La passeggiata sul Serva

Una ventina di anni fa, ero arrivata a Belluno da pochi mesi, un collega che collaborava al giornale si offrì di farmi conoscere la montagna. 

  • Potremmo salire sul Serva, che è vicino e anche abbastanza semplice, disse.

Il Serva è la montagna che sovrasta Belluno, una sorta di panettone liscio con una croce in vetta.

  • Arriviamo fino alla croce e scendiamo.

In quei giorni il monte era completamente coperto di neve. Decidemmo di andare il 6 gennaio, per l’Epifania. 

Chiesi al capo se mi poteva dare quel giorno come riposo settimanale. Strano a dirsi, ma era impossibile. 

  • L’unica cosa che posso fare – disse, magnanimo – è metterti in turno di notte.   

Molto bene. Questo voleva dire che dopo l’escursione sarei dovuta rientrare a casa di corsa, fare la doccia, cambiarmi e volare al lavoro alle cinque del pomeriggio per rimanere fino a mezzanotte.

Vabbè.

A dire il vero non ero del tutto digiuna di montagna. Avevo avuto l’esperienza sul Pelmetto, in Val di Zoldo, e fin dal liceo avevo fatto qualche settimana bianca qua e là. 

Ma apprezzai lo stesso l’ospitalità e la disponibilità del collega. 

Pensai che sarebbe stato gentile portare un thermos di caffè caldo. Ma non avevo il thermos. Andai in un negozio di materiali sportivi in centro ma li avevano già finiti tutti, eccetto uno abbastanza piccolo ma che costava un botto. Lo comprai.

La mattina del 6 gennaio mi preparai con i vestiti più da montagna che avevo, gli scarponi da trekking e una bella giacca a vento. Riempii il thermos di caffè, misi nello zaino due cracker, acqua e un po’ di frutta secca e partii.

Passai a prendere il mio amico sotto casa, visto che si trovava di strada, e andammo verso il Col di Roanza. Da Belluno sono meno di dieci chilometri. Vai a Cavarzano, il mio amico stava lì, poi prendi per Sopracroda, sali sali sali, vai su per qualche tornante, arrivi sul Col di Roanza e lì la strada finisce. C’è un rifugio, poco più avanti c’è uno spiazzo, si chiama Cargador, da dove si lanciano con il parapendio. Un po’ più su c’è la croce luminosa donata da un’associazione cristiana e messa lì sul monte. Qualche anno fa ci fu una polemica perché tanti non ce la volevano. Al giornale si fece un gran casino ma poi la misero lo stesso. 

Si lasciò la macchina vicino al rifugio e ci si incamminò. All’inizio il sentiero saliva e passava in mezzo al bosco. Poi la vegetazione a un tratto spariva e il versante andava su dritto sparato. Ma non era come arrampicare, si camminava, solo parecchio in verticale.    

Era una giornata fredda ma bella, pulita e con il cielo azzurro. Il sole pian piano si alzava e cominciava a battere, oltre che a riflettere sulla neve. 

Noi si saliva e si saliva, ma la vetta era sempre lontana. E poi c’era il problema che a una cert’ora bisognava venir via perché io dovevo andare al lavoro. 

Il mio amico disse, arriviamo fino alla casera. 

A Pian dei Fioc, alla casera, ci fermammo. C’era un po’ di gente che beveva spumante e mangiava pandoro.

Noi ci sedemmo su una panca di legno e bevemmo il caffè del mio thermos. Smangiucchiammo un po’ di frutta secca, poi ripartimmo.

Il mio amico disse che conveniva tornare in giù. Non ce l’avremmo mai fatta a salire fino alla vetta ed essere a Belluno in tempo per il mio turno. 

Peccato.

All’ingiù non era molto meglio rispetto a quando si saliva. La discesa ripida e la neve costringevano a guardare bene dove si mettevano i piedi. Le ginocchia poi cominciavano a fare un po’ male, sollecitate com’erano.

Il mio amico disse, e se ci si buttasse giù di culo?

Si partì, tirandosi sul dietro la giacca a vento per scivolare meglio. 

Si andava che era un piacere. Solo che non è che il versante nonostante la neve fosse poi così liscio. Per cui ci si prendevano anche delle belle botte. Ogni tanto ci si fermava contro un rialzo del terreno o contro un arbusto, allora ci si dava una spinta e si ripartiva.    

Era divertente, come essere al luna park.

Quando si arrivò all’inizio del sentiero e ci alzammo in piedi le gambe non ci reggevano più.

Erano tutte un tremore. Ma c’era da scendere e allora andammo lo stesso. 

Rifacemmo al contrario tutto il percorso della mattina, lasciai il mio amico sotto casa sua e tornai alla mia. Mangiai qualcosa, feci la doccia, mi cambiai e andai al lavoro.

A quel punto ci sarebbe stato bene solo di infilarsi al calduccio sotto le coperte a far riposare i muscoli indolenziti. Invece dovetti affrontare il turno di notte. 

Non ricordo niente però di quello che successe, probabilmente nulla. Ma la mia presenza era comunque indispensabile. 

In ogni caso, almeno l’avventura della mattina, quella non me la scordo più.

(il Monte Serva – foto di Ylena Ichkova da Pinterest)

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Il patrono di Firenze

Nei primi anni del liceo con la mia amica e compagna di banco si passavano spesso i pomeriggi a casa sua con la scusa di fare i compiti.

Poi in realtà si facevano delle grandi merende, con i pasticcini o la pizza, e si guardava la tv. 

Ogni tanto veniva anche un’altra ragazza, un po’ più grande di noi, che coinvolgevamo nelle nostre festicciole pomeridiane. 

Questa ragazza era una personcina minuta con dei grandi occhi verdi e i capelli neri. Era anche molto ingenua e credulona per cui noi due ci divertivamo ad approfittarne. 

