima rampa di scale trascinando il trolley, notai qualcosa di strano alla porta. 

Era socchiusa.

Una specie di nebbia mi avvolse la testa mentre il cuore accelerava i suoi battiti.

Senza pensarci un secondo mi precipitai dentro. 

Il computer era lì, al suo posto, nella valigetta in terra accanto all’armadio, dove l’avevo lasciato. La borsa era stata aperta ma il contenuto era intatto.

Sospiro di sollievo. 

Era quella la cosa più preziosa che avevo in quel momento.

La cucinacamerasoggiorno pareva a posto. Andai in bagno. Qualcuno aveva rovistato fra le spazzole e aveva perso un laccetto per capelli. 

Però non mancava niente. 

Chiamai il 113 e poco dopo arrivarono i poliziotti della volante. 

Il problema vero era la porta. La serratura era stata disfatta e non potevo chiuderla. I poliziotti mi chiesero se avessi un altro posto dove andare per la notte.

Non ce l’avevo. 

Ma ero talmente stanca che mi sentivo tranquilla. Avrei bloccato la porta con una sedia. Il giorno dopo avrei pensato a come risolvere, ma in quel momento volevo solo dormire. 

La mattina chiamai il padrone di casa informandolo di quello che era successo. Disse che ci avrebbe pensato lui a fare risistemare la serratura. Lo ringraziai.

Durante il giorno, poi, mentre ero al lavoro, mi chiamò per dirmi che era tutto a posto, l’intervento era costato all’incirca ventimila lire ma che, anche se sarebbe toccato a me pagare, non me le avrebbe chieste. 

Avrei voluto anche vedere, la porta di quella casa era di carta velina! 

Durante il giro di nera della mattina, quando entrai con il collega dell’altro giornale nell’ufficio delle volanti, il capo mi guardò e si mise a ridere. 

Aveva letto dell’intervento sul mattinale e sapeva già tutto. 

Mi disse che avevo sbagliato a chiamare il 113 dopo essere entrata in casa, avrei dovuto farlo prima. Le ladre potevano essere ancora dentro e la situazione poteva farsi pericolosa. Dalla tipologia del colpo, disse, dovevano essere zingarelle che cercavano ori e gioielli ma a cui non importava niente di un computer (a differenza dei tossici) che non avrebbero saputo come rivendere. 

E meno male.

Almeno quella andò bene, alla fin fine.  

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Una bottiglia di Franciacorta

Quando rientrai al giornale, dopo essere stata lontana per quasi due anni, sembrò il caso di fare una festicciola per amici e colleghi. 

In realtà c’era ben poco da festeggiare. In quei due anni avevo iniziato a collaborare con un giornale che mi piaceva molto di più per lo stile, il nome e altri motivi. 

Ma tra un lavoro da esterno con zero garanzie economiche e future e un posto fisso con regolare stipendio, non c’era storia. 

Quel posto lo avevo ottenuto grazie alla sentenza di un giudice, dopo essere stata sballottata per un decennio qua e là che nemmeno una pallina da ping pong. 

Ricordo il giorno in cui l’avvocato mi chiamò al telefono per comunicarmi la vittoria. 

L’improvviso dolore al petto e quella domanda, ma devo proprio rientrare là, non potrebbero darmi dei soldi e chiuderla così? 

No, non era possibile. 

Ricordo anche quello che indossavo, quel giorno. Pantaloni verde militare Sisley a mezzo polpaccio con cinturina di cuoio e maglietta coordinata. 

Dopo pochi minuti ero già a letto. Stentavo a muovermi. I muscoli si contraevano, fino a diventare rigidi e immobili. Fui assalita dal mal di testa, un dolore sordo che dall’alto si irradiava lungo la colonna dandole fuoco e poi le braccia e le gambe. 

Rimasi così per cinque giorni. Quasi paralizzata, in preda al dolore. Impossibilitata a muovermi, ad alzarmi, a mangiare, a pensare, a fare qualunque cosa.

Al quinto giorno, su insistenza della redazione per la quale lavoravo, accettai di alzarmi e andare a seguire una conferenza. Indossai lo stesso completo verde militare. Camminavo piegata in avanti, quasi a novanta gradi, ancora in preda a dolori e a un persistente giramento di testa. La schiena non si raddrizzava e le gambe facevano fatica a muoversi. Mi feci forza e riuscii ad arrivare. 

