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La sera del capriolo morto

Qualche anno fa, in una calda sera di fine luglio, andai con la mia amica del liceo a vedere uno spettacolo sulla Francigena nell’Abbazia di San Galgano. Partimmo che era ancora giorno. Al curvone dei Cappuccini notai che dal ciglio spuntavano le zampe di un capriolo. Io guidavo, la mia amica parlava rivolta verso di me per cui non si era accorta di niente.

  • Presto, presto, chiama il 118 che c’è un capriolo investito.
  • Che c’entra il 118, è un animale…
  • Fidati, hanno l’obbligo di passarti il veterinario di turno.
  • Ma poi sei sicura? Io non l’ho mica visto.
  • Perché eri girata dall’altra parte, sbrigati che si fa tardi.

Solo pochi giorni prima, andando a Siena, avevo visto un capriolo morto sulla rotatoria per la Siena – Firenze all’uscita Nord di Colle Val d’Elsa.

Dopo aver sceso Paola e mamma davanti all’ospedale, mi misi a fare telefonate per avvisare qualcuno che facesse togliere la carcassa.

Il servizio per la fauna selvatica, che mi rispose subito, mi disse però che interveniva solo per gli animali feriti e mi consigliò di avvisare il Comune competente. 

Pensai che la parte dove era il capriolo era sicuramente su Poggibonsi.

Chiamai il Comune. Mi passarono un’impiegata dalla voce scocciata che, non appena le ebbi spiegato la faccenda, mi chiese:

  • Ma lei è proprio sicura che lì sia Poggibonsi? Perché potrebbe essere anche Colle. 

Dopo alcuni minuti, ritornò all’apparecchio e mi informò sconsolata che era proprio Poggibonsi. 

Disse anche che avrebbe mandato qualcuno. 

La sera di San Galgano non c’erano dubbi su quale fosse il Comune competente, ma alle otto di sera non avremmo trovato nessuno. Nemmeno i vigili.

Intanto la mia amica parlava col 118.

  • Oh, mi hanno detto che mi passano il servizio veterinario… Allora avevi ragione te.

Aspetta aspetta, però, il servizio veterinario non rispondeva, per cui le dissi di riagganciare e richiamare il Suem per chiedere che potevamo fare, vista l’ora. 

Non ne avevano idea.

  • Fai il 115, chiama i vigili del fuoco.
  • Ma come fai a sapere tutti questi numeri?
  • Eh, dopo anni di giro di nera…

I vigili del fuoco la ascoltarono e promisero che sarebbero intervenuti.

La mia amica però era ancora scettica.

  • Secondo me te lo sei sognato. Io non ho visto nulla. Sai che figura ora con tutte quelle telefonate…
  • Ma figurati se non c’era. Ho visto benissimo le quattro zampine all’aria che spuntavano dal fosso.
  • Mah, sarà…

Arrivammo a San Galgano, prendemmo posto nella chiesa e guardammo lo spettacolo, “Storie e amori sulla via Francigena, un musical in cammino”, di Nicola Costanti e Marco Brogi.

Marco lo avevamo salutato fuori dalla basilica. 

Scoprimmo anche che il Comune di Chiusdino organizzava un festival estivo di un certo livello, oltre all’opera sulla Francigena c’era già stato un concerto di Max Gazzè e altri appuntamenti interessanti erano in programma, ma noi non ne sapevamo niente.

Dell’evento di quella sera io stessa l’avevo saputo quasi per caso, vedendo un post di Marco su Facebook.

La serata fu molto bella. Bravissimi gli attori e cantanti, ben scritta la storia, fantastico il posto. Bella anche la sera d’estate.

Al ritorno, dopo un po’ di strada, il discorso tornò sui caprioli, anche perché io sono sempre terrorizzata quando guido per le strade in mezzo al verde, che spuntino animali e prego dentro di me che ciò non avvenga.

Quando passammo dal curvone dei Cappuccini, a Colle, il capriolo non c’era più.

“Certo che non c’è – commentò la mia amica – vedrai, non c’è mai stato, te lo sei solo immaginato”.

Qualche giorno dopo una conoscente commentò su Facebook un mio post su che cosa fare quando si trovano animali selvatici morti e feriti, dicendomi di guardare la bacheca di sua sorella.

Aprii la pagina e vidi la foto del povero capriolo a zampe all’aria al curvone dei Cappuccini. 

La sorella scriveva che si era trovata a passare di lì, aveva visto (e fotografato) il capriolo, dopo di ché era impazzita a chiamare carabinieri e non so chi altri per far togliere la carcassa. 

Tra l’altro diceva che si trattava di un esemplare di femmina e pure incinta. Alla fine concludeva che comunque, grazie al suo telefonare a destra e a manca, alla fine il povero animale era stato tolto. 

Oddio, stavo perdendo il primato di avvistatrice di caprioli morti per strada, ma a dire il vero in quel momento non mi sembrava la cosa più importante.

La cosa veramente importante era scaricare la foto e inviarla a quella miscredente della mia amica come prova definitiva che quella sera non avevo avuto le traveggole.

Ogni tanto, una piccola soddisfazione… 

(La foto del capriolo nel verde invece l’ho fatta io sotto casa e almeno quello è indiscutibilmente vivo)

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Noi siamo zingarelle…

La seconda estate che mi chiamarono a lavorare a Rovigo la solita agenzia mi trovò una casa minuscola. Era nel sottotetto di un condominio a due passi dal centro. C’era tutto. Tavolo, sedie, divano letto, armadio, cucinetta e bagno. In ventidue metri quadrati. Il bagno era fin troppo grande, però a differenza del soggiornocucinacamera ci si muoveva bene. La cucina era uno di quei mobili compatti che contenevano pensili, frigo, fornelli, acquaio. C’era anche una bella finestra larga come la parete, su in alto, che dava su una falda del tetto. 

Il divano letto era posizionato sotto la finestra e, considerato il caldo di Rovigo, quando ero a casa stavo sempre svestita. 

Un giorno alla finestra comparve un uomo. 

Camminava sul tetto, tirando un filo o non so che. 

Io urlai e tirai le tende, ma lui nemmeno mi considerò. 