In quel periodo avevamo iniziato i nostri primi esperimenti culinari grazie alla ricetta delle lingue di gatto che la mia amica aveva avuto dalla nonna.

Sembrava quasi impossibile, ma i nostri biscottini prendevano forma ed uscivano dal forno caldi, dorati e croccanti.

Spiegammo alla nostra amica che quella doratura era un segreto della nonna e che per ottenerla si aggiungeva all’impasto dello stracchino. Uno poi, volendo, avrebbe potuto aggiungerne altro anche dopo la cottura. 

La nostra amica fu entusiasta dell’idea e cominciò a spalmare lo stracchino sulle sue lingue di gatto.

  • È vero, sono buonissime. Ma voi perché non ce lo mettete?

Lei continuava a spalmare e a mangiare, soddisfatta di questa scoperta.

A noi, spiegammo, ci bastava quello che avevamo messo dentro, quello della crosticina.

Non sapevamo se essere più divertite o attonite. Era stato troppo facile prenderci gioco di lei. 

Che poi, alla fine, ne era addirittura contenta.

La nostra ospite dello stracchino era anche un’appassionata sciatrice e noi, io e la mia compagna di banco, andavamo ogni anno a Natale nella casa della mia amica sulle Dolomiti a fare la settimana bianca. Una volta venne anche lei. 

Faccio fatica a pensare che quella vacanza in montagna ci sia stata davvero. Non ricordo più niente. Forse, vagamente, il fatto che io e la mia amica andavamo sulle piste più facili mentre la ragazza dello stracchino faceva anche la nera, che in quel caso era un terribile percorso ripido fra spuntoni di roccia.

Non ricordo la nostra convivenza in casa, non ricordo il viaggio di andata, sempre in treno da Firenze, dove ci accompagnava in genere il babbo della mia amica, né la sosta d’obbligo a Bolzano con wurstel e senape al baracchino per strada, e nemmeno la salita in autobus lungo i tornanti a picco su versanti di pietre. 

Ricordo invece il lungo viaggio di ritorno sulla tratta ferroviaria Bolzano-Firenze.

  • Se ci chiedono di dove siamo non dite assolutamente che siamo di Colle.
  • Ah no? E di dove saremmo?
  • Di Firenze.

L’amica dello stracchino, scoprimmo, si vergognava delle sue origini provinciali, che poi erano anche le nostre. Solo che a noi non ce ne importava proprio niente.

In ogni caso, pensai, a chi vuoi che interessi sapere di dove siamo? 

  • Ciao, posso? Di dove siete? 

Eccolo lì il tipo che aspettavamo, affacciarsi nel nostro vagone, sedersi e pronunciare la fatidica domanda. 

Io e la mia amica, zitte.

La ragazza dello stracchino con voce trillante: di Firenze.

  • Firenze Firenze?
  • Certo.
  • E di dove, di preciso.

A pensarci era inevitabile che sul Bolzano-Firenze trovassimo qualcuno veramente di Firenze. Questo qualcuno sicuramente aveva capito che gli stavamo raccontando delle stupidaggini e si divertiva a metterci in difficoltà.

Io e la mia amica lasciammo il campo alla ragazza dello stracchino che comunque sembrava cavarsela abbastanza bene. 

Il tizio però non mollava l’osso e insisteva a fare domande sempre più particolari su Firenze. 

  • E chi sarebbe il patrono di Firenze?

Gelo.

La ragazza dello stracchino aveva gli occhioni sgranati e pareva stesse per scoppiare in lacrime da un momento all’altro. Decidemmo di intervenire per aiutarlo.

  • San Lorenzo.
  • No.
  • Santa Maria Novella.
  • No.
  • Aspetta, lo so io. Santo Spirito.

Il ragazzo ci guardava sornione, la ragazza dello stracchino era sull’orlo di una crisi di nervi.

Ma insomma, possibile che non sapessimo chi era questo benedetto patrono di Firenze. Ci sarà stata una festa, un detto, una canzone che lo ricordava…

  • San Fiorenzo!

Urlai, come se avessi scoperto il tesoro dei pirati.

La risata del ragazzo ci fece capire che non ci eravamo proprio. Però scoppiammo a ridere anche noi, con lui.

Almeno la tensione si era smorzata. 

Ma io quel San Fiorenzo uscito chissà da dove non me lo sono più scordato. 

(Panorama – 1954, Ottone Rosai)

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Una sera al Maurizio Costanzo Show

