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Diario della quarantena #3

Oggi ho dovuto fare un discorso alla Nazione. Sono salita su, e mentre Paola ripiegava i panni e mamma finiva di dare il cencio per terra, senza aspettare che finissero, ho parlato.
“Allora – ho detto – in questi giorni sono andata a fare la spesa, abbiamo i frigoriferi e le dispense piene. Abbiamo le pizze, i formaggi, gli affettati, la pasta, il riso, il pomodoro, le uova, le brioscine, i biscotti e i corn flakes, abbiamo il pane a fette nel congelatore. Sono andata dal dottore a prendere le ricette, ho fatto la coda in farmacia per prendervi le medicine più inutili ma che vi avrebbero fatto sentire sicure. Ho pensato, ecco, ora abbiamo tutto, possiamo stare tranquille in casa.
E invece no, oggi devo uscire per andare a prendervi arance e mele perché ne sono rimaste solo tre? In tempi come questi non vi pare possibile che per un giorno si possa stare senza qualcosa o si possa mangiare una cosa diversa ma che abbiamo in casa?”.
A dirla tutta il discorso è stato un po’ più colorito ma dato che nessuno l’ha registrato posso riportarne anche solo il succo, che è questo.

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Il fatto è che io sono l’unica di casa che guida l’auto, al momento, e quindi tutte queste incombenze toccano a me. Ma non me ne lamento. Solo che bisogna veramente comprendere la situazione e mettersi un po’ calmini. L’altra sera mia sorella se ne esce con un serafico “la prossima volta che vai a fare la spesa mi prendi le cioccolate Kinder che mi è venuta la nostalgia?”. Quella volta, almeno, ne siamo uscite con una risata.

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Sono anche l’unica, in casa, che ha una specie di raffreddore che non passa da più di un mese. E sì, lo so che è l’allergia al cipresso e all’ulivo. Ma allora nei due giorni di pioggia sarei dovuta stare meglio. E invece. Prima della chiusura delle attività sono stata anche cinque giorni in malattia. La dottoressa mi ha dato l’antistaminico e poi mi ha detto, ora il protocollo è così.
E ogni giorno a misurare la febbre. Due, tre, quattro volte. Col termometro al mercurio. Niente. Col termometro elettrico. Ancora meno. E a far la conta dei sintomi.

Finalmente ieri, rovistando nei cassetti, ho trovato un vecchio spray al cortisone scaduto da tre anni. Ma ha funzionato, e ora posso dire con certezza che è solo allergia.
Per la fortuna delle due criste di casa e anche mia, che poi, dopo, come ci convivi con una cosa così?

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Esco nella campagna intorno casa, quella zona agricola di pregio ormai da troppo tempo infestata di costruzioni abusive di cui pare non importi un accidente a nessuno (eccetto che a me) e mi prende una gran paura che, una volta che sarà finito tutto questo, quella roba orribile in mezzo ai campi coltivati, potrebbe non sembrare più nemmeno un problema.

(Colle Val d’Elsa, 28/03/2020)

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Diario della quarantena #2

In banca si entra uno per volta e su appuntamento. Arrivo in anticipo e aspetto fuori. C’è un signore che non riesce a entrare. “Ce n’è già uno dentro. Si deve aspettare che esca”.
Arriva una tipa, stivaletto grigio con tacco, jeans elasticizzato, piumino avvitato e borsetta griffata, mascherina, guanti in lattice.
“Non fate caso che entro, ma io ho l’appuntamento”.
“Sì, – dico – ma c’è il signore che aspetta da prima di lei”.
Lei suona il campanello, ma non le aprono.
Arriva un signore anziano, anche lui, come tutti (eccetto l’altro già in attesa) con il volto coperto da una mascherina.
Finalmente il cliente esce. E’ un ragazzone di colore, con la mascherina. L’anziano commenta il suo passaggio con un gestaccio del braccio.
Non mi trattengo. “Guardi che è una persona anche lui come chiunque altro”.
“Ah, non credo proprio…” dice il tizio.
“E comunque ci sono delle regole da rispettare” interviene stivaletto grigio.
“Fra l’altro – faccio io – in questa situazione pare che il contagio lo portiamo noi, non loro”.
Il tizio si surriscalda. Ha voglia di litigare. Le sue parole si perdono dietro la mascherina.
“Babbo, calmati” gli fa stivaletto grigio.
Non si calma.
Mi allontano, indosso un’espressione di ghiaccio e li ignoro.
Il tizio continua a inveire. La figlia cerca di calmarlo.
“Stai zitto, babbo”.
“Ma lei ha parlato (cioè io), potrò rispondere?”.
Finalmente entrano, lasciando dietro di loro una scia di parole inutili, di gesti di troppo, fuori luogo e ormai fuori tempo.

***

Tornando a casa, sulla strada sterrata mi attraversa una poiana in volo basso. Arriva dai campi sulla sinistra, si infila fra gli alberi spogli e passa di là, nei campi sulla destra. Continua a volare basso, bassissimo, finché non la vedo più. Lascia dietro di sé una scia di eleganza, un volo armonico, il colore sfumato delle sue grandi ali.

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Sulla stessa strada ogni tanto passa gente a passeggiare, da sola, con il cane. Forse è più corretto dire passava.
Fra questi anche un vecchio signore che ogni tanto si appoggiava, forse per la stanchezza, a un rialzo della terra, a una radice, a un tronco.
Da qualche settimana, all’inizio della strada, in una striscia di terra sul lato, sono sorti una panchina in legno e un tavolinetto.
Chiedo al vicino se li ha fatti per i suoi bambini.
“No – mi dice – è che qui passeggia spesso un vecchio signore albanese, e mi piangeva il cuore che non avesse un posto dove fermarsi a riposare”.
Le parole non servono.

(Colle Val d’Elsa, 26/03/2020)

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