Il padrone di casa poi mi disse che era il solito inglese che saliva spesso sul tetto per sistemare l’antenna o con altre scuse, ma che stessi tranquilla che era innocuo. 

In ogni caso un po’ mi infastidì pensare di non essere più del tutto libera nella mia microcasetta. 

Dopo un po’ però non ci pensai più. 

In quel periodo stavo terminando di scrivere la mia tesi di laurea. Ero al terzo relatore, dopo che il primo mi aveva abbandonato per malattia e il secondo era morto. Questo invece era vivo e vegeto e sembrava che fosse arrivato il momento di chiudere il capitolo università. 

La tesi stava tutta nella memoria di un computer portatile, una rarità per l’epoca, che avevo comprato a prezzo di favore tramite il giornale quando ero collaboratrice. Internet non era ancora diffuso e si usavano i floppy disk. Il computer aveva un modem che tramite il filo del telefono permetteva di trasmettere i pezzi in redazione. 

Un giorno tornai a casa in Toscana per il weekend e lasciai il computer nel micro appartamento. 

La domenica sera, al rientro, mentre salivo l’ultima rampa di scale trascinando il trolley, notai qualcosa di strano alla porta. 

Era socchiusa.

Una specie di nebbia mi avvolse la testa mentre il cuore accelerava i suoi battiti.

Senza pensarci un secondo mi precipitai dentro. 

Il computer era lì, al suo posto, nella valigetta in terra accanto all’armadio, dove l’avevo lasciato. La borsa era stata aperta ma il contenuto era intatto.

Sospiro di sollievo. 

Era quella la cosa più preziosa che avevo in quel momento.

La cucinacamerasoggiorno pareva a posto. Andai in bagno. Qualcuno aveva rovistato fra le spazzole e aveva perso un laccetto per capelli. 

Però non mancava niente. 

Chiamai il 113 e poco dopo arrivarono i poliziotti della volante. 

Il problema vero era la porta. La serratura era stata disfatta e non potevo chiuderla. I poliziotti mi chiesero se avessi un altro posto dove andare per la notte.

Non ce l’avevo. 

Ma ero talmente stanca che mi sentivo tranquilla. Avrei bloccato la porta con una sedia. Il giorno dopo avrei pensato a come risolvere, ma in quel momento volevo solo dormire. 

La mattina chiamai il padrone di casa informandolo di quello che era successo. Disse che ci avrebbe pensato lui a fare risistemare la serratura. Lo ringraziai.

Durante il giorno, poi, mentre ero al lavoro, mi chiamò per dirmi che era tutto a posto, l’intervento era costato all’incirca ventimila lire ma che, anche se sarebbe toccato a me pagare, non me le avrebbe chieste. 

Avrei voluto anche vedere, la porta di quella casa era di carta velina! 

Durante il giro di nera della mattina, quando entrai con il collega dell’altro giornale nell’ufficio delle volanti, il capo mi guardò e si mise a ridere. 

Aveva letto dell’intervento sul mattinale e sapeva già tutto. 

Mi disse che avevo sbagliato a chiamare il 113 dopo essere entrata in casa, avrei dovuto farlo prima. Le ladre potevano essere ancora dentro e la situazione poteva farsi pericolosa. Dalla tipologia del colpo, disse, dovevano essere zingarelle che cercavano ori e gioielli ma a cui non importava niente di un computer (a differenza dei tossici) che non avrebbero saputo come rivendere. 

E meno male.

Almeno quella andò bene, alla fin fine.  

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La passeggiata sul Serva

Una ventina di anni fa, ero arrivata a Belluno da pochi mesi, un collega che collaborava al giornale si offrì di farmi conoscere la montagna. 

  • Potremmo salire sul Serva, che è vicino e anche abbastanza semplice, disse.

Il Serva è la montagna che sovrasta Belluno, una sorta di panettone liscio con una croce in vetta.

  • Arriviamo fino alla croce e scendiamo.

In quei giorni il monte era completamente coperto di neve. Decidemmo di andare il 6 gennaio, per l’Epifania. 

Chiesi al capo se mi poteva dare quel giorno come riposo settimanale. Strano a dirsi, ma era impossibile. 

  • L’unica cosa che posso fare – disse, magnanimo – è metterti in turno di notte.   

Molto bene. Questo voleva dire che dopo l’escursione sarei dovuta rientrare a casa di corsa, fare la doccia, cambiarmi e volare al lavoro alle cinque del pomeriggio per rimanere fino a mezzanotte.

Vabbè.

A dire il vero non ero del tutto digiuna di montagna. Avevo avuto l’esperienza sul Pelmetto, in Val di Zoldo, e fin dal liceo avevo fatto qualche settimana bianca qua e là. 

Ma apprezzai lo stesso l’ospitalità e la disponibilità del collega. 

Pensai che sarebbe stato gentile portare un thermos di caffè caldo. Ma non avevo il thermos. Andai in un negozio di materiali sportivi in centro ma li avevano già finiti tutti, eccetto uno abbastanza piccolo ma che costava un botto. Lo comprai.

La mattina del 6 gennaio mi preparai con i vestiti più da montagna che avevo, gli scarponi da trekking e una bella giacca a vento. Riempii il thermos di caffè, misi nello zaino due cracker, acqua e un po’ di frutta secca e partii.

Passai a prendere il mio amico sotto casa, visto che si trovava di strada, e andammo verso il Col di Roanza. Da Belluno sono meno di dieci chilometri. Vai a Cavarzano, il mio amico stava lì, poi prendi per Sopracroda, sali sali sali, vai su per qualche tornante, arrivi sul Col di Roanza e lì la strada finisce. C’è un rifugio, poco più avanti c’è uno spiazzo, si chiama Cargador, da dove si lanciano con il parapendio. Un po’ più su c’è la croce luminosa donata da un’associazione cristiana e messa lì sul monte. Qualche anno fa ci fu una polemica perché tanti non ce la volevano. Al giornale si fece un gran casino ma poi la misero lo stesso. 