Tantissimi anni fa andai anch’io al Maurizio Costanzo Show. Ero stata invitata dal mio amico David, con il quale ogni tanto collaboravo (aveva aperto un’agenzia giornalistica insieme a un altro David e a un altro collega) dopo la chiusura del giornale di Siena. David era riuscito a far inserire tra gli ospiti del Costanzo Show un tizio che girava intorno all’agenzia, che aveva da raccontare una storia veramente fuori dal comune.Il tizio, del quale non ricordo il nome né la nazionalità (svizzera o tedesca, mi pare), era una specie di Indiana Jones, capelli biondi lunghi spettinati, stivaloni da cowboy e gilet da fotografo, che una volta all’anno partiva alla volta del Rio delle Amazzoni e viveva nella foresta per alcuni mesi a contatto con le popolazioni indigene. Il motivo principale di un’avventura così totalizzante era la ricerca dell’oro.Come i pionieri che setacciavano febbrilmente i greti dei corsi d’acqua in California e in Alaska nella corsa all’oro della seconda metà dell’Ottocento, così il nostro eroe scandagliava i ruscelli della foresta equatoriale, trovando anche diverse pepite.   Quando tornava in Europa, poi, cercava di vendere la sua storia a giornali e tv. Con questo intento era arrivato fino a Siena dove aveva incontrato l’agenzia del mio amico che aveva cominciato a lavorare per promuovere le sue avventure.Così si era concretizzata l’ospitata al Maurizio Costanzo Show.A dire il vero non ho particolari ricordi dell’evento. Qualche vaga impressione mi è rimasta delle poltroncine di velluto (azzurro carta da zucchero o rosse?). La cosa che ricordo in modo più nitido è l’ingresso del teatro dei Parioli, con la discesina. Forse perché poco distante c’era stato l’attentato proprio a Maurizio Costanzo. O forse perché non si capiva quale fosse la nostra entrata. Passate davanti, no dietro, dall’ingresso artisti.Quel viaggio in realtà lo avevo rimosso. Solo l’altra sera, dopo aver appreso della scomparsa di Maurizio Costanzo, pian piano ha cominciato a riaffiorare alla mente.All’epoca non mi faceva né caldo né freddo andare ad assistere a un evento televisivo che attirava l’attenzione di milioni di persone. Non che oggi ci metterei la firma, ma credo che lo vivrei con una maggiore consapevolezza.Tra l’altro, oltre a non amare affatto i talk show, ricordo che criticavo sempre babbo perché stava attaccato alla tv ogni volta che c’era Maurizio Costanzo.Il nostro cercatore d’oro invece lo ricordo abbastanza bene. Tra l’altro dovrei avere ancora la cartellina con il materiale che lo riguarda, una serie di appunti e di fotocopie a colori di lui che setaccia un torrente, di lui con degli indigeni, di lui con delle testine umane essiccate che la tribù dei tagliatori di teste gli aveva donato in segno di rispetto e accettazione.Quella storia mi fu regalata da David e me la rimbalzai per un bel po’ tra le mani. Dopo il Maurizio Costanzo Show pensai che potesse interessare a qualche giornale di tiratura nazionale.La proposi al direttore di Donna di Repubblica, che all’epoca era il mio magazine preferito. Il direttore si chiamava Gigi Riva e la prima volta che lo sentii al telefono gli feci un’originalissima battuta sull’omonimo giocatore del Cagliari, che però, devo dire a mia discolpa, era veramente il mio idolo quando ero piccolina. Purtroppo la negoziazione non andò a buon fine e Donna di Repubblica alla fine non pubblicò la storia del cercatore d’oro amico dei tagliatori di teste del Rio delle Amazzoni.Peccato.A parte il fatto che ho un altro piccolo, pittoresco fallimento da raccontare.   

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Una notte all’hotel de la Poste

Qualche anno fa, per un breve periodo, lavorai per l’inserto regionale del Corriere della Sera come corrispondente da Belluno. Furono mesi molto belli e stimolanti, anche se la mia vita quotidiana non era affatto facile.

Era tutto un modo diverso di lavorare, rispetto al giornale di sempre, dove i ruoli erano abbastanza rigidi e qualunque cosa facessi rimanevo sempre l’ultima ruota del carro.

L’altro quotidiano invece era nato da poco, intendo l’inserto regionale, e c’erano molte più possibilità di misurarsi con sfide più importanti.

Una volta, per esempio, mi mandarono al congresso veneto di Forza Italia a Cortina d’Ampezzo, dove mi ritrovai accanto al super inviato di politica e ad altri giornalisti di spicco.

Per convincermi ad accettare, dalla redazione, sentendo la mia titubanza, mi dissero che avrei dormito una notte all’hotel de la Poste.

  • Quando ti ricapita un’occasione così?

Non fu quello il motivo che mi convinse a dire di sì, che di dormire negli alberghi, di lusso o meno, me ne è sempre importato poco. Anzi, a dire il vero l’ho sempre trovato piuttosto stancante, oltre che rumoroso. 

Il primo giorno filò abbastanza liscio. Seguii gli interventi, presi appunti e alla fine spedii il mio pezzo in redazione.

Poi andai a cena con un collega. Quindi fu la volta di provare l’ebbrezza di dormire una notte all’hotel de la Poste.

Salii al piano della camera che mi era stata assegnata con il mio bagaglio leggero, camminando per i lunghi corridoi dai pavimenti in legno ricoperti di tappeti, passando davanti a concierge e fattorini in livrea.

Aperta la prima porta d’ingresso alla camera, dopo un piccolo spazio, ce n’era una seconda. Pensai che avrei dormito benissimo, visto che il mio sonno sarebbe stato protetto dalla doppia porta che avrebbe isolato eventuali rumori provenienti dal corridoio.

Sistemai le mie cose e mi infilai sotto le coperte. 

Non ricordo se notai subito un’altra porta sulla parete di fronte al letto, ma sicuramente non ci feci troppo caso.

La giornata era stata lunga e impegnativa per cui mi addormentai in poco tempo.

A un certo punto mi svegliai di colpo al suono di una voce, tanto alta quanto vicina. Era un tizio che parlava, anzi urlava, al telefono. La cosa più impressionante, oltre al fatto che fosse già passata l’una di notte, era che il tizio sembrava fosse quasi in camera mia.

Accesi la luce e vidi la porta nella parete di fronte al letto. La voce veniva proprio dall’altra parte.

Che maleducazione.

Chiusi gli occhi, nella speranza che il tizio finisse la propria telefonata al più presto e mi lasciasse dormire in pace. 

Cercavo di addormentarmi ma quella voce dal tono acceso mi entrava in testa e non riuscivo a rilassarmi. Finalmente, a un certo punto la telefonata finì.

Mi girai dall’altra parte, abbracciai il cuscino e mi preparai a sprofondare nel sonno.

Un’altra telefonata.

Eh no, pensai. Ora se questo non la finisce chiamo la portineria per segnalare la situazione. 

Rimandavo. Alzarmi, comporre il numero e spiegare al concierge ciò che stava succedendo avrebbe significato perdere quel poco di sonno che avevo addosso e svegliarmi del tutto. Preferivo aspettare. Prima o poi avrebbe spento il telefono e si sarebbe messo a dormire anche lui.

