Archivi tag: ospedale

Diario della quarantena #1

Oggi non mi hanno fatto entrare in ospedale. “Lei chi sarebbe, scusi?” mi ha chiesto l’infermiera al check point.”Sono la figlia”. “Allora non può entrare, aspetti fuori”. “Va bene, mamma. Vado in macchina, ti aspetto lì”.”No, guardi. Si metta pure seduta sulle sedie, qua fuori”. Nel corridoio, al buio, cinque seggioline in fila. Una era già occupata da un signore corpulento, con mascherina di ordinanza. Sono andata in macchina. A gennaio andai da sola alla visita in ortopedia e ogni infermiera si sentiva in diritto di cazziarmi perché non ero accompagnata. Le cose che cambiano.


***

Dal dottore è lo stesso. Le battaglie che ho fatto con l’infermiera, quella più antipatica, ogni volta che telefonavo per ordinare la ricetta del solito farmaco per il mal di testa. “Le ricette sono una cosa delicata, deve portarmi la richiesta di persona. Queste sono le disposizioni”. Allora facevo chiamare mamma, per lei le disposizioni non valevano.

Ora, che andare dal medico è anche più semplice perché in giro non c’è nessuno e i posteggi sono tutti liberi, le ricette si ordinano per telefono e meno ci vai, in ambulatorio (dove peraltro nemmeno ti fanno entrare) e meglio è.


***

Una delle (poche) cose belle di questa pandemia è la distanza personale. Mi chiedo come fanno quelle persone che prima stavano sempre appiccicate al prossimo, tocchicchiandolo. O quelli che quando ti metti in fila ti si incollano dietro e tu chiedi aiuto alla tua grossa borsa, spostandogliela sempre un po’ di più addosso, per ricreare una minima distanza.

Quando i divieti di ora erano solo consigli, ero in un istituto sanitario a prendere un macchinario per mamma. Mi sono seduta davanti al bancone a una certa distanza dall’operatrice. Poi è arrivata una tipa e si è messa in mezzo. Stava in piedi e fissava i fogli che l’impiegata stava riempiendo. Io la fissavo, sperando che capisse, ma lei fissava i fogli. L’impiegata le dice che ne ha per un po’ e che dovrà aspettare. Lei dice, va bene, aspetto. Ma non si schioda da lì. Io sposto il mio zaino verso di lei, per mangiarle dello spazio. Niente. “Comunque può aspettare anche più in là, eh” le dico, alla fine. Mi guarda stupita. “Perché, che problema c’è?”. “Magari la privacy”. “Ma pensavo che qui si era tutti fra noi”. Si è allontanata brontolando che a lei non gliene importava mica niente delle cose mie, che mi credevo, e lei ne aveva già tanti di suo di problemi che figurati se si metteva a pensare anche a quelli degli altri.


***

Fino a ieri avevo un punto di orgoglio. Il mio frigorifero era sempre vuoto. C’erano solo le cose essenziali. Cibo fresco e niente sprechi. Da quando sono diventata la cuoca ufficiale di casa (dopo la frattura di mamma a entrambi i piedi) qualcosa in più c’era entrato, ma sempre con molta misura.

Ieri invece mi sono trovata per la seconda volta in fila fuori dal supermercato (la spesa on line l’hanno scoperta in troppi e non si riesce più ad entrare nel sito), con guanti e mascherina, una lista infinita di cose e la paura di arrivare al punto di non poter comprare più cibo. Mi son trovata a buttare a caso formaggi e affettati nel carrello, con la sola logica dello sconto. Biscotti, brioscine, acqua, patate e cipolle, insalate e pomodori. Pollo, latte, uova. Di riso ne era rimasto solo un pacco. La farina, scomparsa. Ho comprato otto pagnotte che la sera, diligentemente, ho tagliato a fette, distribuite in sacchettini ermetici e riposte nel congelatore (quello di mamma, tristemente vuoto). Ho sempre odiato il cibo congelato e non compro surgelati per principio. Ho dovuto cambiare anche questo. 