Si lasciò la macchina vicino al rifugio e ci si incamminò. All’inizio il sentiero saliva e passava in mezzo al bosco. Poi la vegetazione a un tratto spariva e il versante andava su dritto sparato. Ma non era come arrampicare, si camminava, solo parecchio in verticale.    

Era una giornata fredda ma bella, pulita e con il cielo azzurro. Il sole pian piano si alzava e cominciava a battere, oltre che a riflettere sulla neve. 

Noi si saliva e si saliva, ma la vetta era sempre lontana. E poi c’era il problema che a una cert’ora bisognava venir via perché io dovevo andare al lavoro. 

Il mio amico disse, arriviamo fino alla casera. 

A Pian dei Fioc, alla casera, ci fermammo. C’era un po’ di gente che beveva spumante e mangiava pandoro.

Noi ci sedemmo su una panca di legno e bevemmo il caffè del mio thermos. Smangiucchiammo un po’ di frutta secca, poi ripartimmo.

Il mio amico disse che conveniva tornare in giù. Non ce l’avremmo mai fatta a salire fino alla vetta ed essere a Belluno in tempo per il mio turno. 

Peccato.

All’ingiù non era molto meglio rispetto a quando si saliva. La discesa ripida e la neve costringevano a guardare bene dove si mettevano i piedi. Le ginocchia poi cominciavano a fare un po’ male, sollecitate com’erano.

Il mio amico disse, e se ci si buttasse giù di culo?

Si partì, tirandosi sul dietro la giacca a vento per scivolare meglio. 

Si andava che era un piacere. Solo che non è che il versante nonostante la neve fosse poi così liscio. Per cui ci si prendevano anche delle belle botte. Ogni tanto ci si fermava contro un rialzo del terreno o contro un arbusto, allora ci si dava una spinta e si ripartiva.    

Era divertente, come essere al luna park.

Quando si arrivò all’inizio del sentiero e ci alzammo in piedi le gambe non ci reggevano più.

Erano tutte un tremore. Ma c’era da scendere e allora andammo lo stesso. 

Rifacemmo al contrario tutto il percorso della mattina, lasciai il mio amico sotto casa sua e tornai alla mia. Mangiai qualcosa, feci la doccia, mi cambiai e andai al lavoro.

A quel punto ci sarebbe stato bene solo di infilarsi al calduccio sotto le coperte a far riposare i muscoli indolenziti. Invece dovetti affrontare il turno di notte. 

Non ricordo niente però di quello che successe, probabilmente nulla. Ma la mia presenza era comunque indispensabile. 

In ogni caso, almeno l’avventura della mattina, quella non me la scordo più.

(il Monte Serva – foto di Ylena Ichkova da Pinterest)

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Una sera al Maurizio Costanzo Show

Tantissimi anni fa andai anch’io al Maurizio Costanzo Show. Ero stata invitata dal mio amico David, con il quale ogni tanto collaboravo (aveva aperto un’agenzia giornalistica insieme a un altro David e a un altro collega) dopo la chiusura del giornale di Siena. David era riuscito a far inserire tra gli ospiti del Costanzo Show un tizio che girava intorno all’agenzia, che aveva da raccontare una storia veramente fuori dal comune.Il tizio, del quale non ricordo il nome né la nazionalità (svizzera o tedesca, mi pare), era una specie di Indiana Jones, capelli biondi lunghi spettinati, stivaloni da cowboy e gilet da fotografo, che una volta all’anno partiva alla volta del Rio delle Amazzoni e viveva nella foresta per alcuni mesi a contatto con le popolazioni indigene. Il motivo principale di un’avventura così totalizzante era la ricerca dell’oro.Come i pionieri che setacciavano febbrilmente i greti dei corsi d’acqua in California e in Alaska nella corsa all’oro della seconda metà dell’Ottocento, così il nostro eroe scandagliava i ruscelli della foresta equatoriale, trovando anche diverse pepite.   Quando tornava in Europa, poi, cercava di vendere la sua storia a giornali e tv. Con questo intento era arrivato fino a Siena dove aveva incontrato l’agenzia del mio amico che aveva cominciato a lavorare per promuovere le sue avventure.Così si era concretizzata l’ospitata al Maurizio Costanzo Show.A dire il vero non ho particolari ricordi dell’evento. Qualche vaga impressione mi è rimasta delle poltroncine di velluto (azzurro carta da zucchero o rosse?). La cosa che ricordo in modo più nitido è l’ingresso del teatro dei Parioli, con la discesina. Forse perché poco distante c’era stato l’attentato proprio a Maurizio Costanzo. O forse perché non si capiva quale fosse la nostra entrata. Passate davanti, no dietro, dall’ingresso artisti.Quel viaggio in realtà lo avevo rimosso. Solo l’altra sera, dopo aver appreso della scomparsa di Maurizio Costanzo, pian piano ha cominciato a riaffiorare alla mente.All’epoca non mi faceva né caldo né freddo andare ad assistere a un evento televisivo che attirava l’attenzione di milioni di persone. Non che oggi ci metterei la firma, ma credo che lo vivrei con una maggiore consapevolezza.Tra l’altro, oltre a non amare affatto i talk show, ricordo che criticavo sempre babbo perché stava attaccato alla tv ogni volta che c’era Maurizio Costanzo.Il nostro cercatore d’oro invece lo ricordo abbastanza bene. Tra l’altro dovrei avere ancora la cartellina con il materiale che lo riguarda, una serie di appunti e di fotocopie a colori di lui che setaccia un torrente, di lui con degli indigeni, di lui con delle testine umane essiccate che la tribù dei tagliatori di teste gli aveva donato in segno di rispetto e accettazione.Quella storia mi fu regalata da David e me la rimbalzai per un bel po’ tra le mani. Dopo il Maurizio Costanzo Show pensai che potesse interessare a qualche giornale di tiratura nazionale.La proposi al direttore di Donna di Repubblica, che all’epoca era il mio magazine preferito. Il direttore si chiamava Gigi Riva e la prima volta che lo sentii al telefono gli feci un’originalissima battuta sull’omonimo giocatore del Cagliari, che però, devo dire a mia discolpa, era veramente il mio idolo quando ero piccolina. Purtroppo la negoziazione non andò a buon fine e Donna di Repubblica alla fine non pubblicò la storia del cercatore d’oro amico dei tagliatori di teste del Rio delle Amazzoni.Peccato.A parte il fatto che ho un altro piccolo, pittoresco fallimento da raccontare.   