Le due e mezzo. Silenzio. Ecco, lo sapevo che prima o poi…

Di nuovo la voce. Arrabbiata, tesa, forte. Avevo anche una mezza idea di chi fosse. Del portavoce, appunto, di un politicone di quel partito, che avevo visto tutto il giorno girare tra platea e sala stampa come una trottola impazzita. Chissà che storie c’erano in ballo. Magari se ascoltavo con attenzione riuscivo a tirar fuori pure uno scoop.

Mi decisi. Se fa un’altra telefonata chiamo la portineria. Silenzio. Finalmente.

Non importa dire che mi sbagliavo, purtroppo. 

La solfa andò avanti almeno fino alle tre e mezzo, mentre io ogni cinque minuti pensavo di chiamare il concierge e quello che dopo le urla stava un po’ in silenzio, illudendomi che fosse finita.  

Alla fine un po’ riuscii anche a dormire ma il giorno dopo c’era da alzarsi presto e seguire l’ultima parte del congresso, quella decisiva. 

La mattina a colazione cercai di individuare il rompipalle notturno. Era proprio lui, l’aria accigliata e il modo di fare di chi è chiamato a risolvere i problemi del mondo. Chi altri se non lui. 

Con gli occhi pesti tornai nella sala del congresso e mi sforzai di seguire tutti gli interventi cercando di capire che tipo di cambiamenti potevano anticipare.

A un certo punto un collega mi chiese come avessi dormito, visto che aveva saputo che la notte in albergo era stata un po’ agitata.

Stavo già per raccontargli del portavoce invadente, sicura che si riferisse a lui, quando invece mi raccontò tutta un’altra storia.

Riguardava una senatrice, anche lei molto conosciuta, che durante la notte aveva perso un costosissimo anello d’oro tempestato di pietre preziose. Pare che per recuperarlo fossero dovuti intervenire i dipendenti dell’albergo, insieme agli uomini della scorta, per smontare il tubo del lavandino. 

Alla fine l’anello era stato recuperato ma il fatto, vissuto con grande ansia dalla senatrice che si era sfogata nottetempo con telefonate concitate a destra e a manca (un vizio diffuso, a quanto pare), era diventato la barzelletta del giorno.

E questa è stata la mia prima, e unica, notte all’hotel de la Poste.

Proprio un’occasione da non lasciarsi scappare.

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Il camion fuori posto

Diversi anni fa, a Belluno, successe che un gruppo di ragazzi si mise d’accordo per offrire un servizio di accompagnamento ai giovani che andavano in discoteca e non volevano rischiare incidenti al ritorno.

Il nome scelto per la società fu A company, che a orecchio faceva accompany. Furono fatti dei volantini pubblicitari. Le foto le scattò il fotografo del giornale per cui lavoravo in quel periodo, che ci passò anche la notizia.

L’articolo, di poche righe, raccontava qual era la novità, spiegava a chi si doveva l’idea e informava naturalmente sui numeri da contattare per prenotare il servizio di trasporto.

La foto pubblicata a fianco era quella che campeggiava sul volantino pubblicitario e ritraeva i diversi soci, tutti maschi e giocatori di calcio, vestiti e truccati da entreneuse sullo sfondo di un grosso camion bianco posteggiato in una piazzola. Il messaggio giocava ironicamente sul ruolo delle accompagnatrici e lo sfondo del camion richiamava il tipo di cliente a cui il servizio si rivolgeva. 

L’idea del camion era venuta al fotografo, dal momento che il gigante della strada era posteggiato ogni notte accanto a casa sua. 

Insomma, una notizia utile presentata in maniera simpatica, e finita lì.

Almeno così pensavamo noi.

Invece proprio nel pomeriggio del giorno in cui fu pubblicata, piombò un tizio in redazione che urlando e sbraitando, cominciò ad accusarci di averlo rovinato, di avergli fatto perdere il lavoro e chissà che altro.

Normalmente quando qualcuno protestava per un articolo o una foto, la grana passava all’autore dell’articolo o al redattore che l’aveva impaginato. In quel caso però nessuno riusciva a capire a che cosa si riferisse il tizio per cui fu affidato a me dal momento che seguivo sia la cronaca nera che quella giudiziaria e quelli che protestavano ce l’avevano più o meno spesso con qualcosa che avevo scritto io.

Lo invitai a spiegarmi bene che cosa fosse successo, dopo averlo portato nella nostra sala riunioni così da non disturbare il lavoro dei colleghi.

Non fu facile venirne a capo. Il tizio era agitato e parlava in dialetto. Mentre lui pronunciava frasi senza un senso apparente, io ripassavo con la memoria gli articoli che avevo scritto il giorno prima e non me ne veniva in mente nessuno che parlasse di un camion, l’unica parola che riuscivo a capire di quello sproloquio.

Presi una copia del quotidiano e gli chiesi di mostrarmi dove fosse il problema. 

Puntò il dito sulla foto del camion con i calciatori tassisti travestiti da donna che pubblicizzavano il loro servizio di trasporto notturno.

Venne fuori che l’uomo era dipendente di una grossa ditta di trasporti della zona, per la quale lavorava come camionista. I mezzi dell’azienda erano tutti di grandi dimensioni e nuovissimi. La regola, ferrea, era che dovevano essere utilizzati solo per il lavoro e al termine della giornata venire posteggiati nel parco della ditta, al riparo del cancello chiuso a chiave.

Il nostro tipo invece aveva deciso autonomamente di apportare una piccola modifica al regolamento aziendale usando il camion anche per andare e tornare dalla sede di lavoro. Durante la notte lo posteggiava in una piazzola vicino casa, sull’ultimo tratto di strada tra la provinciale e l’ingresso della città, ben visibile a tutti e alla mercé di qualsiasi malintenzionato.

Fortuna volle che prima dell’arrivo di un ladro di tir, il mezzo pesante avesse colpito la fantasia del nostro fotografo, così che la situazione era venuta a galla prima che succedesse qualcosa di irreparabile. 

