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Il triste caso del cane Leo

Qualche anno fa abbiamo comprato un piccolo appezzamento di terreno sotto casa da uno straniero che sarebbe rientrato presto in patria. Finalmente si sarebbe risolto almeno il problema del suo cane, un pastore maremmano di cinque anni, trascorsi tutti abbaiando furiosamente attaccato ad una catena. 

Dopo una serie di incontri per trovare un accordo, il proprietario sembrava essersi deciso a portarsi via anche il povero cane. In realtà lui aveva provato in tutti i modi a convincermi che avrei dovuto prenderlo io, che un cane per stare in campagna mi ci voleva e ancor di più considerato che c’era qualcuno che mi voleva male e che urlava sempre contro di me. 

Quest’ultimo problema mi pareva più da affidare a un tribunale, come poi ho fatto, che a un cane. In ogni caso, quando il tizio mi comunicò la sua decisione di portare il cane con sé ne fui sinceramente felice, per lui e per il cane.

A proposito -, gli chiesi un giorno -. Come si chiama il tuo cane?

Eh, questo non posso mica dirtelo, rispose con aria misteriosa.

Ah no? E perché?

Perché se poi sai il suo nome puoi chiamarlo e portarlo via. Te lo dico solo se decidi di prenderlo.

Per fortuna anche questo aspetto si sarebbe risolto con il trasferimento del cane.

In realtà, per ingraziarmi il venditore, che affermava di essere indeciso se dare il terreno sotto casa mia a me o a due famiglie di zingari che ci avrebbero messo cavalli e cani da caccia, lo aiutai a fare una pratica che riguardava proprio il cane. 

Si era beccato una multa, dietro mia segnalazione tra l’altro, perché il cane, che abbaiava notte e dì (ma non da solo) non era microchippato né registrato all’anagrafe. Mi offrii di compilare il ricorso per lui e nell’occasione scoprii senza alcuna fatica che il cane rispondeva al nome di Leo.

Rispondeva per modo di dire.

Dopo aver formalizzato la compravendita dal notaio, lasciai l’ex proprietario libero di stare sul terreno fino al giorno della sua partenza, che si annunciava abbastanza complicata perché doveva organizzare il trasporto dell’auto, dei suoi effetti personali e del cane.

Passato più o meno un mese dall’acquisto del terreno, mi annunciò che durante il week end sarebbe venuto un grosso tir a caricare tutto, compreso il cane. Probabilmente ciò sarebbe avvenuto durante la notte, che non mi preoccupassi quindi per il rumore che avrei sentito.

Passato il fine settimana pensai che avevo il sonno proprio pesante perché non ero stata svegliata da nessun grosso tir. 

Però il cane Leo continuava ad abbaiare (non da solo). Stai a vedere che avevano rinviato la partenza. 

Il lunedì mattina scendo nel campo a vedere che succedeva. C’era il cane Leo, legato alla sua catena, che abbaiava come al solito, e il cancello era aperto. 

Scrivo un messaggio al tizio che mi dice che lui era già arrivato al suo paese. 

Bene, ma quando torni a riprendere il cane?

Non torno più.

Ma come?

Mi spiegò che la ditta di trasporti non aveva voluto prendere il cane con sé e che quindi, a malincuore, lo aveva dovuto lasciare lì.

Tanto a me faceva comodo avere un cane con la gente che mi voleva male e via dicendo.

Ecco, mi ero fatta raggirare bene bene.

E ora?

Intanto pensai a dare qualcosa a quella povera bestia che probabilmente non mangiava da due giorni. Notai nel capanno dei contenitori di crocchette richiusi con lo scotch. Presi la ciotola del cane. Era piena ma i croccantini erano tutti appiccicosi per la pioggia. La svuotai, la pulii e la riempii con i croccantini nuovi. 