Dopo qualche settimana ci fu la festa. 

Nel frattempo ero stata a casa in Toscana ed ero tornata su con forme di pecorino di varia stagionatura e salumi. Mi misi d’accordo con il proprietario dell’enoteca in cui avrei invitato amici e colleghi. Gli lasciai formaggi e salumi, che lui avrebbe tagliato e disposto in vassoi. Il pane sarebbe arrivato dal forno vicino. Lui avrebbe preparato prosecco e vino rosso, oltre ad acqua e altre bibite, a volontà. 

Concordammo un prezzo che, insieme alla spesa già fatta a casa, rendeva quella festicciola un investimento di un certo rilievo. 

Pazienza, avrei ammortizzato con i primi due o tre stipendi.

La sera stabilita, era la metà di giugno di una quindicina di anni fa, arrivarono amici e colleghi. Fu una serata piacevole, tutto sommato. Passarono diverse persone a salutare, a bere un bicchiere, a mangiare un boccone. Due colleghe stettero un po’ in disparte a un tavolino insieme a due politiche locali, ma andava bene anche quello. 

Finimmo abbastanza tardi. 

Il giorno dopo passai dall’enoteca per saldare il conto. Il proprietario mi porse lo scontrino a occhi bassi mentre, con l’aria imbarazzata ripeteva, eh hai visto come son fatte, son fatte così. 

Non capivo a cosa si riferisse. Poi lessi lo scontrino. Erano battute due cifre, quella pattuita, più un’altra di qualche decina di euro. 

Continuavo a non capire.

Lascia stare, ci sono rimasto male anch’io, ma che ci vuoi fare…

Insomma, alla fine venne fuori che le tipe del tavolino, non soddisfatte del vino servito, avevano ordinato una bottiglia di Franciacorta facendola segnare sul mio conto. 

Ancora oggi penso alle migliaia di cose che avrei potuto fare e dire anziché quello che ho effettivamente detto e fatto. 

Cioè, stare zitta e pagare. 

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La passeggiata sul Serva

Una ventina di anni fa, ero arrivata a Belluno da pochi mesi, un collega che collaborava al giornale si offrì di farmi conoscere la montagna. 

  • Potremmo salire sul Serva, che è vicino e anche abbastanza semplice, disse.

Il Serva è la montagna che sovrasta Belluno, una sorta di panettone liscio con una croce in vetta.

  • Arriviamo fino alla croce e scendiamo.

In quei giorni il monte era completamente coperto di neve. Decidemmo di andare il 6 gennaio, per l’Epifania. 

Chiesi al capo se mi poteva dare quel giorno come riposo settimanale. Strano a dirsi, ma era impossibile. 

  • L’unica cosa che posso fare – disse, magnanimo – è metterti in turno di notte.   

Molto bene. Questo voleva dire che dopo l’escursione sarei dovuta rientrare a casa di corsa, fare la doccia, cambiarmi e volare al lavoro alle cinque del pomeriggio per rimanere fino a mezzanotte.

Vabbè.

A dire il vero non ero del tutto digiuna di montagna. Avevo avuto l’esperienza sul Pelmetto, in Val di Zoldo, e fin dal liceo avevo fatto qualche settimana bianca qua e là. 

Ma apprezzai lo stesso l’ospitalità e la disponibilità del collega. 

Pensai che sarebbe stato gentile portare un thermos di caffè caldo. Ma non avevo il thermos. Andai in un negozio di materiali sportivi in centro ma li avevano già finiti tutti, eccetto uno abbastanza piccolo ma che costava un botto. Lo comprai.

La mattina del 6 gennaio mi preparai con i vestiti più da montagna che avevo, gli scarponi da trekking e una bella giacca a vento. Riempii il thermos di caffè, misi nello zaino due cracker, acqua e un po’ di frutta secca e partii.

Passai a prendere il mio amico sotto casa, visto che si trovava di strada, e andammo verso il Col di Roanza. Da Belluno sono meno di dieci chilometri. Vai a Cavarzano, il mio amico stava lì, poi prendi per Sopracroda, sali sali sali, vai su per qualche tornante, arrivi sul Col di Roanza e lì la strada finisce. C’è un rifugio, poco più avanti c’è uno spiazzo, si chiama Cargador, da dove si lanciano con il parapendio. Un po’ più su c’è la croce luminosa donata da un’associazione cristiana e messa lì sul monte. Qualche anno fa ci fu una polemica perché tanti non ce la volevano. Al giornale si fece un gran casino ma poi la misero lo stesso. 