Non so alla fine se il tipo sia stato licenziato o se se la sia cavata con una strigliata di capo e l’obbligo di andare al lavoro con la propria macchina. Fatto sta che se fosse stato un po’ più sveglio, più che arrabbiarsi con noi, avrebbe dovuto ringraziarci.

Altroché.     

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Il filmino dell’università

All’università studiavo lettere con indirizzo musica e spettacolo, il più divertente ma anche più inutile. A storia del cinema avevamo Lino Micciché, creatore del festival di Pesaro. Ogni anno ci invitava ad andare, ma io non l’ho mai fatto.

Sergio Micheli teneva un seminario di cui non ricordo il titolo. Però a un certo punto, oltre a guardare di continuo film muti e in bianco e nero nella sala cinema del primo piano in via Fieravecchia, con lui decidemmo di girare un nostro film.

Un filmino, una specie di spot. Ma cercammo di buttare giù una trama e ci distribuimmo i compiti.

Io scelsi di fare la trovarobe, oltre a partecipare a tutto il resto .

La storia era un po’ vaga e non sapevamo dove andare a parare. 

Erano gli anni Ottanta, in Italia non era arrivata nemmeno MTV e noi eravamo digiuni di tutto, compresa la cultura cinematografica e televisiva contemporanea.

Prendemmo ispirazione da una pubblicità del momento, quella dell’uomo che non deve chiedere mai, ci costruimmo sopra una storiellina che vedeva nel ruolo di attore protagonista Olly, un corpulento studente tedesco con il viso tondo incorniciato da riccioli d’oro, occhialini alla John Lennon, gotine rosse e paffutelle.  

Il nostro sforzo creativo di gruppo partorì un plot in cui questo Olly, passando dalla scalinata di Romeo e Giulietta, al Battistero del Duomo, incrociava una ragazza che attirava la sua attenzione grazie alla scia di profumo che lasciava. Anche qui citavamo un’altra pubblicità dell’epoca in cui una donna camminava per strada tutta improfumata e gli uomini la seguivano col naso all’insù.

Non era un granché, però l’avventura ci piaceva. Ci faceva sentire come studenti del Dams, dei quali eravamo purtroppo solo i cugini poveri.

Sceglievamo le varie zone della città dove girare le nostre scene. Il tecnico dell’università ci seguiva, povero lui, con la telecamera della facoltà.

Ci trovavamo la mattina presto con Sergio Micheli e mettevamo su il nostro set, come una vera produzione cinematografica.

Andammo alle fonti di Pescaia e in Fontebranda, al Battistero del Duomo e nei giardini di via Fieravecchia. All’epoca non si diceva ancora location, erano solo posti belli che avevamo scelto per il nostro filmino.

La trama prevedeva anche una scena di gelosia, con un ragazzo più fisicato del nostro Olly, che si prestava a interpretare il ruolo dell’uomo che non deve chiedere mai, e che a un certo punto raccoglieva l’interesse della ragazza che tanto aveva colpito le narici del tedeschino.

Dopo questo sforzo creativo, per tirare avanti la storia ci fu richiesto di pensare un finale.

Le nostre menti da surrogato del Dams ci portarono a far fissare un appuntamento tra Olly e la bella improfumata dove tutto aveva avuto inizio, sulla scalinata di Giulietta e Romeo.

Olly, naturalmente, si era già girato il suo bel film nella testolina per cui il copione prevedeva che portasse con sé una confezione di profilattici, che dovemmo comprare noi, forse addirittura io, visto che facevo la trovarobe. 

Per non sciupare l’eccezionale sorpresa al pubblico decidemmo che Olly avrebbe nascosto la confezione nella tasca posteriore dei jeans. 

Poi, una volta giunto alla famosa scalinata, nell’attesa della bella improfumata, si sarebbe seduto a terra e girandosi di tre quarti la cinepresa avrebbe inquadrato un angolo della scatolina che faceva capolino dalla stoffa blu.

La scena avrebbe suggellato la disfatta finale e totale del povero Olly, che era andato un po’ troppo avanti con l’immaginazione, mentre la bella improfumata non sarebbe mai arrivata all’appuntamento, essendo molto probabilmente impegnata a laccarsi le unghie per interpretare la donna che si avvinghiava al torace dell’uomo che non doveva chiedere mai.

Da via Fieravecchia, dove una copia di tal capolavoro dovrebbe essere ancora presente in qualche archivio sotterraneo, è tutto.

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Le prime vacanze a Praia a Mare

Quando i nonni morirono cominciammo ad andare in vacanza in posti più lontani. Questo accadeva perché non c’era più bisogno che restassimo a disposizione in caso di emergenza. Un anno andammo in Calabria, a Praia a Mare, nella parte più a nord della regione. Il camping era una distesa di terra brulla con degli alberelli sparuti piantati da poco. Ma eravamo sul mare, davanti all’isola di Dino, che dicevano fosse degli Agnelli.

La strada per arrivare non finiva più. Per questo ci fermavamo sempre una notte a Baia Domizia, sia all’andata che al ritorno. Qui andavamo a mangiare le mozzarelle freschissime di bufala a dei baracchini vicini alla strada, attrezzati con tavoli e panche sotto i tendoni.  

Prima di cena andavo al solarium del campeggio, una distesa di sdraio su un prato verde vista mare, per fumare di nascosto.

Tirava sempre un forte vento che consumava la sigaretta e ne trasformava il sapore. Ma riuscivo sempre a godermi quel momento tutto per me.

Un giorno, quando eravamo a Praia a Mare, babbo ci fece salire in macchina di mattina presto e ci portò a fare un giro sulla Sila. Dopo i lunghi tornanti in mezzo ai boschi, a Camigliatello trovammo un caseificio. Ci fermammo a vedere che cosa c’era e comprammo un sacco di formaggi. Il mio preferito era un cartone come quelli del latte che conteneva delle mozzarelline affogate in una panna densa e acida. Il massimo poi, una volta tornata alla roulotte, era mangiarla con la nutella.