Il cane mi abbaiava contro, tirando la catena, ma io stavo attenta a muovermi fuori dal suo perimetro di azione. Vidi un secchio con poca acqua. Mi avvicinai per prenderlo. Ebbi appena il tempo di vedere il cane che scattava con un grande balzo verso di me e di darmi alla fuga. Ma lui riuscì lo stesso ad azzannarmi il dorso della mano destra. Fortuna che indossavo i guanti da lavoro in pelle. Per cui me la cavai con un pizzicotto dolorante e un bel livido. Poteva andare decisamente peggio.

Però quel problema andava risolto, e anche al più presto. Non solo era diventato pericoloso avvicinarmi per dare da mangiare al cane. Ma chi mi garantiva che la catena avrebbe retto ai suoi balzi? Se avesse ceduto sarei stata finita, senza nemmeno starci a pensare.

Cominciai a fare una serie di telefonate, vigili, volontari, servizio veterinario. Ma ognuno mi rimbalzava all’altro. Il problema sembrava irrisolvibile. 

Il cane non era mio, quindi non potevo prendere decisioni in merito.

Eh, ma il terreno sì. 

Poi, il proprietario non lo aveva ufficialmente abbandonato (ah, no?) quindi non si poteva intervenire su un cane di proprietà con il padrone assente.

Provai a spiegare al proprietario che avrebbe dovuto chiamare il servizio veterinario e chiarire la situazione. Non credo che l’abbia mai fatto.

Però colse l’occasione per informarmi di un piccolo particolare.

Sul terreno aveva lasciato anche una gatta con i gattini, ma ormai avevano quasi due mesi e si sarebbero arrangiati da soli. In ogni caso suo figlio aveva già pensato a tutto e presto sarebbero venuti a prenderli per portarli da una signora. Ci aveva già parlato lui ed era tutto a posto.

Certo, da credere al cento per cento.

Nel frattempo c’era da risolvere un altro problema. Dare da mangiare ai gatti, grandi e piccini, mentre il cane Leo faceva tremare il capanno come un terremoto dalla voglia che aveva di addentarmi. 

Un vigile aveva anche ipotizzato che questa situazione l’avessimo concordata insieme, io  e l’ex proprietario, per forzare gli eventi. 

Grazie per la stima. 

Di cuore. 

(1 – continua)

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Addio a Marco

Ciao, pur abitando a Bologna da quasi venti anni, leggo le cronache dei giornali della provincia di Belluno perché ci sono nato e ho frequentato il liceo. Sono non vedente, mi sono appassionato dalla presentazione del tuo libro, l’ho acquistato, lo farò incidere e anche i non vedenti lo potranno acquistare.

Era il 23 maggio 2018 quando lessi questo messaggio su Messenger. Lo scriveva Marco De Vallier, un ragazzo che fino ad allora non avevo mai conosciuto. Fui sorpresa ed onorata dalla sua attenzione nei confronti del mio lavoro. In quel periodo avevo presentato La Guerra di Pietro a Belluno, nella bellissima libreria Mondadori di via Mezzaterra, dalla Edda con la mia amica Michela Canova.

  • Tu eri presente? 
  • Purtroppo no, perché io abito e vivo a Bologna. Ti ho ascoltata su Radio Belluno e visto che cerco di leggere i giornali, dove tu eri protagonista, ho colto la tua intervista. Leggerò il libro anche perché penso che sia un delizioso racconto. Poi abbiamo amici in comune tra i quali Mirko Mezzacasa.

Continuammo a scriverci, ipotizzando un incontro a Bologna, per conoscersi e parlare della registrazione del libro. A me avrebbe fatto piacere inciderlo con la mia voce, così avrei mantenuto l’intonazione toscana della storia. Marco sognava di poter prestare la sua voce a un personaggio maschile. Magari proprio a Pietro, del quale avrebbe potuto leggere le lettere riportate nel volume.

Ci risentimmo un anno dopo, in luglio.

  • Ciao, scusa se non mi sono fatto sentire in questi mesi, ma ho cambiato lavoro e le cose da fare sono state tante. L’audiolibro è già stato realizzato dal centro internazionale del Libro Parlato di Feltre, che forse anche tu conosci, essendo stata per molti anni a Belluno. Tutti gli utenti iscritti lo potranno richiedere. Io lo ascolterò al più presto e poi, se ci terremo in contatto, ti farò sapere. 