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Una notte all’hotel de la Poste

Qualche anno fa, per un breve periodo, lavorai per l’inserto regionale del Corriere della Sera come corrispondente da Belluno. Furono mesi molto belli e stimolanti, anche se la mia vita quotidiana non era affatto facile.

Era tutto un modo diverso di lavorare, rispetto al giornale di sempre, dove i ruoli erano abbastanza rigidi e qualunque cosa facessi rimanevo sempre l’ultima ruota del carro.

L’altro quotidiano invece era nato da poco, intendo l’inserto regionale, e c’erano molte più possibilità di misurarsi con sfide più importanti.

Una volta, per esempio, mi mandarono al congresso veneto di Forza Italia a Cortina d’Ampezzo, dove mi ritrovai accanto al super inviato di politica e ad altri giornalisti di spicco.

Per convincermi ad accettare, dalla redazione, sentendo la mia titubanza, mi dissero che avrei dormito una notte all’hotel de la Poste.

  • Quando ti ricapita un’occasione così?

Non fu quello il motivo che mi convinse a dire di sì, che di dormire negli alberghi, di lusso o meno, me ne è sempre importato poco. Anzi, a dire il vero l’ho sempre trovato piuttosto stancante, oltre che rumoroso. 

Il primo giorno filò abbastanza liscio. Seguii gli interventi, presi appunti e alla fine spedii il mio pezzo in redazione.

Poi andai a cena con un collega. Quindi fu la volta di provare l’ebbrezza di dormire una notte all’hotel de la Poste.

Salii al piano della camera che mi era stata assegnata con il mio bagaglio leggero, camminando per i lunghi corridoi dai pavimenti in legno ricoperti di tappeti, passando davanti a concierge e fattorini in livrea.

Aperta la prima porta d’ingresso alla camera, dopo un piccolo spazio, ce n’era una seconda. Pensai che avrei dormito benissimo, visto che il mio sonno sarebbe stato protetto dalla doppia porta che avrebbe isolato eventuali rumori provenienti dal corridoio.

Sistemai le mie cose e mi infilai sotto le coperte. 

Non ricordo se notai subito un’altra porta sulla parete di fronte al letto, ma sicuramente non ci feci troppo caso.

La giornata era stata lunga e impegnativa per cui mi addormentai in poco tempo.

A un certo punto mi svegliai di colpo al suono di una voce, tanto alta quanto vicina. Era un tizio che parlava, anzi urlava, al telefono. La cosa più impressionante, oltre al fatto che fosse già passata l’una di notte, era che il tizio sembrava fosse quasi in camera mia.

Accesi la luce e vidi la porta nella parete di fronte al letto. La voce veniva proprio dall’altra parte.

Che maleducazione.

Chiusi gli occhi, nella speranza che il tizio finisse la propria telefonata al più presto e mi lasciasse dormire in pace. 

Cercavo di addormentarmi ma quella voce dal tono acceso mi entrava in testa e non riuscivo a rilassarmi. Finalmente, a un certo punto la telefonata finì.

Mi girai dall’altra parte, abbracciai il cuscino e mi preparai a sprofondare nel sonno.

Un’altra telefonata.

Eh no, pensai. Ora se questo non la finisce chiamo la portineria per segnalare la situazione. 

Rimandavo. Alzarmi, comporre il numero e spiegare al concierge ciò che stava succedendo avrebbe significato perdere quel poco di sonno che avevo addosso e svegliarmi del tutto. Preferivo aspettare. Prima o poi avrebbe spento il telefono e si sarebbe messo a dormire anche lui.

Le due e mezzo. Silenzio. Ecco, lo sapevo che prima o poi…

Di nuovo la voce. Arrabbiata, tesa, forte. Avevo anche una mezza idea di chi fosse. Del portavoce, appunto, di un politicone di quel partito, che avevo visto tutto il giorno girare tra platea e sala stampa come una trottola impazzita. Chissà che storie c’erano in ballo. Magari se ascoltavo con attenzione riuscivo a tirar fuori pure uno scoop.

Mi decisi. Se fa un’altra telefonata chiamo la portineria. Silenzio. Finalmente.

Non importa dire che mi sbagliavo, purtroppo. 

La solfa andò avanti almeno fino alle tre e mezzo, mentre io ogni cinque minuti pensavo di chiamare il concierge e quello che dopo le urla stava un po’ in silenzio, illudendomi che fosse finita.  

Alla fine un po’ riuscii anche a dormire ma il giorno dopo c’era da alzarsi presto e seguire l’ultima parte del congresso, quella decisiva. 

La mattina a colazione cercai di individuare il rompipalle notturno. Era proprio lui, l’aria accigliata e il modo di fare di chi è chiamato a risolvere i problemi del mondo. Chi altri se non lui. 

Con gli occhi pesti tornai nella sala del congresso e mi sforzai di seguire tutti gli interventi cercando di capire che tipo di cambiamenti potevano anticipare.

A un certo punto un collega mi chiese come avessi dormito, visto che aveva saputo che la notte in albergo era stata un po’ agitata.

Stavo già per raccontargli del portavoce invadente, sicura che si riferisse a lui, quando invece mi raccontò tutta un’altra storia.

Riguardava una senatrice, anche lei molto conosciuta, che durante la notte aveva perso un costosissimo anello d’oro tempestato di pietre preziose. Pare che per recuperarlo fossero dovuti intervenire i dipendenti dell’albergo, insieme agli uomini della scorta, per smontare il tubo del lavandino. 

Alla fine l’anello era stato recuperato ma il fatto, vissuto con grande ansia dalla senatrice che si era sfogata nottetempo con telefonate concitate a destra e a manca (un vizio diffuso, a quanto pare), era diventato la barzelletta del giorno.

E questa è stata la mia prima, e unica, notte all’hotel de la Poste.

Proprio un’occasione da non lasciarsi scappare.