Una volta prendemmo un gozzo a noleggio e facemmo un giro tra le spiaggette dei dintorni. 

Ci fermammo all’Arcomagno, una spiaggia bellissima a cui si accedeva da un’apertura naturale a forma di arco nella roccia.  

A Praia a Mare le roulotte erano molto rade, divise solo da quegli alberelli sofferenti che dovevano ancora crescere. Poco distante dalla nostra, andando verso l’ingresso del camping, ci stava una famiglia del nord Italia con due bambini.

Quell’anno mi ero portata dietro la chitarra e ogni tanto suonavo nella veranda. Un giorno vidi che avevo un pubblico. I due bambini erano in piedi davanti alla nostra roulotte e mi guardavano incantati. Suonai ancora un po’, poi mi stufai, ma loro volevano che continuassi.

Continuarono a venire tutti i giorni. All’inizio il loro interesse mi risultava abbastanza piacevole, ma ben presto i due piccoletti cominciarono a venirmi a noia. Non riuscivo più a far niente senza ritrovarmeli tra i piedi. Quando mi lamentavo con mamma e babbo loro mi dicevano, ma che problema c’è, porta pazienza.

Nel campeggio però non c’erano ragazzi della mia età e quindi alla fine, qualunque cosa facessi, avevo sempre il codazzo dei due bambini.

  • Perché non suoni la chitarra? chiedevano di continuo.

Oppure: 

  • Che cos’hai sulla pelle?
  • Si chiamano lentiggini.
  • E perché te le sei fatte?
  • Non me le sono fatte, vengono da sé.
  • E allora perché… eccetera eccetera.

Io li invitavo ad andare nella loro roulotte e lasciarmi in pace, ma loro erano testardi come dei piccoli muli. 

Cominciai a studiare i loro tempi così da poterli seminare e rimanere da sola in spiaggia o al bar. Ma, anche se il giochetto funzionava, purtroppo non durava a lungo e dopo un po’ sentivo la vocina di uno dei due pronunciare l’inevitabile domanda.

  • E la chitarra? Perché non l’hai portata?

Quando la vacanza finì, il pensiero di non rivedere più i due piccoli assillanti bastò a consolarmi del dispiacere di salutare il mare e l’aria calda della Calabria.

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I miei Capodanni lontani

Quando ero piccola per l’ultimo dell’anno avevamo sempre degli ospiti. All’epoca abitavamo ancora in Campolungo, nella casa al secondo piano di una palazzina di tre con un corridoio e tante terrazze. 

Gli invitati erano amici di babbo e mamma, per lo più legati al mondo della scuola, ma non solo. L’avvocato Oreste Mattone Vezzi con la moglie Franca appartenevano alla schiera degli amici di gioventù di babbo. Con loro non ho ricordi particolari se non per il fatto che li guardavo con una certa soggezione di bambina, ammirandoli, specialmente la signora, che sfoggiava sempre mise di gran classe. 

La signorina Iser era la maestra di Paola e a lei si devono alcuni dei regali più belli che abbiamo mai ricevuto, dalla bambola Bettina, al pupazzo Giannino, alla Collina dei Conigli, uno dei libri che ho prestato non ricordo a chi, ma che ho ricomprato tanto mi aveva fatto stare con il fiato sospeso. 

La sera della cena l’aria si faceva frizzante e piena di aspettative. Ogni volta che suonava il campanello e babbo andava ad aprire era una festa. Per me era come essere al cinema. Gli ospiti entravano in casa portando con sè l’aria fredda di fuori mista al loro profumo.

Non c’erano altri bambini e i patti erano che mangiavamo e poi a letto. Ma io non volevo mai andare perché avevo paura di perdermi discorsi, risate e brindisi.

I figli li avevano solo i Mattone Vezzi e non li portavano. 

C’era la Direttrice, Anna Betti, con i suoi cappelli di velluto chiusi da uno spillone con la perla. C’era Robusto Solari, che più tardi diventò lui il Direttore. C’erano Mario Cappelli e Gioli, anche lui insegnante e più tardi Direttore dello stesso circolo didattico di Colle.

Il salotto della casa di Campolungo era arredato con i mobili in teak che andavano di moda negli anni Sessanta. C’era il tavolo che si allungava aprendolo a metà e facendo emergere una giunta dal centro. Le sedie erano foderate di una stoffa nera ruvida con delle piccole escrescenze bianche, così come il divano e le poltrone.

C’era un mobiletto lungo poggiato a terra dove si tenevano i serviti da apparecchiatura più eleganti e dei mobiletti appesi al muro con i bicchieri e i liquori. 

L’illuminazione era a parete, con dei lampadari in legno divisi in quadrati. Ogni quadrato poi o era vuoto o aveva la lampadina. Quelli con la lampada avevano una copertura di plastica bianca o nera per gli effetti di luce. 

Sotto il tavolino basso da fumo un tappeto giallo, alle pareti alcuni quadri e delle stampe giapponesi su delle specie di stuoie.

Mamma cucinava, babbo stappava le bottiglie, spalmava i crostini e aiutava ad apparecchiare.

I pezzi forti di quegli anni erano il vitel tonné e l’insalata russa. Una volta c’era il pollo in galantina. Quello me lo ricordo bene perché il giorno prima era venuto un cuoco a casa nostra a prepararlo. Si chiamava Imolo e nei miei ricordi di bambina doveva essere per forza emiliano come la città. Faceva il cuoco in un ristorante a Pancole nel periodo in cui mamma e una sua collega ci insegnavano .