Non ho più sentito Marco, ma la sua presenza discreta mi ha fatto compagnia in questi anni grazie a qualche segnale sui social.

Poi qualche settimana fa, in una torrida giornata di agosto, scorrendo la stampa bellunese on line, sono rimasta colpita da un titolo.

“Soffocato da un boccone al ristorante, muore il figlio dell’ex sindaco di Rocca”.

Sotto, l’articolo e la foto del profilo Facebook di Marco, che aveva 41 anni e tante cose ancora da dire e da fare.

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La notte del fuoco

Una notte babbo e mamma furono svegliati da un clacson suonato a lungo sotto la loro camera. Abitavamo ancora in Campolungo e la stanza affacciava proprio sulla strada.

Aprirono gli occhi e videro la terrazza in fiamme. 

Bambine, sveglia, c’è il fuoco, il fuoco…

Mamma ci svegliò urlando.

Io e Paola non avevamo sentito niente. La nostra camera era dall’altra parte, verso i campi. 

Intanto il fuoco aveva fatto scoppiare i vetri e bruciato le tende. 

Uno schianto e cadde anche il travertino. 

Sulla terrazza c’era il serbatoio del kerosene, un bidone di ferro appoggiato su un rialzo. Il bidone era coperto, ma il livello di sicurezza era piuttosto scarso. D’altra parte, chi poteva immaginare che sulla terrazza di una camera da letto, in una tranquilla palazzina di tre piani, si scatenasse un incendio?

Corremmo sul pianerottolo con i nostri pigiamini. 

Babbo era in mutande. Mamma urlava, si agitava e ci spingeva.

Ma trovò il tempo di dirgli. 

Asvero, mettiti qualcosa per piacere.

Inascoltata.

In poco tempo gli altri inquilini uscirono dai loro appartamenti, chi in pigiama, chi in camicia da notte. 

Io dissi, bisogna chiamare i pompieri, e rientrai in casa. Il telefono era proprio nell’ingresso, su un mobiletto a sinistra. Mamma urlava, esci di casa Simona, vieni via.

I pompieri non riuscivano a capire dove fosse Campolungo. 

Babbo, sempre in mutande, intanto aveva organizzato una catena di portatori d’acqua. I vicini riempivano pentole e secchi e li depositavano all’ingresso di casa nostra. Babbo li prendeva e faceva avanti e indietro con la camera.

Alla fine l’incendio fu spento.

Dopo, arrivarono anche i pompieri, che avevano sbagliato strada.

I vicini poterono tornare a dormire e mamma e babbo si arrangiarono fra lo studio e il salotto.

Il giorno dopo saltammo tutti la scuola (mamma e babbo insegnavano). C’era da riprendersi dalla nottata e da fare la conta dei danni.

Il bilancio non fu poi così tragico. A parte la porta finestra della terrazza, completamente andata, come la cornice in travertino. I mobili della stanza e il letto si erano salvati. C’era soltanto da togliere la spessa patina nera lasciata dal fumo. 

Il serbatoio di kerosene non era stato toccato dalle fiamme e questo bastò per gridare al miracolo. 

Dopo scoprimmo che i vestiti negli armadi erano pieni di fuliggine e puzzavano di bruciato. 

Io mi portai dietro per diversi giorni dei puntini neri che non se ne volevano andare dalla faccia. A scuola, io ero in terza media Paola in prima, alcuni prof dissero che l’incendio non era una scusa valida per rimanere a casa.

Come era andata, lo sapevamo bene.

Mamma aveva dimenticato la termocoperta accesa dopo il riposino pomeridiano. Un cuscino che ci era rimasto appoggiato aveva soffocato il calore, provocando surriscaldamento e odore di bruciato. Coperta e cuscino finirono sulla terrazza, visto che fuori faceva un bel freddino. Purtroppo tirava anche vento e fu probabilmente a causa delle raffiche che da quella specie di incendio latente si svilupparono le fiamme, facendo bruciare la coperta e scoppiare l’allarme.