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Il filmino dell’università

All’università studiavo lettere con indirizzo musica e spettacolo, il più divertente ma anche più inutile. A storia del cinema avevamo Lino Micciché, creatore del festival di Pesaro. Ogni anno ci invitava ad andare, ma io non l’ho mai fatto.

Sergio Micheli teneva un seminario di cui non ricordo il titolo. Però a un certo punto, oltre a guardare di continuo film muti e in bianco e nero nella sala cinema del primo piano in via Fieravecchia, con lui decidemmo di girare un nostro film.

Un filmino, una specie di spot. Ma cercammo di buttare giù una trama e ci distribuimmo i compiti.

Io scelsi di fare la trovarobe, oltre a partecipare a tutto il resto .

La storia era un po’ vaga e non sapevamo dove andare a parare. 

Erano gli anni Ottanta, in Italia non era arrivata nemmeno MTV e noi eravamo digiuni di tutto, compresa la cultura cinematografica e televisiva contemporanea.

Prendemmo ispirazione da una pubblicità del momento, quella dell’uomo che non deve chiedere mai, ci costruimmo sopra una storiellina che vedeva nel ruolo di attore protagonista Olly, un corpulento studente tedesco con il viso tondo incorniciato da riccioli d’oro, occhialini alla John Lennon, gotine rosse e paffutelle.  

Il nostro sforzo creativo di gruppo partorì un plot in cui questo Olly, passando dalla scalinata di Romeo e Giulietta, al Battistero del Duomo, incrociava una ragazza che attirava la sua attenzione grazie alla scia di profumo che lasciava. Anche qui citavamo un’altra pubblicità dell’epoca in cui una donna camminava per strada tutta improfumata e gli uomini la seguivano col naso all’insù.

Non era un granché, però l’avventura ci piaceva. Ci faceva sentire come studenti del Dams, dei quali eravamo purtroppo solo i cugini poveri.

Sceglievamo le varie zone della città dove girare le nostre scene. Il tecnico dell’università ci seguiva, povero lui, con la telecamera della facoltà.

Ci trovavamo la mattina presto con Sergio Micheli e mettevamo su il nostro set, come una vera produzione cinematografica.

Andammo alle fonti di Pescaia e in Fontebranda, al Battistero del Duomo e nei giardini di via Fieravecchia. All’epoca non si diceva ancora location, erano solo posti belli che avevamo scelto per il nostro filmino.

La trama prevedeva anche una scena di gelosia, con un ragazzo più fisicato del nostro Olly, che si prestava a interpretare il ruolo dell’uomo che non deve chiedere mai, e che a un certo punto raccoglieva l’interesse della ragazza che tanto aveva colpito le narici del tedeschino.

Dopo questo sforzo creativo, per tirare avanti la storia ci fu richiesto di pensare un finale.

Le nostre menti da surrogato del Dams ci portarono a far fissare un appuntamento tra Olly e la bella improfumata dove tutto aveva avuto inizio, sulla scalinata di Giulietta e Romeo.

Olly, naturalmente, si era già girato il suo bel film nella testolina per cui il copione prevedeva che portasse con sé una confezione di profilattici, che dovemmo comprare noi, forse addirittura io, visto che facevo la trovarobe. 

Per non sciupare l’eccezionale sorpresa al pubblico decidemmo che Olly avrebbe nascosto la confezione nella tasca posteriore dei jeans. 

Poi, una volta giunto alla famosa scalinata, nell’attesa della bella improfumata, si sarebbe seduto a terra e girandosi di tre quarti la cinepresa avrebbe inquadrato un angolo della scatolina che faceva capolino dalla stoffa blu.

La scena avrebbe suggellato la disfatta finale e totale del povero Olly, che era andato un po’ troppo avanti con l’immaginazione, mentre la bella improfumata non sarebbe mai arrivata all’appuntamento, essendo molto probabilmente impegnata a laccarsi le unghie per interpretare la donna che si avvinghiava al torace dell’uomo che non doveva chiedere mai.

Da via Fieravecchia, dove una copia di tal capolavoro dovrebbe essere ancora presente in qualche archivio sotterraneo, è tutto.

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Uno spauracchio a Pantelleria

Appena scesa a Pantelleria andai a ritirare la macchina a noleggio. Era una pandina bianca vecchio modello. La spesa era esigua e comprendeva anche una Vespa a cui dovetti rinunciare a malincuore. Il titolare mi disse che sarei potuta andare a prenderla quando volevo, per quella settimana era mia. Ma non lo feci.

Mi diressi verso Scauri. A un bivio mi aspettava il ragazzo dell’agenzia che mi accompagnò a casa. Salimmo una scaletta esterna di mattoni e cemento. 

  • Qui abito io, disse indicando una porta nascosta da una tenda scacciamosche in cordino.

In fondo c’era l’appartamento in cui avrei passato la settimana. Un salotto con le finestre sul mare colore del topazio e le tende che volavano con il vento, una piccola cucina, una camera da letto e un bagnetto con la doccia minuscola.

  • Oggi vieni a pranzo da noi, mamma ha fatto la caponata.

La vacanza iniziò con un’aria di famiglia e l’accoglienza siciliana, calorosa e avvolgente, ma mai opprimente. Nei giorni successivi, ogni volta che rientravo a casa, trovavo un vassoio coperto da un panno su un tavolinetto fuori dalla mia porta. Una volta c’erano dei dolci fritti, un’altra dei cannoli, o della pasta al forno, piatti di carne, pesce o verdura. Tutto buonissimo. 

La prima sera andai a mangiare una pizza al porto. Faceva ancora molto caldo, anche se era la fine di ottobre. Di turisti ce n’erano pochissimi e la maggior parte dei locali aveva già chiuso, ma quelli che rimanevano aperti erano sufficienti. 

Quando andai a comprare le sigarette feci amicizia con il tabaccaio. Una sera mi invitò a mangiare il vero pesce spada alla pantesca in un ristorante sul porto. 

Fuori dal locale c’erano degli anziani seduti sulle sedie, qualcuno con un bastone in mano. Lui salutò tutti e loro risposero con il sorriso furbo e gli occhi stretti di chi sa. 

Al tempo fumavo abbastanza per cui le mie visite dal tabaccaio erano piuttosto frequenti.  

