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Diario della quarantena #1

Oggi non mi hanno fatto entrare in ospedale. “Lei chi sarebbe, scusi?” mi ha chiesto l’infermiera al check point.”Sono la figlia”. “Allora non può entrare, aspetti fuori”. “Va bene, mamma. Vado in macchina, ti aspetto lì”.”No, guardi. Si metta pure seduta sulle sedie, qua fuori”. Nel corridoio, al buio, cinque seggioline in fila. Una era già occupata da un signore corpulento, con mascherina di ordinanza. Sono andata in macchina. A gennaio andai da sola alla visita in ortopedia e ogni infermiera si sentiva in diritto di cazziarmi perché non ero accompagnata. Le cose che cambiano.


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Dal dottore è lo stesso. Le battaglie che ho fatto con l’infermiera, quella più antipatica, ogni volta che telefonavo per ordinare la ricetta del solito farmaco per il mal di testa. “Le ricette sono una cosa delicata, deve portarmi la richiesta di persona. Queste sono le disposizioni”. Allora facevo chiamare mamma, per lei le disposizioni non valevano.

Ora, che andare dal medico è anche più semplice perché in giro non c’è nessuno e i posteggi sono tutti liberi, le ricette si ordinano per telefono e meno ci vai, in ambulatorio (dove peraltro nemmeno ti fanno entrare) e meglio è.


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Una delle (poche) cose belle di questa pandemia è la distanza personale. Mi chiedo come fanno quelle persone che prima stavano sempre appiccicate al prossimo, tocchicchiandolo. O quelli che quando ti metti in fila ti si incollano dietro e tu chiedi aiuto alla tua grossa borsa, spostandogliela sempre un po’ di più addosso, per ricreare una minima distanza.

Quando i divieti di ora erano solo consigli, ero in un istituto sanitario a prendere un macchinario per mamma. Mi sono seduta davanti al bancone a una certa distanza dall’operatrice. Poi è arrivata una tipa e si è messa in mezzo. Stava in piedi e fissava i fogli che l’impiegata stava riempiendo. Io la fissavo, sperando che capisse, ma lei fissava i fogli. L’impiegata le dice che ne ha per un po’ e che dovrà aspettare. Lei dice, va bene, aspetto. Ma non si schioda da lì. Io sposto il mio zaino verso di lei, per mangiarle dello spazio. Niente. “Comunque può aspettare anche più in là, eh” le dico, alla fine. Mi guarda stupita. “Perché, che problema c’è?”. “Magari la privacy”. “Ma pensavo che qui si era tutti fra noi”. Si è allontanata brontolando che a lei non gliene importava mica niente delle cose mie, che mi credevo, e lei ne aveva già tanti di suo di problemi che figurati se si metteva a pensare anche a quelli degli altri.


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Fino a ieri avevo un punto di orgoglio. Il mio frigorifero era sempre vuoto. C’erano solo le cose essenziali. Cibo fresco e niente sprechi. Da quando sono diventata la cuoca ufficiale di casa (dopo la frattura di mamma a entrambi i piedi) qualcosa in più c’era entrato, ma sempre con molta misura.

Ieri invece mi sono trovata per la seconda volta in fila fuori dal supermercato (la spesa on line l’hanno scoperta in troppi e non si riesce più ad entrare nel sito), con guanti e mascherina, una lista infinita di cose e la paura di arrivare al punto di non poter comprare più cibo. Mi son trovata a buttare a caso formaggi e affettati nel carrello, con la sola logica dello sconto. Biscotti, brioscine, acqua, patate e cipolle, insalate e pomodori. Pollo, latte, uova. Di riso ne era rimasto solo un pacco. La farina, scomparsa. Ho comprato otto pagnotte che la sera, diligentemente, ho tagliato a fette, distribuite in sacchettini ermetici e riposte nel congelatore (quello di mamma, tristemente vuoto). Ho sempre odiato il cibo congelato e non compro surgelati per principio. Ho dovuto cambiare anche questo. 