Si lasciò la macchina vicino al rifugio e ci si incamminò. All’inizio il sentiero saliva e passava in mezzo al bosco. Poi la vegetazione a un tratto spariva e il versante andava su dritto sparato. Ma non era come arrampicare, si camminava, solo parecchio in verticale.    

Era una giornata fredda ma bella, pulita e con il cielo azzurro. Il sole pian piano si alzava e cominciava a battere, oltre che a riflettere sulla neve. 

Noi si saliva e si saliva, ma la vetta era sempre lontana. E poi c’era il problema che a una cert’ora bisognava venir via perché io dovevo andare al lavoro. 

Il mio amico disse, arriviamo fino alla casera. 

A Pian dei Fioc, alla casera, ci fermammo. C’era un po’ di gente che beveva spumante e mangiava pandoro.

Noi ci sedemmo su una panca di legno e bevemmo il caffè del mio thermos. Smangiucchiammo un po’ di frutta secca, poi ripartimmo.

Il mio amico disse che conveniva tornare in giù. Non ce l’avremmo mai fatta a salire fino alla vetta ed essere a Belluno in tempo per il mio turno. 

Peccato.

All’ingiù non era molto meglio rispetto a quando si saliva. La discesa ripida e la neve costringevano a guardare bene dove si mettevano i piedi. Le ginocchia poi cominciavano a fare un po’ male, sollecitate com’erano.

Il mio amico disse, e se ci si buttasse giù di culo?

Si partì, tirandosi sul dietro la giacca a vento per scivolare meglio. 

Si andava che era un piacere. Solo che non è che il versante nonostante la neve fosse poi così liscio. Per cui ci si prendevano anche delle belle botte. Ogni tanto ci si fermava contro un rialzo del terreno o contro un arbusto, allora ci si dava una spinta e si ripartiva.    

Era divertente, come essere al luna park.

Quando si arrivò all’inizio del sentiero e ci alzammo in piedi le gambe non ci reggevano più.

Erano tutte un tremore. Ma c’era da scendere e allora andammo lo stesso. 

Rifacemmo al contrario tutto il percorso della mattina, lasciai il mio amico sotto casa sua e tornai alla mia. Mangiai qualcosa, feci la doccia, mi cambiai e andai al lavoro.

A quel punto ci sarebbe stato bene solo di infilarsi al calduccio sotto le coperte a far riposare i muscoli indolenziti. Invece dovetti affrontare il turno di notte. 

Non ricordo niente però di quello che successe, probabilmente nulla. Ma la mia presenza era comunque indispensabile. 

In ogni caso, almeno l’avventura della mattina, quella non me la scordo più.

(il Monte Serva – foto di Ylena Ichkova da Pinterest)

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Il patrono di Firenze

Nei primi anni del liceo con la mia amica e compagna di banco si passavano spesso i pomeriggi a casa sua con la scusa di fare i compiti.

Poi in realtà si facevano delle grandi merende, con i pasticcini o la pizza, e si guardava la tv. 

Ogni tanto veniva anche un’altra ragazza, un po’ più grande di noi, che coinvolgevamo nelle nostre festicciole pomeridiane. 

Questa ragazza era una personcina minuta con dei grandi occhi verdi e i capelli neri. Era anche molto ingenua e credulona per cui noi due ci divertivamo ad approfittarne. 

In quel periodo avevamo iniziato i nostri primi esperimenti culinari grazie alla ricetta delle lingue di gatto che la mia amica aveva avuto dalla nonna.

Sembrava quasi impossibile, ma i nostri biscottini prendevano forma ed uscivano dal forno caldi, dorati e croccanti.

Spiegammo alla nostra amica che quella doratura era un segreto della nonna e che per ottenerla si aggiungeva all’impasto dello stracchino. Uno poi, volendo, avrebbe potuto aggiungerne altro anche dopo la cottura. 

La nostra amica fu entusiasta dell’idea e cominciò a spalmare lo stracchino sulle sue lingue di gatto.

  • È vero, sono buonissime. Ma voi perché non ce lo mettete?

Lei continuava a spalmare e a mangiare, soddisfatta di questa scoperta.

A noi, spiegammo, ci bastava quello che avevamo messo dentro, quello della crosticina.

