La mattina del 15 settembre 1996 stavo dormendo nella mia casa di Treviso, era domenica e non lavoravo, quando squillò il telefono. Era la mia amica Raffaella.
“Sono a Venezia in gita con il mio babbo. Ci si vede?”.
Saltai su per la sorpresa. Mi preparai in fretta e furia, salii sulla macchina e guidai fino a Venezia.
In realtà quel giorno, quella era l’unica città in cui non sarei voluta essere.
Era da mesi che ne scrivevamo. Quello era il giorno in cui Umberto Bossi sarebbe arrivato in barca dopo aver navigato lungo il Po per dichiarare l’indipendenza della Padania. Il rito, per il quale erano state scomodate persino le divinità celtiche, sarebbe consistito nel versare da un’ampolla l’acqua del grande fiume nel mare Adriatico, a suggello dell’unione di tutte le terre toccate da quelle acque.
Una pagliacciata che precedeva di alcuni mesi l’assalto al campanile di San Marco (9 maggio 1997), e che si sarebbe ripetuta per diversi anni. Quella era la prima volta. E io avevo avuto la fortuna di essere di corta.
Venezia, già strapiena di turisti, doveva sopportare anche l’assalto dei leghisti, giunti da ogni dove per celebrare il sacro evento.
Mentre camminavamo per le calli, io e Raffaella trascinate dalla folla, ci ritrovammo in Riva dei Sette Martiri, proprio dove erano attesi il Senatùr e la sua sacra ampolla.
Era pieno di gente che sventolava bandiere della Lega Nord.
In acqua i barchini dei fotografi e quelli degli operatori televisivi erano già appostati, nell’attesa del barcone reale.
Io vedo uno dei nostri fotografi e lo saluto sbracciandomi. Ci scambiamo delle battute urlando, per sovrastare il rumore della folla e dei motori. Lui mi fotografa senza che io me ne accorga.
Il caso vuole che il mio sbracciarmi, nell’attimo dello scatto, vada a coincidere con lo sventolamento di una bandiera enorme da parte di una camicia verde, subito dietro di me.
Ricordo ancora le prese in giro dei colleghi, qualche giorno dopo, quando la foto arrivò in redazione.
Per la cronaca, io sono quella vestita di marrone, gonnellina e magliettina, nell’anno della mia magrezza, che sembra sventoli la bandierona. Quella in maglia gialla alla mia sinistra è Raffaella. Quanto io fossi scalmanata lo si intuisce dallo sguardo della tipa in maglia bianca accanto a me, che sventola una bandiera più piccola. In realtà tengo solo un giubbottino di jeans sul braccio sinistro.
Insomma Raffa, alla fine ci siamo trovate a fare parte della Storia anche noi.
Quando entra in ballo, la mia immotivata fiducia nel mondo e nelle persone è difficile da tenere a bada.
Così ho prenotato. Una notte in centro storico a Venezia, a trentacinque euro o giù di lì.
Un’occasione. Già mi pregustavo l’ultimo giretto notturno fra le calli dopo la cena al ristorante. Il sonno ristoratore in quella bella stanzetta con le pareti tinteggiate di arancione come il piumino del letto. Colori, luce e il calore di un’antica casa veneziana.
Già mi immaginavo l’accoglienza di Yasia, sicuramente una studentessa universitaria che subaffittava una stanza per arrotondare le spese veneziane. Avremmo scambiato due chiacchiere in inglese, o magari perfino in italiano, facendo colazione la mattina dopo.
Il treno è arrivato in orario nel tardo pomeriggio. Le indicazioni per arrivare alla casa spiegavano dove prendere il battello o il taxi giusto. Io decido di non perdermi l’occasione di una camminata serale in una Venezia svuotata dai turisti.
Il primo problema è il trolley, una valigetta piccola e leggera con le ruote in plastica, troppo rumorose per le silenziose calli veneziane. Cerco di alternare il trascinamento, portandolo a mano per la maggior parte del tratto.
Secondo problema. Il mio ormai offuscato senso dell’orientamento che fu, reso ancora più appannato dal complicato labirinto veneziano.
Io so qual è la direzione da seguire, ma questo non mi impedisce di perdermi e di chiedere conseguentemente per una ventina di volte indicazioni per l’Accademia.
Intanto trascino il trolley per due metri e lo porto a mano per cento, sempre attenta, da orecchio sensibile quale sono, a non urtare altre orecchie sensibili.
L’umidità che sale dalla laguna, insieme al sudore dovuto alla fatica e al piumino, si gela sui capelli e sul viso.
Alla fine arrivo nella calle giusta. Mentre cerco di decifrare il complicato sistema della numerazione civica veneziana, un ragazzo indiano si affaccia da una porticina di legno.
“Sei Yasia?”
Pare di sì. Prima delusione.
Mi fa cenno di entrare. L’aria dell’angusto ingresso è satura dell’odore di lisoformio. Seconda delusione.
Armeggia fra dei fogli e mi chiede in un quasi inglese se sono Elena.
Addio camera subaffittata in appartamento di studente. Qui c’è una specie di residence, altroché. Terza delusione.
Saliamo una ripida scala di legno per arrivare alla camera. Una stanza stretta, gelida come l’esterno di un igloo.
Mi indica un piccolo radiatore elettrico che non riscalderebbe nemmeno un armadio, facendomi capire orgoglioso che è addirittura acceso. Quarta delusione. Se non ho perso il conto.
Mentre il tipo mi spiega come aprire la finestra e chiudere gli scuri, lo sguardo mi cade sulla lampadina orfana di plafoniera e sulla testata del letto in simil pelle bianco panna.
Quella che in foto appariva come una stanza accogliente e dai colori caldi, è oggettivamente un ammasso casuale di mobilia squallida. Come i poggia colonna traballanti colore noce al posto dei comodini, o la toelettina bianca in stile veneziano tarocco.
Il bagno? Ah, è fuori.
Ah, è in condivisione. Nell’annuncio c’era scritto privato, ma faglielo capire a questo. Tanto poi, per quel che vale.
Chi c’è nell’altra camera, un uomo o una donna?
City taxi, three euro.
No, no, guardi, non ne ho bisogno. Tanto mi muovo a piedi. Ma chi sono i vicini, female or male?
City tax, three euro.
Non ho bisogno del taxi grazie. Scandisco: woman or man?
City tax, three euro, ripete Yasia come una macchinetta.
Mi si apre improvviso un barlume. Ah, la tassa turistica. Certo, glieli do subito.
Sui vicini nulla è dato sapere.
Check out, at ten in the morning.
Certo, anche prima.
Check out, at ten in the morning.
È partito un altro disco.
Finalmente Yasia se ne va.
Rimango sola nella stanza gelida. Confido nel piumone arancione. E in quel cappottino di lana in più che oculatamente ho infilato in valigia all’ultimo minuto.
Cara Venezia, ora dovrei aver imparato come funzionano le cose su da voi.
La prossima volta prenoto direttamente al Danieli.