(Colle Val d’Elsa, 24/03/2020)

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Le distanze al tempo del Coronavirus

Dal dottore si entra solo su appuntamento. Nessuno può stare in sala d’attesa. “Aspetti fuori, che è meglio” dice un’infermiera dalle scale alla paziente. “Intendo in strada, – precisa -, tanto la chiamiamo noi”.
Per ritirare le ricette è stato allestito un piccolo tavolo sul ballatoio fra gli ingressi degli studi medici. Qui due infermiere, con camice monouso e mascherina sul volto, distribuiscono i preziosi foglietti allungandosi sulle scale. Nessuno sale, a meno che non sia atteso dal medico.
“Stop, si fermi lì” mi intima l’infermiera quando sto per raggiungere il pianerottolo di mezzo. Dice lo stesso a una donna che sale le scale dopo di me, ma quella continua fino ad arrivarmi alle spalle. “Ferma, le ho detto”. Ripete l’infermiera. La tipa sembra non capire. Mi giro. “Distanza!” le dico, allargando le braccia, alle volte non cogliesse appieno il concetto. Eppure mi pare di essere bersagliata di notizie e avvertimenti ovunque mi giri. Mi chiedo come sia possibile che ci sia qualcuno che ignora la situazione.
A me non sembra vero che ci sia addirittura una legge che impone alla gente di non starti appiccicata come un pappagallo da spalla. Peccato essere dovuti arrivare a tutto questo per ribadire concetti come il rispetto dello spazio altrui.
Per darmi la ricetta l’infermiera scende alcuni scalini e allunga il braccio. Lo allungo anche io, finché avviene il miracolo.
Me ne vado con la ricetta in mano.
In farmacia si entra uno per volta. Ingressi contingentati, dicono. Si attende fuori, all’aperto. In fila. “Chi è l’ultimo?”.
Non tutti lo chiedono e a me sembra di vedere anche in questa situazione il solito furbetto che facendo finta di non capire ti passa avanti. A me no di certo. Che con questi furbetti ho ormai ingaggiato da tempo la mia lotta personale.
No pasdaran.
“Bravi – dice un signore alto e magro con il volto coperto dalla mascherina – state così, distanti l’uno dall’altro e quando esce uno entrate uno per volta”.
“E quello chi è?” chiede a voce alta un’attempata signora bionda con un lungo cappotto azzurro di lana bouclé dal quale fuoriescono sgallettanti gale in tono.
La riconosco. E’ lei la furbetta che facendo finta di niente cercherà di passare avanti. Mentre ognuna delle persone occupa il suo posto in fila, a debita distanza l’una dall’altra, la bionda incappottata dondola, fa un passetto avanti, uno di lato. E’ chiaro che vuole conquistare una posizione che non le spetta. Niente di nuovo.
Arriva il mio turno. I farmacisti sono bardati come i ricercatori del Coronavirus in laboratorio. Fa un certo effetto. Sul bancone un nastro marrone segna la linea di demarcazione con i clienti.
Se fino a due settimane fa cercava di venderti trattamenti e medicamenti, spiegandoti nei dettagli i loro effetti miracolosi, oggi il farmacista vuole una cosa sola. Che tu esca il prima possibile.
“Non ha da pagare niente”, mi dice con tono frettoloso mentre prendo il portafoglio. “Veramente volevo chiederle se fossero già arrivati questi farmaci, altrimenti devo tornare domani”.
Controlla. “No, buonasera”.
Esco più velocemente che posso. Non appena mi giro vedo il cappotto azzurro bouclé che attinge al flacone di liquido disinfettante posizionato all’ingresso, come a una acquasantiera.
Non ce l’ha fatta a passare avanti a nessuno, credo, ma la soddisfazione di entrare prima del suo turno in ogni caso non se l’è fatta scappare.

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