Alla fine, nonostante tutto, andò abbastanza bene e anche questo episodio entrò a far parte delle leggende di famiglia.

Credo che da allora però i vicini abbiano cominciato a pregare seriamente perché ci trasferissimo al più presto.

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Lo scherzetto di Gastone

La prima casa in cui ho vissuto a Belluno era un appartamento ricavato in un palazzo nobiliare in centro. Aveva il giardino, alti soffitti, il parquet a mosaico, un lungo corridoio e due stanzone, una a sinistra, camera e salotto, e una a destra, la cucina. Dalla cucina si entrava, attraverso un maestoso portone di legno a vetri, nello sgabuzzino, da cui si accedeva al bagnetto. 

Il conte mi aveva detto, quando ero andata a vederlo, non so se le piacerà, sa, è venuto un po’ strano. Pensi, io ci sono cresciuto in questa casa e oggi ne ho ricavato diciotto appartamenti.

Il bagno aveva delle finestrine orizzontali in alto che non si aprivano ma si affacciavano sul corridoio di uno studio legale.

Una volta capitò che Vanessa, uno dei miei due setter irlandesi, fosse in calore e mamma mi chiese di tenere Gastone a Belluno per qualche mese. 

Fu un periodo un po’ faticoso ma bellissimo. Io lavoravo tutto il giorno e Gastone se ne stava chiuso nell’appartamento. Però uscivamo in ogni ritaglio di tempo, la mattina presto, la sera tardi, a pranzo mi preparavo un panino e lo mangiavo passeggiando con lui.

Una domenica che avevo il giorno libero, con un’amica, decidemmo di andare a pranzo in un agriturismo. Avremmo portato anche Gastone.

La mattina mi feci la doccia e mi lavai i capelli. Era una giornata bellissima e io ero indecisa se asciugarli col phon o andare al sole in giardino. 

A un certo punto sentii un gran trambusto e la porta del bagno si chiuse con uno schianto. Gastone doveva aver fatto cadere qualcosa. 

Cercai di uscire per vedere che cosa ma la porta non si apriva. Spingevo ma niente, c’era qualcosa dietro che la bloccava. Da uno spiraglio di pochi centimetri provai a rimuovere l’ostacolo con un braccio, ma non ci riusciii. 

Potevo solo vedere Gastone che mi guardava scodinzolando.

Mi rassegnai a passare l’ora successiva in bagno, nel frattempo avrei potuto lasciare che i capelli asciugassero, poi sarebbe passata l’amica, che aveva una copia delle chiavi, e mi avrebbe liberato.

Il telefono era rimasto fuori dalla stanza, non c’era una finestra alla quale affacciarmi per chiedere aiuto a qualcuno, lo studio legale era chiuso. 

Non avevo molte possibilità.

Aspettai e aspettai, ma della mia amica nemmeno l’ombra.

Dal rintocco delle campane capii che ormai l’ora di pranzo era arrivata. Perché lei no?

Cominciai a perdere la speranza. Avrei trascorso tutta la domenica, il mio unico giorno libero, chiusa in un bagno di due metri per due senza poter mangiare, senza poter accudire il cane, aspettando il lunedì mattina nella speranza che qualcuno mi liberasse?

Aiuto!

Cominciai a gridare. Prima con tutto il fiato che avevo in gola, poi sempre con meno convinzione. Ormai era chiaro che ero rimasta l’unica in tutto il palazzo a trascorrere quella domenica di sole in casa.

Ero affranta. Ogni tanto mi imponevo di alzare la testa e gridare aiuto al nulla.

A un tratto però sentii una voce. 

Chi sei? Dove sei?

Il mio vicino del piano di sopra… 

Sono Simona, sono bloccata in bagno.

Fortuna che c’erano le finestre della cucina aperte, almeno sentiva qualcosa.

Come posso fare per entrare in casa?

Vai dalla mia amica, lei ha le chiavi.  

Aspettai ancora, ma stavolta era diverso.

Finalmente entrarono in casa, il vicino e l’amica, e mi liberarono. 