Quel pomeriggio non mi allontanai nemmeno un minuto dalla cucina. Guardavo le mani di Imolo, vestito di bianco, che disossavano il pollo, preparavano il ripieno e infine riempivano la sacca di carne che poi veniva avvolta in un tovagliolo bianco e legato con lo spago prima di finire in pentola a bollire.

Io seguivo tutta la procedura senza perdermi un passaggio e chiedendo perché faceva questo e perché faceva quello. 

Imolo pensava di insegnare a mamma quella ricetta, ma dopo di lui in realtà nessuno ha mai più preparato il pollo in galantina, a casa nostra.

Alle cene di Capodanno si apparecchiava con la tovaglia di cotone rosso ricamata di bianco. I piatti, i bicchieri, i vassoi e le zuppiere erano quelli dei serviti del matrimonio di mamma e babbo. I bicchieri in cristallo erano molati, tutti sfaccettati, e lo spumante si beveva nelle coppe. 

Babbo nel pomeriggio sbucciava un ananas e lo tagliava a fette che adagiava in una insalatiera e ci versava sopra lo spumante. Qualche volta c’erano anche delle ciliegine sotto spirito.

Gioli portava uno dei suoi dolci capolavoro. La Direttrice ci regalava dei libri di mitologia greca e romana dopo aver saputo della mia passione per il mondo degli dei.

Mangiando e parlando si aspettava la mezzanotte per brindare e farsi gli auguri. Io però a quell’ora sarei dovuta già essere a letto da un bel po’. Paola andava a dormire senza fare storie. Io invece mi impuntavo, all’inizio chiedendo, per finire supplicando, che mi lasciassero stare ancora un po’ con i grandi.

Per agevolare il trasferimento in camera da letto, mamma ci vestiva già da notte per la cena ma evidentemente, almeno con me, lo stratagemma non funzionava.

Lo facevo anche per Natale e per la Befana, di non andare mai a dormire perché volevo vedere di persona chi veniva a portare i regali. Babbo era disperato perché non poteva andare a letto e doveva aspettare che io crollassi. Ma questo l’ho saputo solo molti anni dopo. 

In ogni caso anche alle cene di Capodanno a una certa ora ce la facevano e mi mettevano sotto le coperte, dopo che avevo salutato tutti con un bacino. 

La nostra camera era in fondo al corridoio, il salotto subito dopo la porta d’ingresso, sulla destra, e non aveva una porta come le altre stanze. Quella del salotto era a vetrata.

Così io, mentre mi credevano a letto, mi alzavo e mi avvicinavo quatta quatta. Poi mi nascondevo rimanendo accucciata tra il muro e la porta, per poter continuare ad ascoltare.

Pare che una volta, al momento dei saluti, mi abbiano trovata addormentata per terra.

Ma il mio obiettivo l’avevo raggiunto.      

(In foto: l’avvocato Oreste Mattone Vezzi e la moglie Franca, Simona con la bambola Bettina e, dietro, la signorina Iser)

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La Settimana del Vino

Un bel po’ di tempo fa ho lavorato in modo piuttosto intenso nel settore della comunicazione del vino. In particolare, insieme a un gruppo di colleghi, curavo l’ufficio stampa e l’organizzazione degli eventi per l’Enoteca italiana di Siena. 

Quando c’era la Settimana del Vino era tutta una cena di gala, una degustazione. Arrivavano giornalisti, produttori e altre persone legate al mondo del vino.

Al tempo fumavamo quasi tutti e non c’era ancora nessun divieto all’interno di ristoranti e spazi chiusi. 

Per cui a cena, tra una portata e l’altra, accendevamo le nostre sigarette suscitando evidente fastidio nei sommeliers, che provavano a istituire dei divieti sul momento.

Non c’è degustazione, dicevano, così non c’è degustazione.

Un giorno andammo a Montalcino da Biondi Santi dove portammo le telecamere della Rai per la cerimonia della ricolmatura delle vecchie bottiglie. Un rito quasi religioso. Ebbi modo di visitare le cantine e di conoscere il grande vecchio, Franco Biondi Santi, che al momento di salutarci volle regalarmi due bottiglie del suo Brunello. 

In quegli anni il vino italiano aveva già fatto passi da gigante e alcune bottiglie, molte delle quali toscane, figuravano nella classifica mondiale dei cento migliori vini redatta da Wine Spectator.

Quell’anno nella top ten c’era il Cepparello di Isole e Olena.

E tanti altri tra i restanti novanta.

Noi seguivamo i convegni, intervistavamo i vari personaggi e scrivevamo comunicati a nastro, spesso anche in piena notte, in macchina, sul mio portatile.

Un mercoledì sera non c’era niente in programma e io mi pregustavo una cenetta tranquilla a casa, una doccia calda e via a letto, quando ci chiamò il direttore dell’Enoteca e ci chiese di accompagnarlo a Mercatale dai Corsini. Cercai di sganciarmi, chiedendo a un collega di andare da solo, ma non ci fu verso. Ci toccò la cena di gala alla villa, con invitati importanti e chiacchierate in inglese e tutto quanto.

Tra gli ospiti c’erano anche due tizi, un uomo e una donna, arrivati da Londra. Lavoravano entrambi per Sotheby’s dove si occupavano delle vendite dei vini all’asta.

Nei giorni successivi sarebbero stati a Siena, all’Enoteca, per un convegno sul tema.

Intervistammo l’uomo, rigorosamente in inglese. Ci preparammo le domande e via. 

Io ho sempre avuto un certo timore a parlare con i londinesi. Avendo viaggiato soprattutto negli Stati Uniti mi trovo molto più a mio agio con gli americani, mentre gli inglesi, specialmente quelli di Londra, mi sembrano difficili da comprendere.

In ogni caso quella sera l’intervista filò liscia. 

Almeno fino a quando chiedemmo all’esperto di Sotheby’s quali fossero secondo lui i vini toscani su cui puntare. 