Non sapevamo se essere più divertite o attonite. Era stato troppo facile prenderci gioco di lei. 

Che poi, alla fine, ne era addirittura contenta.

La nostra ospite dello stracchino era anche un’appassionata sciatrice e noi, io e la mia compagna di banco, andavamo ogni anno a Natale nella casa della mia amica sulle Dolomiti a fare la settimana bianca. Una volta venne anche lei. 

Faccio fatica a pensare che quella vacanza in montagna ci sia stata davvero. Non ricordo più niente. Forse, vagamente, il fatto che io e la mia amica andavamo sulle piste più facili mentre la ragazza dello stracchino faceva anche la nera, che in quel caso era un terribile percorso ripido fra spuntoni di roccia.

Non ricordo la nostra convivenza in casa, non ricordo il viaggio di andata, sempre in treno da Firenze, dove ci accompagnava in genere il babbo della mia amica, né la sosta d’obbligo a Bolzano con wurstel e senape al baracchino per strada, e nemmeno la salita in autobus lungo i tornanti a picco su versanti di pietre. 

Ricordo invece il lungo viaggio di ritorno sulla tratta ferroviaria Bolzano-Firenze.

  • Se ci chiedono di dove siamo non dite assolutamente che siamo di Colle.
  • Ah no? E di dove saremmo?
  • Di Firenze.

L’amica dello stracchino, scoprimmo, si vergognava delle sue origini provinciali, che poi erano anche le nostre. Solo che a noi non ce ne importava proprio niente.

In ogni caso, pensai, a chi vuoi che interessi sapere di dove siamo? 

  • Ciao, posso? Di dove siete? 

Eccolo lì il tipo che aspettavamo, affacciarsi nel nostro vagone, sedersi e pronunciare la fatidica domanda. 

Io e la mia amica, zitte.

La ragazza dello stracchino con voce trillante: di Firenze.

  • Firenze Firenze?
  • Certo.
  • E di dove, di preciso.

A pensarci era inevitabile che sul Bolzano-Firenze trovassimo qualcuno veramente di Firenze. Questo qualcuno sicuramente aveva capito che gli stavamo raccontando delle stupidaggini e si divertiva a metterci in difficoltà.

Io e la mia amica lasciammo il campo alla ragazza dello stracchino che comunque sembrava cavarsela abbastanza bene. 

Il tizio però non mollava l’osso e insisteva a fare domande sempre più particolari su Firenze. 

  • E chi sarebbe il patrono di Firenze?

Gelo.

La ragazza dello stracchino aveva gli occhioni sgranati e pareva stesse per scoppiare in lacrime da un momento all’altro. Decidemmo di intervenire per aiutarlo.

  • San Lorenzo.
  • No.
  • Santa Maria Novella.
  • No.
  • Aspetta, lo so io. Santo Spirito.

Il ragazzo ci guardava sornione, la ragazza dello stracchino era sull’orlo di una crisi di nervi.

Ma insomma, possibile che non sapessimo chi era questo benedetto patrono di Firenze. Ci sarà stata una festa, un detto, una canzone che lo ricordava…

  • San Fiorenzo!

Urlai, come se avessi scoperto il tesoro dei pirati.

La risata del ragazzo ci fece capire che non ci eravamo proprio. Però scoppiammo a ridere anche noi, con lui.

Almeno la tensione si era smorzata. 

Ma io quel San Fiorenzo uscito chissà da dove non me lo sono più scordato. 

(Panorama – 1954, Ottone Rosai)

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Una sera al Maurizio Costanzo Show