Era successo che il tenditoio appoggiato alla parete era caduto, forse per un movimento di Gastone o chissà che, andando a chiudere la porta del bagno. Nello stesso tempo era caduto dalla direzione opposta anche un piccolo scaleo che era andato ad incastrarsi con il tenditoio. Un intreccio inestricabile.

Gastone assistette alle operazioni di liberazione con la sua aria felice, saltellando e offrendo il capo per qualche carezza.

Quando tutto fu a posto ormai era un po’ tardi. Ringraziai il vicino. Che fortuna che quel giorno non avesse seguito la famiglia in montagna. Poi con l’amica decidemmo di andare a pranzo lo stesso. Trovammo un agriturismo che ci avrebbe accolte anche a quell’ora, noi e Gastone, e partimmo, decise a rimettere a posto quella domenica partita con il piede decisamente storto.

Ma tu poi perché non sei venuta a chiamarmi? Le chiesi.

Aveva litigato col fidanzato e aveva deciso di rimettersi a letto, dove, mi disse, avrebbe voluto passare il resto della giornata.

Senza la presenza provvidenziale del vicino in quel bagno ci avrei passato anche la notte.

Però con i capelli asciuttissimi.

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Quella volta a Lisbona

Quando mamma è andata in pensione le ho detto, ti porto a Parigi.

Al tempo vivevo a Treviso e lavoravo a Mestre facendo dei periodi di sostituzione al giornale. Quell’anno ne avevo già fatti due, uno per un’aspettativa e un altro per le ferie estive. 

Fissai il viaggio, albergo a Montmartre e volo Air France da Pisa, per ottobre, quando sarei stata libera. A metà settembre, poco dopo aver finito la sostituzione estiva, mi richiamarono, stavolta per una lunga malattia.

Oh no, devo andare a Parigi. Posso iniziare una settimana più tardi?

No, non è possibile. Così perdi l’intero contratto.

Messa davanti alla scelta se rinunciare al viaggio o al lavoro, decisi di lasciare il primo. Biglietti e prenotazioni però ormai erano stati pagati e non avrei potuto recuperare niente.

Così mamma andò lo stesso, ma con zia Carla.

Qualche tempo dopo ci riprovammo. Quella volta scegliemmo Lisbona.

Trovai la capitale portoghese di una bellezza quasi dolorosa. Gli azulejos, l’oceano, il Tago, i vicoli della città vecchia e la foto con la statua di Ferdinando Pessoa. Le pasticcerie. L’emozione quasi violenta di attraversare la rua Augusta e sbucare d’improvviso nella Praca do Commercio.

Un giorno andammo a visitare la Torre di Belem. Era un po’ fuori, per cui prendemmo un bus. All’andata ci fermammo al Monastero dos Jerònimos dove scoprii l’esistenza di un’arte definita manuelina, che lì per lì mi faceva anche un po’ sorridere, giusto per il nome. In realtà era un tardo gotico in salsa marinara.

Dopo il monastero camminammo sotto il sole battente per una decina di minuti e raggiungemmo la Torre. Ci fermammo a mangiare a una specie di mensa universitaria lì vicino. 

Sulla strada del ritorno ci mettemmo ad aspettare il bus in una piazzola poco distante, completamente deserta. 

Quando arrivò l’autobus, poco prima che salissimo, si materializzarono spuntando da non so dove delle figure maschili. Uno salì sull’autobus e si piazzò a gambe larghe e braccia conserte sull’entrata, rivolto verso di noi. Il tizio in pratica ci impediva di salire sul bus, per cui gli chiedemmo per favore di spostarsi, mentre gli altri nel frattempo ci spingevano da dietro.

Riuscimmo finalmente a salire e d’un tratto quegli uomini non c’erano più. 

Mi appoggiai al finestrino e tolsi dalle spalle lo zainetto nero Invicta.

  • Oddio, è aperto. Mamma, mi hanno derubato!

Razzolai freneticamente dentro alla borsa. La macchina fotografica c’era, il borsello con soldi e documenti c’era. C’era tutto. Ma allora?