Sassicaia lo capimmo bene (anche perché in quegli anni non si parlava d’altro). A Tig-nanello ci arrivammo per istinto. Ma Montcivertcini, che lui indicava come un’azienda emergente di grande qualità, non riuscivamo proprio a catalogarla. 

Ci appuntammo tutto e, finita l’intervista, corremmo a fare le verifiche con un esperto di casa nostra. 

L’azienda misteriosa era Montevertine, di Radda in Chianti. E a guardare bene, la pronuncia, se fosse stata una parola inglese, era perfetta.

Da allora per noi è rimasta quella. Montcivertcini e Tig-nanello.

What else? 

(Foto di Rosemarie da Pixabay)

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Pressione bassa

Nella mia collezione giovanile di audiocassette c’era anche un preziosissimo album di Giorgio Gaber. Mi pare che si intitolasse Pressione bassa. Aveva una copertina bianca con dei disegni a inchiostro nero e conteneva L’illogica allegria e Il dilemma.

Fin da piccola ho sempre avuto una passione per le parole e per le storie che riuscivano a raccontare. Quanto ho insistito con nonna Libe perché mi insegnasse a leggere tutte quelle riviste e quei libri che giravano per casa. Mamma insegnava, stava dietro alla casa e a me e Paola e mi diceva di aver pazienza, che presto sarei andata a scuola. Ma io volevo leggere subito. Perché aspettare? Poi in prima elementare mi annoiavo e facevo gli esercizi anche per gli altri, così il maestro alla fine mi mandava fuori dalla classe. 

L’adolescenza l’ho passata a decifrare le canzoni di Guccini e De Andrè e degli altri cantautori. All’epoca non era facile trovare le parole. Non sempre venivano riportate sull’album e, anche nel caso ci fossero state, se ci scambiavamo le registrazioni rinunciavamo ai testi scritti.

Passavo le ore chiusa nella mia cameretta, col registratore e un quaderno, a scrivere le parole. Ascoltavo e andavo indietro per riascoltare finché la frase non era chiara. La scrivevo e andavo avanti. Poi finalmente potevo cantarla anch’io. Anche gli spartiti per la chitarra erano tutti scritti a mano, mentre imparavo a suonare. 

Scandagliare quei testi, resi ancor più significativi dalla musica che li accompagnava, era come studiare alla scuola, altrimenti inesistente, del nostro tempo. 

Quante volte mi sono chiesta chi fosse quel Bertoncelli che sparava cazzate e che gioia quando vidi un articolo con la sua firma e mi fu subito tutto chiaro.

Ogni canzone era un mondo da scoprire piano piano, entrando dalla porta della musica e aggirandosi poi tra le stanze delle parole. Il pensionato, il compleanno, vedi cara. 

Ad ogni ascolto coglievo un particolare in più, mi si apriva un nuovo significato. 

Qualche anno fa però mamma riuscì a sorprendermi quando, parlando di un tizio testadura con il quale ero arrabbiatissima, mi citò la frase “vedi cara è difficile spiegare, è difficile capire, se non hai capito già”. 

Se non hai capito già è tutto un mondo e chissà quanti altri ne ho lasciati indietro.

Poi c’era Giorgio Gaber. In quegli anni si vedeva spesso in televisione, naso aquilino, sorriso ironico e sguardo triste. Le canzoni che cantava in tv erano diverse da quelle che scoprii nel disco. Quelle in tv facevano ridere, le altre no. Le altre parlavano di sentimenti grandi, assoluti, ma in modo delicato. Erano intimiste, intelligenti, mai banali, facevano pensare. Nel dilemma c’è questa coppia che assiste alla fine del proprio amore scegliendo di morire. E te ascolti e riascolti perché ti pare impossibile, forse ho capito male, pensi, magari è solo una metafora. Certo, è una canzone.

Anche queste, come quelle di Guccini, dovevano essere ascoltate tante volte per entrare nella storia che raccontavano.

Ai tempi dell’università avevo un walkman dalle cuffiette di gomma piuma arancione, che mi portavo sempre nello zaino. Il walkman era un registratorino a pile delle dimensioni di un’agendina, praticamente una ventina di iPod messi insieme.

Gaber piaceva al gruppo di amici che frequentavo in quel periodo. Io mi estraniavo spesso, anche quando eravamo tutti insieme alla Costarella, per ascoltarlo. Ma capitava anche che dovessi passare il walkman a qualcuno di loro. 

Nel gruppo di Lettere c’erano Marta e Barbara, un ragazzo di Roma che mi chiamava a roscia e qualcun altro di Palermo che passava in Pantaneto, quando ancora si poteva, con la spider. O forse era quello di Roma, non so più. 

Una sera c’era Giorgio Gaber al teatro del Popolo, a Colle. Prendemmo i biglietti e andammo tutti insieme a sentirlo.

Marta disse che lo avremmo potuto invitare a mangiare con noi, a casa mia, dopo il concerto. Facemmo la spesa, pasta, pomodoro e vino. 

Finito lo spettacolo ci precipitammo nel camerino, dove lui stette a parlare con noi per un po’. Quando lo invitammo ero convinta che avrebbe detto sì. Invece disse che non era possibile. Gli sarebbe piaciuto tanto ma dovevamo capire che il meccanismo di uno spettacolo teatrale comprende tante persone, tempi già stabiliti e posti prenotati, anche per mangiare.

Ci dispiacque tanto. All’epoca, giovani come eravamo, capire certi meccanismi non era così scontato. Avevamo già pregustato di averlo con noi per il resto della serata, convinti che non avrebbe potuto dire di no all’offerta della nostra pastasciutta. Però fu davvero gentile e questo ce lo fece amare ancor più.

In ogni caso noi andammo a casa mia, buttammo la pasta e trascorremmo il resto della serata insieme, senza Giorgio Gaber ma come se ce ne fosse un pezzettino lì con noi. 

(Foto Pino D’Amico da Wikipedia)

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