Tantissimi anni fa andai anch’io al Maurizio Costanzo Show. Ero stata invitata dal mio amico David, con il quale ogni tanto collaboravo (aveva aperto un’agenzia giornalistica insieme a un altro David e a un altro collega) dopo la chiusura del giornale di Siena. David era riuscito a far inserire tra gli ospiti del Costanzo Show un tizio che girava intorno all’agenzia, che aveva da raccontare una storia veramente fuori dal comune.Il tizio, del quale non ricordo il nome né la nazionalità (svizzera o tedesca, mi pare), era una specie di Indiana Jones, capelli biondi lunghi spettinati, stivaloni da cowboy e gilet da fotografo, che una volta all’anno partiva alla volta del Rio delle Amazzoni e viveva nella foresta per alcuni mesi a contatto con le popolazioni indigene. Il motivo principale di un’avventura così totalizzante era la ricerca dell’oro.Come i pionieri che setacciavano febbrilmente i greti dei corsi d’acqua in California e in Alaska nella corsa all’oro della seconda metà dell’Ottocento, così il nostro eroe scandagliava i ruscelli della foresta equatoriale, trovando anche diverse pepite.   Quando tornava in Europa, poi, cercava di vendere la sua storia a giornali e tv. Con questo intento era arrivato fino a Siena dove aveva incontrato l’agenzia del mio amico che aveva cominciato a lavorare per promuovere le sue avventure.Così si era concretizzata l’ospitata al Maurizio Costanzo Show.A dire il vero non ho particolari ricordi dell’evento. Qualche vaga impressione mi è rimasta delle poltroncine di velluto (azzurro carta da zucchero o rosse?). La cosa che ricordo in modo più nitido è l’ingresso del teatro dei Parioli, con la discesina. Forse perché poco distante c’era stato l’attentato proprio a Maurizio Costanzo. O forse perché non si capiva quale fosse la nostra entrata. Passate davanti, no dietro, dall’ingresso artisti.Quel viaggio in realtà lo avevo rimosso. Solo l’altra sera, dopo aver appreso della scomparsa di Maurizio Costanzo, pian piano ha cominciato a riaffiorare alla mente.All’epoca non mi faceva né caldo né freddo andare ad assistere a un evento televisivo che attirava l’attenzione di milioni di persone. Non che oggi ci metterei la firma, ma credo che lo vivrei con una maggiore consapevolezza.Tra l’altro, oltre a non amare affatto i talk show, ricordo che criticavo sempre babbo perché stava attaccato alla tv ogni volta che c’era Maurizio Costanzo.Il nostro cercatore d’oro invece lo ricordo abbastanza bene. Tra l’altro dovrei avere ancora la cartellina con il materiale che lo riguarda, una serie di appunti e di fotocopie a colori di lui che setaccia un torrente, di lui con degli indigeni, di lui con delle testine umane essiccate che la tribù dei tagliatori di teste gli aveva donato in segno di rispetto e accettazione.Quella storia mi fu regalata da David e me la rimbalzai per un bel po’ tra le mani. Dopo il Maurizio Costanzo Show pensai che potesse interessare a qualche giornale di tiratura nazionale.La proposi al direttore di Donna di Repubblica, che all’epoca era il mio magazine preferito. Il direttore si chiamava Gigi Riva e la prima volta che lo sentii al telefono gli feci un’originalissima battuta sull’omonimo giocatore del Cagliari, che però, devo dire a mia discolpa, era veramente il mio idolo quando ero piccolina. Purtroppo la negoziazione non andò a buon fine e Donna di Repubblica alla fine non pubblicò la storia del cercatore d’oro amico dei tagliatori di teste del Rio delle Amazzoni.Peccato.A parte il fatto che ho un altro piccolo, pittoresco fallimento da raccontare.   

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Una notte all’hotel de la Poste

Qualche anno fa, per un breve periodo, lavorai per l’inserto regionale del Corriere della Sera come corrispondente da Belluno. Furono mesi molto belli e stimolanti, anche se la mia vita quotidiana non era affatto facile.

Era tutto un modo diverso di lavorare, rispetto al giornale di sempre, dove i ruoli erano abbastanza rigidi e qualunque cosa facessi rimanevo sempre l’ultima ruota del carro.

L’altro quotidiano invece era nato da poco, intendo l’inserto regionale, e c’erano molte più possibilità di misurarsi con sfide più importanti.

Una volta, per esempio, mi mandarono al congresso veneto di Forza Italia a Cortina d’Ampezzo, dove mi ritrovai accanto al super inviato di politica e ad altri giornalisti di spicco.

Per convincermi ad accettare, dalla redazione, sentendo la mia titubanza, mi dissero che avrei dormito una notte all’hotel de la Poste.

  • Quando ti ricapita un’occasione così?

Non fu quello il motivo che mi convinse a dire di sì, che di dormire negli alberghi, di lusso o meno, me ne è sempre importato poco. Anzi, a dire il vero l’ho sempre trovato piuttosto stancante, oltre che rumoroso. 

Il primo giorno filò abbastanza liscio. Seguii gli interventi, presi appunti e alla fine spedii il mio pezzo in redazione.

Poi andai a cena con un collega. Quindi fu la volta di provare l’ebbrezza di dormire una notte all’hotel de la Poste.