Facendo mente locale scoprii che una cosa mancava, in effetti. Un borsellino rettangolare di maglia metallica dorata. Era pieno di assorbenti.

Mi venne da ridere al pensiero di quella banda di omacci che, dietro agli alberi, si chinavano sul bottino per contare quanto avevano fatto a mie spese.

La sera poi scrissi un sms ad un amico raccontandogli la disavventura. 

Mi rispose: hai messo in conto di fare una deviazione fino a Fatima?

Perché?

Vista la fortuna…

Ma non hai capito, in realtà sono stata fortunatissima. 

Avrebbe potuto andarmi meglio di così?   

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Cari tassi, ufficialmente vi odio

E’ ufficiale, odio i tassi. Da oggi.
E non per quella buca nuova che hanno fatto proprio stanotte o per quelle due o tre della notte precedente.
No, è che i tassi si sono mangiati Gattaccio.
Hanno spostato i sassi che avevamo messo sopra alla tomba, hanno ignorato il cactus che mamma, povera illusa, credeva avrebbe tenuto lontani gli animali, hanno scavato.
E ora non rimane niente. Solo la copertina rossa nella quale era avvolto.
Gattaccio l’avevo messo su in alto, che vedesse tutto il campo di sotto. Lui era un grande e quello era il suo posto.
Non era la prima volta che qualche animale scavava. La volta prima lo avevamo trovato giù di sotto, e la coperta strappata da qualche unghiata. Un tasso, senza dubbio.
Ma lui lo avevano lasciato stare.
Questa volta invece non è rimasto niente.
E lo so che era solo un corpicino e che sarebbe tornato alla terra, con il tempo, ma questo sgarbo, cari tassi, non glielo dovevate fare.
A Gattaccio, santiddio. Il gatto che aveva perso la coda, forse stritolata da una tagliola. O forse rimasta tra le fauci di un tasso, anche questo potrebbe essere.
Il gatto che dopo una vita da fiero randagio aveva trovato una famiglia, la nostra, ed era diventato il più fedele di tutta la masnada felina.
Il gatto che accompagnava la mia sorella a prendere l’acqua e a fare qualche passo intorno casa.
Il gatto che appena trovava la porta aperta entrava in casa per poi attendere che qualcuno la riaprisse e schizzare via come se non aspettasse altro.
Il gatto che quando l’avevo portato dalla veterinaria per i primi controlli e i vaccini dopo l’operazione della coda e la castrazione si era scoperto positivo a Fiv e Felv.
Povero Gattaccio. Pensare a lui continua a stringermi il cuore, per come ha vissuto e per come se ne è andato, lui e il suo grosso capone, ormai ridotto uno scheletrino.
No, cari tassi. Questa non gliela dovevate fare.

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L’amica inaspettata

Sempre al solito corso di Estetica c’era una ragazza, Silvia si chiamava forse, un po’ più grande di noi.

Il modo di vestire, il rapporto diretto e confidenziale con i prof, il suo essere distante anni luce da noi, suscitavano, almeno in me, un sentimento di una certa avversione nei suoi confronti.

Lei però rideva e parlava con tutti, con il suo nasino a punta, il viso affilato e i capelli neri, che qualche volta portava raccolti.

Non ricordo come e quando avvenne, forse fu dopo la cosiddetta lezione che io e L. tenemmo agli studenti del corso di Estetica, ma in qualche modo diventai amica di Silvia.

Un giorno mi invitò ad andare a trovarla a casa sua. Così la mia iniziale avversione non tardò a tramutarsi in ammirazione.

Silvia abitava in un appartamento in piazza del Campo, una torretta dalle parti del Casato, la via da dove entrano i cavalli del Palio.

Non potevi non notarla, quella torretta con due finestroni come gli occhi di Titti il canarino, guardando il cerchio di case che affacciano sulla piazza, e non potevi non chiederti chi fosse tanto fortunato da vivere proprio lì.

Quel pomeriggio dunque suonai il campanello e salii le scale fino lassù. Non credo di essere stata sola. È più che possibile che con me ci fosse proprio L.