Diventammo amici e lui si offrì di farmi da guida in una Pantelleria quasi deserta. Mi sentii molto fortunata. Di giorno giravo l’isola da sola sulla Pandina, andavo al lago Specchio di Venere, un cratere argilloso dove non si riesce a stare in piedi, e infatti appena ci entrai dentro battei una musata in avanti. Per fortuna sull’acqua. Un po’ seguivo i consigli del tabaccaio, un po’ giravo a caso, tanto ovunque andassi c’era qualcosa da scoprire. Solo una volta non ebbi il coraggio di raggiungere una spiaggia per la quale dovevo attraversare una lunga steppa rocciosa e deserta. 

Un giorno il tabaccaio mi portò a delle vecchie terme romane insieme a degli amici, dei signori di Roma habitué dell’isola. Erano delle vasche scavate nella pietra dentro una grotta, in cui stillava acqua con una qualche proprietà. Lì, sempre su indicazione del tabaccaio, raccolsi delle pietre pomice che si trovavano per terra un po’ ovunque. 

Fra i turisti romani c’era un anziano giornalista, che scoprii essere lo zio di un collega che veniva spesso agli eventi che organizzavamo nelle Crete con gli amici giornalisti di Siena. Con lui un giorno salimmo su una sorta di montagna in cima alla quale c’era una sauna naturale in mezzo alle rocce. Dall’alto vedevamo distese di vigneti a perdita d’occhio fino al mare, con le caratteristiche piantine basse. Di notte invece brillavano le luci della vendemmia nella tenuta Donnafugata. 

Il babbo del tabaccaio aveva certi affari in Tunisia, molto più vicina a Pantelleria rispetto alla Sicilia e spesso era via. Quando tornò  ci invitarono a cena nella casa sopra il tabacchino, me e l’anziano giornalista, a mangiare il cus cus come lo facevano loro, con il pesce. 

Se il figlio era un po’ rotondo e aveva l’aria placida, il padre era magrissimo e nervoso, aveva il fisico nodoso e gli occhi da falco. Mi trattava come se fossi roba sua.

La casa era un po’ scalcinata e denunciava la mancanza di un tocco femminile. 

Sembrava di essere dentro allo Straniero di Camus, con il caldo, l’Africa del Nord e un’umanità indifferente e vogliosa allo stesso tempo. 

Non tornai più a casa del tabaccaio e fui contenta di non rivedere il babbo in giro.

Con l’anziano giornalista invece, quando rientravamo al porto dai nostri giri diurni tra spiagge, mare e saune naturali, avevamo preso l’abitudine di fermarci in un bar pasticceria che faceva delle cassate da sogno.

La prima sera, quando cenai da sola al porto, avevo notato lungo la via un tipo curioso. Era alto, magro, con dei folti ricci neri, l’aria spiritata e vestito tutto di nero come un pipistrello.

Dopo un po’ me lo ritrovai al tavolo che mi parlava di cose che non mi interessavano e non se ne andava più. Tra un mezzo delirio e l’altro, mi raccontò che lavorava in ospedale ed era tecnico radiologo.

Alla fine riuscii a mollarlo.

Chiesi un po’ in giro e venni a sapere che era un tizio con dei problemi di vario tipo, tra cui alcune denunce da parte di pazienti con le quali aveva allungato le mani. Qualcuno mi disse che era stato sospeso dal lavoro, nonostante lui andasse in giro a raccontare che faceva questo e quello.

Nella mia settimana pantesca fui impegnata così anche a svicolare dagli agguati del tipo, che non mancava di seguirmi e farsi trovare magicamente nei posti in cui andavo.  

Un vero incubo. 

Una sera, mentre tornavo alla casetta di Scauri sulla Pandina bianca, me lo trovai in mezzo di strada dopo una curva, lui steso a terra e la sua motoretta poco più in là. Appena mi vide cominciò a farmi gesti e ad allungare le braccia come a chiedere aiuto. Feci una manovra repentina, lo scansai e proseguii per la mia strada, urlando nooo nooo.

Arrivai a casa, fermai la macchina in cortile e corsi su per le scale. Mi chiusi la porta alle spalle e finalmente mi sentii al sicuro. Per fortuna presto sarei partita e avrei lasciato lo spauracchio nero agli abitanti dell’isola. Che non è che si possa avere sempre e solo cose belle.

(2 – fine)

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Vacanza a Pantelleria

Il 17 ottobre 2001 sarei dovuta partire per Pantelleria con la mia amica L. e la sua bambina piccolina. Avevamo trovato un bellissimo dammuso nel centro dell’isola, arredato con stoffe etniche, dall’aspetto caldo e accogliente. Avremmo preso una macchina a noleggio e chi ci avrebbe fermato più. Lago di Venere, arco dell’Elefante, spiaggette e cale. Non ci saremmo perse niente. E poi c’erano da assaggiare i capperi, il Passito, il pescespada. Non stavo più nella pelle. Tra l’altro quell’anno, il 2001, avevo lavorato sei mesi di fila a Treviso, da aprile a settembre, mentre gennaio e febbraio li avevo trascorsi nella redazione di Belluno, resistendo per non restarci un mese in più come mi avevano chiesto, per poter tornare a casa, preparare le mie cose e organizzarmi per trovare un alloggio per quando mi sarei trasferita a Treviso. 

Un viaggetto ci voleva proprio.

Era stato un anno importante, già iniziato con una vacanza in Sicilia, turbata dalla telefonata del capo di Belluno che mi chiedeva di partire immediatamente per fare una sostituzione da loro. Ero arrivata da appena due giorni, me ne stavo tranquilla a contemplare la facciata del duomo di Noto semidistrutta dal terremoto e già mi rovinavano tutto il resto della settimana.

Mentre ero a Belluno, il 21 febbraio, ci fu la strage di Novi Ligure, con Erika e il fidanzatino Omar. I sei mesi a Treviso invece furono scanditi dal G8 di Genova, con la morte di Carlo Giuliani, la scomparsa quasi contemporanea di Indro Montanelli, l’invio di un libro esplosivo ai Benetton in segno di protesta per la vicenda delle terre degli indiani Mapuche, in Argentina. Poi ci fu l’11 settembre.