Salii al piano della camera che mi era stata assegnata con il mio bagaglio leggero, camminando per i lunghi corridoi dai pavimenti in legno ricoperti di tappeti, passando davanti a concierge e fattorini in livrea.

Aperta la prima porta d’ingresso alla camera, dopo un piccolo spazio, ce n’era una seconda. Pensai che avrei dormito benissimo, visto che il mio sonno sarebbe stato protetto dalla doppia porta che avrebbe isolato eventuali rumori provenienti dal corridoio.

Sistemai le mie cose e mi infilai sotto le coperte. 

Non ricordo se notai subito un’altra porta sulla parete di fronte al letto, ma sicuramente non ci feci troppo caso.

La giornata era stata lunga e impegnativa per cui mi addormentai in poco tempo.

A un certo punto mi svegliai di colpo al suono di una voce, tanto alta quanto vicina. Era un tizio che parlava, anzi urlava, al telefono. La cosa più impressionante, oltre al fatto che fosse già passata l’una di notte, era che il tizio sembrava fosse quasi in camera mia.

Accesi la luce e vidi la porta nella parete di fronte al letto. La voce veniva proprio dall’altra parte.

Che maleducazione.

Chiusi gli occhi, nella speranza che il tizio finisse la propria telefonata al più presto e mi lasciasse dormire in pace. 

Cercavo di addormentarmi ma quella voce dal tono acceso mi entrava in testa e non riuscivo a rilassarmi. Finalmente, a un certo punto la telefonata finì.

Mi girai dall’altra parte, abbracciai il cuscino e mi preparai a sprofondare nel sonno.

Un’altra telefonata.

Eh no, pensai. Ora se questo non la finisce chiamo la portineria per segnalare la situazione. 

Rimandavo. Alzarmi, comporre il numero e spiegare al concierge ciò che stava succedendo avrebbe significato perdere quel poco di sonno che avevo addosso e svegliarmi del tutto. Preferivo aspettare. Prima o poi avrebbe spento il telefono e si sarebbe messo a dormire anche lui.

Le due e mezzo. Silenzio. Ecco, lo sapevo che prima o poi…

Di nuovo la voce. Arrabbiata, tesa, forte. Avevo anche una mezza idea di chi fosse. Del portavoce, appunto, di un politicone di quel partito, che avevo visto tutto il giorno girare tra platea e sala stampa come una trottola impazzita. Chissà che storie c’erano in ballo. Magari se ascoltavo con attenzione riuscivo a tirar fuori pure uno scoop.

Mi decisi. Se fa un’altra telefonata chiamo la portineria. Silenzio. Finalmente.

Non importa dire che mi sbagliavo, purtroppo. 

La solfa andò avanti almeno fino alle tre e mezzo, mentre io ogni cinque minuti pensavo di chiamare il concierge e quello che dopo le urla stava un po’ in silenzio, illudendomi che fosse finita.  

Alla fine un po’ riuscii anche a dormire ma il giorno dopo c’era da alzarsi presto e seguire l’ultima parte del congresso, quella decisiva. 

La mattina a colazione cercai di individuare il rompipalle notturno. Era proprio lui, l’aria accigliata e il modo di fare di chi è chiamato a risolvere i problemi del mondo. Chi altri se non lui. 

Con gli occhi pesti tornai nella sala del congresso e mi sforzai di seguire tutti gli interventi cercando di capire che tipo di cambiamenti potevano anticipare.

A un certo punto un collega mi chiese come avessi dormito, visto che aveva saputo che la notte in albergo era stata un po’ agitata.

Stavo già per raccontargli del portavoce invadente, sicura che si riferisse a lui, quando invece mi raccontò tutta un’altra storia.

Riguardava una senatrice, anche lei molto conosciuta, che durante la notte aveva perso un costosissimo anello d’oro tempestato di pietre preziose. Pare che per recuperarlo fossero dovuti intervenire i dipendenti dell’albergo, insieme agli uomini della scorta, per smontare il tubo del lavandino. 

Alla fine l’anello era stato recuperato ma il fatto, vissuto con grande ansia dalla senatrice che si era sfogata nottetempo con telefonate concitate a destra e a manca (un vizio diffuso, a quanto pare), era diventato la barzelletta del giorno.

E questa è stata la mia prima, e unica, notte all’hotel de la Poste.

Proprio un’occasione da non lasciarsi scappare.

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