Silvia stava con un lettore di tedesco dell’università e da poco aveva avuto un bambino.

Guardavamo lo spettacolo della piazza dall’alto, pieni di meraviglia, mentre Silvia ci offriva il tè e ci raccontava della sua gravidanza.

Quando partorisci, disse, non è che senti male. Senti Il Dolore, una cosa assoluta che sai non proverai per niente altro al mondo. Ma quando vedi tuo figlio passa tutto ed è solo gioia.

Non ho mai avuto bambini, ma questa frase di Silvia mi è rimasta talmente stampata dentro, che credo di averla ripetuta almeno cinquanta volte ad altrettante amiche partorienti.

Del resto delle cose dette quel pomeriggio, invece, mi è rimasto un ricordo piuttosto vago.

Lei che preparava la tesi in Estetica con Olivetti, il marito imbarazzato dalla nostra presenza, il bambino con i riccioli biondi.

Non mi pare che ci sia stata una seconda volta nella torretta, o se c’è stata, la mia memoria la riassume in un unico pomeriggio.

Silvia l’avrò incontrata di nuovo fra i corridoi di via Fieravecchia e nel palazzo di Sant’Ansano, come capitava un po’ con tutti. E poi, come è capitato con molti conosciuti in quei tempi là, l’ho persa di vista.

Qualche tempo dopo chiesi notizie di lei, non ricordo a chi.

Ma come, non l’hai saputo? Mi dissero.

Silvia è morta.

Oddio, ma che cosa è successo?

Forse un intervento chirurgico riuscito male, forse un malore improvviso.

E il marito, e il figlio?

Chissà, saranno andati a stare in Germania.

E io ci penso ancora, e ho davanti agli occhi l’immagine di Silvia, sbiadita come quelle ombre, una volta persone, fissate sui muri dall’esplosione atomica.

Che non si sa abbastanza, di loro, e mai potremo saperne di più.

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Vita morte e misteri di una sanseveria

Lunga attesa fuori da un ufficio sanitario.

Squilla una suoneria, signora anziana risponde al telefono.

Si ode in lontananza voce femminile agitatissima.

  • Ma quale pianta? Dice l’anziana.
  • Ah, ho capito. La sanseveria che tenevi in salotto.

La voce dell’altra continua a riverberare in sottofondo.

  • Si vede che l’hai innaffiata troppo e l’hai fatta morire…
  • No, non la devi innaffiare per niente d’inverno.
  • Tranquilla. Ha le foglie talmente grasse che non secca. Fidati, io fo così.
  • D’estate è un’altra cosa. D’estate la porto fuori e la bagno ma d’inverno nemmeno una goccia. Devi sentire la terra secca secca.
  • Non muore, no.
  • Pensa che io avevo levato una foglia che mi pareva quasi morta e l’avevo messa fuori su quel mobilino vicino alla porta. Poi me l’ero dimenticata. Ci credi che dopo mesi l’ho trovata ancora bella grassa?
  • Eh, allora l’ho ripiantata. L’ho fatta tutta a pezzettini e li ho posati sul terriccio. Certo che ricrescono. Io le sfoltisco, non mi garbano quando le foglie sono tutte fitte.
  • Fra l’altro dicono che è una di quelle piante che purificano l’aria, bisognerebbe sempre tenerle in casa. In camera, anche meglio.
  • Vedrai, che vuoi fare? Ora levi la terra, che sarà tutta marcia, e la rimetti asciutta. Magari ti riprende.
  • No, sono sempre qui in fila. È già più di un’ora che aspetto.
  • Va bene. Mi raccomando, fai come ti ho detto, che poi passo a vederla.

Certe volte l’attesa è anche meglio di quando arriva il tuo turno.