Dopodiché successe di tutto. L’8 ottobre il disastro aereo di Linate. Il 4 ottobre un missile ucraino abbatté un Tupolev della Siberia Airlines. Ci sarebbe poi stato il volo Crossair precipitato vicino a Zurigo il 24 novembre e l’American Airlines del 12 novembre che, partito dal Jfk di New York, si schiantò nel Queens. 

Insomma, pareva proprio che nel 2001 fosse meglio non volare. Infatti la mia amica insistette perché prendessimo un solo aereo da Roma a Pantelleria, evitando di volare fin da Firenze.

Qualche giorno prima di partire, lei però rinunciò alla vacanza, terrorizzata dai continui disastri aerei.

Io invece sarei andata lo stesso, anche da sola.

L’agenzia siciliana a quel punto mi sconsigliò il dammuso, dove sarei stata troppo isolata, e mi assegnò un appartamento vicino a quello dove abitava uno di loro. 

Il viaggio fu complesso. Non tanto da Santa Maria Novella alla stazione Termini, quanto, una volta scesa a Roma, per trovare il binario nove e tre quarti che mi avrebbe portato a Fiumicino, trascinandomi dietro il valigione della mia vacanza. E non era finita lì. C’era da fare una specie di traversata oceanica su chilometri e chilometri di nastri rotanti dalla fermata del treno fino al gate per Pantelleria.

Sempre con valigia al seguito. 

Dopo il check in, ricordo invece gli sguardi in cagnesco tra i passeggeri in attesa, tesi probabilmente a scoprire un terrorista in ciascuno di noi. Di sicuro invece eravamo tutti alquanto terrorizzati, visto che la navetta non arrivava e l’aereo sembrava non dovesse partire mai. Soprattutto ci intimoriva l’atteggiamento preoccupato del personale di terra, che correva da un punto all’altro con sguardo basso e senza offrire spiegazioni. Che ci fosse un qualche guasto tecnico in corso? O qualcuno avesse dimenticato di fare rifornimento? O magari ci fossero già i segnali di un possibile dirottamento o di una bomba a bordo? Intanto a noi passeggeri erano vietati forbicine, limette e qualsiasi oggetto atto ad offendere. Come flaconi di shampoo, bagnoschiuma e profumi, che avrebbero potuto celare liquidi esplosivi. Per me fu l’occasione per smaltire un po’ di campioncini di profumeria varia in bustine sigillate. 

Finalmente giunse il momento di partire. Durante il volo non fu possibile rilassarsi, per gli stessi motivi che sembravano turbarci tutti fin dalla sala d’attesa. Ma la traversata fu tranquilla, anche se dovevamo sorvolare Ustica, come aveva detto la mia amica nel terrore dei giorni precedenti. Forse facemmo anche un cambio a Trapani, ma non ne sono troppo sicura. 

Invece sono certa che la discesa velocissima e l’inchiodata dell’aereo su una delle piste più corte del mondo non mi fece né caldo né freddo. Recuperai la valigia e uscii nel caldo ottobrino di Pantelleria, apprezzando di aver rimesso di nuovo i piedi a terra. 

(1 – continua)

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A pesca con babbo

Ai tempi in cui andavamo al mare in campeggio a un certo punto a zio venne l’idea di pescare con le reti. Avevamo già la barca. Furono comprate le reti. 

D’estate funzionava così: a luglio partivamo noi con la roulotte, prendevamo posto e montavamo la veranda. In un altro momento babbo o zio portavano la barca che poi stava in una piccola rimessa sulla spiaggia.

Ad agosto ci davamo il cambio con la famiglia di zio, che sarebbe tornata a casa con la roulotte alla fine delle vacanze.

Con la barca io già mi divertivo a fare sci nautico. Ero diventata bravissima, sia in linea che nello slalom e non cadevo mai, nonostante gli scherzetti di babbo che frenava il motoscafo apposta, perché ero terrorizzata dalle meduse. 

Un giorno nel mare davanti a Cala Violina c’era babbo che insegnava lo sci ai figli dei nostri amici. Io li guardavo, seduta sul motoscafo, incredula per il fatto che nessuno di loro riuscisse ad uscire dall’acqua alzandosi in piedi. 

A un certo punto mi spazientii e dissi, babbo, ora provo io. 

Mi fece provare, sicuro che non ce l’avrei mai fatta. Invece partii subito. Da allora babbo fece sciare solo me che tanto con gli altri era inutile.

Quando era il tempo giusto per buttare le reti, babbo usciva la sera al tramonto da solo. 

La mattina dopo invece ci alzavamo in piena notte, io e lui, e alle quattro eravamo già in barca. Io mi preparavo dei panini al latte con la Nutella per fare colazione in mare. Babbo pane e affettato. 

La sabbia a quell’ora era fresca e tutta liscia. La barca era pronta, sul bagnasciuga, bastava dare solo una piccola spinta. Quando arrivavamo nel punto giusto, babbo spengeva il motore e buttava l’ancora.

Il mare era piatto e trasparente. Si sentiva solo qualche urlo di gabbiano e lo sciabordio leggero delle onde contro la barca.

Se c’erano dei pesci si vedeva già prima ancora di tirar su le reti, perché facevano dei riflessi d’argento. 

Avevamo un metodo. Babbo tirava le reti e io le passavo, stando attenta che non si attorcigliassero. Man mano che recuperavamo i pesci la rete finiva sul pavimento della barca, sempre ben ripiegata. 

Per lo più prendevamo dei pescetti di poco conto, adatti per la frittura. Ma ogni tanto capitava anche qualche triglia, con le branchie lunghe e le scaglie rosse.

Il terrore dei pescatori erano i cetrioli di mare, una specie di cilindro rigido, con qualche spina qua e là, che rimaneva impigliato nelle maglie e rischiava di romperle. 

I cetrioli, quando c’erano, erano affar mio.

Babbo smetteva di tirare, mi passava il coltellino e io mi mettevo li, paziente, a districare quel coso, facendo attenzione a non rovinare la rete. Poi, una volta liberato, lo ributtavamo in acqua, con schifo e fastidio, il più lontano possibile dalle reti. 