(Colle Val d’Elsa, 24/03/2020)

Lascia un commento

Archiviato in coronavirus

Io giro da sola (anche in ospedale, sì)

“Scusi, ma lei non ha nessuno che la accompagna? Lo sa che in casi del genere non si viene mai soli?”.
Il caso del genere sarei io con un piede ingessato e le stampelle che, seduta su una sedia a rotelle, devo spostarmi tra una zona e l’altra dell’ospedale. In ogni reparto in cui passo arriva puntuale la brontolata dell’infermiera di turno.
La stessa frase mi è stata detta dalla biondina col viso dolce dell’ortopedia, ripetuta dalla moretta severa di radiologia, per risentirla qua e là durante il percorso fra la fisioterapia e l’accettazione.
Che poi, sola. Mi hanno accompagnato e mi verranno a riprendere. E a dire il vero sono stata io a dire che non si fermassero, che me la sarei cavata. Insomma, non è che tutti gli amici hanno due o tre ore da spendere a spingere la tua carrozzella da una stanza all’altra. Poi, dico io, c’è gente che in carrozzella ci vive e si sposta da sola, perfino guidando l’auto. Vuoi che io per qualche ora, fra l’altro dentro un ospedale mica in mezzo a una strada, non riesca a farcela?
Ho imparato a far la faccia di tolla. A ogni infermiera ululante faccio finta di niente. Penseranno che sono ottusa, poco intelligente. Pensino quello che vogliono.
In realtà non pensano niente, credo. Di me in quanto persona, intendo. Penseranno semplicemente che sono un ostacolo, o un impiccio, di passaggio nella loro giornata di lavoro.
“Io posso accompagnarla fino a qui. Poi l’abbandono”.
“Mi abbandoni pure, non c’è problema”.
Si alza un signore.
“Dove deve andare? Posso aiutarla?”
“Volentieri, grazie”
Dopo aver attraversato il salone da sola spingendo le ruote di gran carriera (e insomma, un mese di stampelle almeno le braccia te le rinforza), trovo un tizio davanti alla colonna dei ticket al CUP.
“Chiedo scusa, dovrei passare”
È l’addetto all’assistenza.
“Che le serve?”
“Devo prendere un appuntamento”
“Allora guardi, le do il numero. Con questo ha la precedenza”.
La ruota sinistra scivola su un rialzo del pavimento e la sedia non si muove. Mi giro verso un uomo in piedi accanto a me. La moglie parla con l’assistente.
“Scusi, signore. Può aiutarmi?”
Mi spinge verso il corridoio della sala d’attesa. Mi porto avanti, per essere in pole position quando uscirà il mio numero. Non faccio in tempo ad arrivare che lo chiamano.
“Scusate, permesso… arrivo!” Dico a voce alta mentre il campanellino scatta sui numeri successivi.
Una ragazza dai lunghi capelli neri si alza. “Posso aiutarla?”
Mi spinge e raggiungo lo sportello.
Quando è il turno del prossimo, ho difficoltà ad uscire spostando la sedia. Subito arriva un signore ad aiutarmi. “Dove deve andare?”
“Nel salone, la ringrazio”
“Si figuri, tanto son qui che aspetto”
Faccio la mia telefonata e mi faccio venire a prendere al pronto soccorso, il punto più comodo per la sedia a rotelle.
Mi avvio verso il corridoio, seguendo la linea grigia. Chiedo a un volontario di un’associazione se mi dà una mano. Sembra non aspettasse altro.
“Dove deve andare?”
“Al pronto soccorso”
“L’accompagno fin lì, allora”
È finita. Ce l’abbiamo fatta.
Da sola sì, ma con l’aiuto di tanti.
E a dirla tutta, scoprire questa voglia di aiutare, questa disponibilità verso una persona in difficoltà, questa generosità sorridente, mi è sembrata la cosa più bella della giornata.
Oltre al fatto che l’osso (il terribile astràgalo, si, sempre lui) è guarito e che mi hanno tolto il gesso.
La prossima volta però mi farò accompagnare, tranquille infermiere.

1 Commento

Archiviato in diario minimo