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Il libro (e l’amico) ritrovato

È successo questo. Sono uscita per un lungo tour banca-dottore-supermercato con spesa di oltre 50 euro per riscuotere un buono sconto.
Appena posteggiato, sbirciando il telefono, ho visto un messaggio.
Ciao sono L. appaio dal tuo passato per restituirti questo.
L. è un amico dell’università che si è trasferito altrove.
Già in questi giorni l’ho pensato tantissimo a causa del ritrovamento di un appunto di quei tempi là con tutta una storia che mi piacerebbe anche raccontare, però era veramente da tanto che non ci si sentiva.
E questa cosa che mi voleva dare io non mi ricordavo né di averla avuta, né di avergliela prestata.
Era una copia dell’ultimo libro di Romano Bilenchi, Il gelo, con dedica autografa al mio babbo. Data: 1983.
Un po’ mi son sentita figlia ingrata, presto cose altrui e poi non me ne curo.
Che se penso invece a chi non mi ha restituito Il giovane Holden e La collina dei conigli, ancora ribollo.
Poi ho pensato anche, che persona questo L., Che passa un giorno da casa dei suoi, ritrova il mio libro e mi contatta per ridarmelo.
Avrebbe potuto tenerlo, avrebbe potuto far niente.
E invece ci siamo visti, ho saputo della sua vita, ho riannodato qualche ricordo. L’ultima volta che l’avevo visto fu al teatro dei Varii anni fa. Un’altra volta ho conosciuto un suo amico e abbiamo parlato di lui e nessuno credeva che lo conoscessi davvero perché era successo tanto tempo prima quando faceva cose che loro nemmeno sapevano.
L. è un artista. Suona e fa anche altro e sta in quella fascia dell’atmosfera un po’ sopra a quella dove respiriamo noi. Per questo lo sento come se fosse inarrivabile e quello che è successo oggi è stata, alla fine, una grande, immensa, inimmaginabile, esplosione di gioia.

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Il mistero della tessera scomparsa

Per la rubrica:
Cose che succedono solo a me.
Vado alla Usl a ritirare dei risultati per un prelievo effettuato il 16 dicembre. C’ero già stata due settimane fa.
Allora mi dissero.

  • eh, ma ci vuole almeno un mese.
  • infatti, è passato un mese
  • le do un consiglio. Torni fra due settimane.
    Torno.
    Solita attesa, solito ingresso contingentato.
    Al banco un ragazzo che conosco.
    Gli consegno la tessera sanitaria e lui controlla al computer.
  • ma quando le hai fatte queste analisi?
  • il 16 dicembre (ndr, 41 giorni fa)
    Voce fuori campo:
  • eh, ma per quelle deve aver pazienza, ci vuole almeno un mese.
    Fatti i conti, si ripete il teatrino della volta scorsa. Telefonata in laboratorio a Siena, i miei dati ripetuti ad alta voce a beneficio degli astanti.
    Tipa che dopo aver buttato giù il telefono, anziché darci la risposta, si allontana richiamata da un nuovo problema sopraggiunto.
    Attendo.
    Dopo un bel po’ la tipa di eh ma ci vuole almeno un mese mi porta la buona novella.
  • guardi, ci deve essere stato un problema con le spedizioni. Comunque a Siena ce le hanno. Ora ce le mandano per email e gliele stampiamo. Si sieda là che la avvisiamo noi.
    Attendo. Faccio un giochino sul telefono, parlo con un conoscente, rifaccio il giochino sul telefono.
    Arriva la busta con le analisi.
  • la tessera gliela abbiamo già restituita, vero?
  • no
  • aspetti qua
    Attendo. Gente arriva, ritira i propri risultati, prenota visite e va via. E io lì, in attesa della tessera.
    Mi avvicino allo sportello.
  • signora, deve avere pazienza.
    Dice la tipa del eh, ci vuole almeno un mese.
    Dico al ragazzo che conosco
  • scusa, me la passi la tessera che così me ne vado. Devi avercela tu
  • in realtà è sparita.
  • era sul bancone, se la deve essere presa la signora dopo di te. Stiamo cercando di contattarla al telefono ma non risponde.
    Ma io dico.
    Se a qualcuno dovesse essere accaduta una cosa più idiota di questa si faccia pure avanti, lo sfido a duello.
    (Dopo mi hanno telefonato.
  • abbiamo trovato la signora, dice che la riporta domani. Ma ormai ti richiamiamo quando la tessera è qua)

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