Qualcuno sosteneva che i cetrioli di mare, chiamati anche cazzi di mare (ma di nascosto da noi bambini), erano buonissimi. Ma se li aprivi, sotto la scorza dura e spinosa rivelavano una sostanza fluida e appiccicosa.

Meglio buttarli. 

Quando avevamo la nostra rete tutta bella ripiegata e il secchio pieno di pesci, potevamo finalmente fare colazione. 

Per me non c’era niente di più buono dei miei panini al latte con la Nutella, che ancora oggi me li sogno la notte. 

Intanto il sole era già alto e si era fatta l’ora di tornare. 

Scendevamo in spiaggia con il nostro bottino e passavamo orgogliosi tra i bagnanti, che si sporgevano curiosi di vedere che cosa avessimo preso. 

A me restavano solo due cose da fare. Recuperare un po’ di sonno e andare ai lavandini a pulire il pesce. Mamma poi l’avrebbe cucinato. Se quel giorno c’erano le triglie babbo avrebbe fatto la maionese per accompagnarle dopo averle lessate. 

P

Ai tempi in cui andavamo al mare in campeggio a un certo punto a zio venne l’idea di pescare con le reti. Avevamo già la barca. Furono comprate le reti. 

D’estate funzionava così: a luglio partivamo noi con la roulotte, prendevamo posto e montavamo la veranda. In un altro momento babbo o zio portavano la barca che poi stava in una piccola rimessa sulla spiaggia.

Ad agosto ci davamo il cambio con la famiglia di zio, che sarebbe tornata a casa con la roulotte alla fine delle vacanze.

Con la barca io già mi divertivo a fare sci nautico. Ero diventata bravissima, sia in linea che nello slalom e non cadevo mai, nonostante gli scherzetti di babbo che frenava il motoscafo apposta, perché ero terrorizzata dalle meduse. 

Un giorno nel mare davanti a Cala Violina c’era babbo che insegnava lo sci ai figli dei nostri amici. Io li guardavo, seduta sul motoscafo, incredula per il fatto che nessuno di loro riuscisse ad uscire dall’acqua alzandosi in piedi. 

A un certo punto mi spazientii e dissi, babbo, ora provo io. 

Mi fece provare, sicuro che non ce l’avrei mai fatta. Invece partii subito. Da allora babbo fece sciare solo me che tanto con gli altri era inutile.

Quando era il tempo giusto per buttare le reti, babbo usciva la sera al tramonto da solo. 

La mattina dopo invece ci alzavamo in piena notte, io e lui, e alle quattro eravamo già in barca. Io mi preparavo dei panini al latte con la Nutella per fare colazione in mare. Babbo pane e affettato. 

La sabbia a quell’ora era fresca e tutta liscia. La barca era pronta, sul bagnasciuga, bastava dare solo una piccola spinta. Quando arrivavamo nel punto giusto, babbo spengeva il motore e buttava l’ancora.

Il mare era piatto e trasparente. Si sentiva solo qualche urlo di gabbiano e lo sciabordio leggero delle onde contro la barca.

Se c’erano dei pesci si vedeva già prima ancora di tirar su le reti, perché facevano dei riflessi d’argento. 

Avevamo un metodo. Babbo tirava le reti e io le passavo, stando attenta che non si attorcigliassero. Man mano che recuperavamo i pesci la rete finiva sul pavimento della barca, sempre ben ripiegata. 

Per lo più prendevamo dei pescetti di poco conto, adatti per la frittura. Ma ogni tanto capitava anche qualche triglia, con le branchie lunghe e le scaglie rosse.

Il terrore dei pescatori erano i cetrioli di mare, una specie di cilindro rigido, con qualche spina qua e là, che rimaneva impigliato nelle maglie e rischiava di romperle. 

I cetrioli, quando c’erano, erano affar mio.

Babbo smetteva di tirare, mi passava il coltellino e io mi mettevo li, paziente, a districare quel coso, facendo attenzione a non rovinare la rete. Poi, una volta liberato, lo ributtavamo in acqua, con schifo e fastidio, il più lontano possibile dalle reti. 

Qualcuno sosteneva che i cetrioli di mare, chiamati anche cazzi di mare (ma di nascosto da noi bambini), erano buonissimi. Ma se li aprivi, sotto la scorza dura e spinosa rivelavano una sostanza fluida e appiccicosa.

Meglio buttarli. 

Quando avevamo la nostra rete tutta bella ripiegata e il secchio pieno di pesci, potevamo finalmente fare colazione. 

Per me non c’era niente di più buono dei miei panini al latte con la Nutella, che ancora oggi me li sogno la notte. 

Intanto il sole era già alto e si era fatta l’ora di tornare. 

Scendevamo in spiaggia con il nostro bottino e passavamo orgogliosi tra i bagnanti, che si sporgevano curiosi di vedere che cosa avessimo preso. 

A me restavano solo due cose da fare. Recuperare un po’ di sonno e andare ai lavandini a pulire il pesce. Mamma poi l’avrebbe cucinato. Se quel giorno c’erano le triglie babbo avrebbe fatto la maionese per accompagnarle dopo averle lessate. 

Per me invece l’avventura del pesce finiva li. Non riuscivo proprio a mangiarlo, anzi non potevo nemmeno sentirne l’odore. 

Avrei osato assaggiarlo solo a ventidue anni, in una cena tra amici con pesce di tutti i tipi e da allora lo avrei apprezzato. 

Nonostante questo, le mie estati da piccola pescatrice con i momenti trascorsi con babbo, rimangono tra i ricordi più belli.

er me invece l’avventura del pesce finiva li. Non riuscivo proprio a mangiarlo, anzi non potevo nemmeno sentirne l’odore. 

Avrei osato assaggiarlo solo a ventidue anni, in una cena tra amici con pesce di tutti i tipi e da allora lo avrei apprezzato. 

Nonostante questo, le mie estati da piccola pescatrice con i momenti trascorsi con babbo, rimangono tra i ricordi più belli.

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La Spiaggia del Cinghiale

Una notte di qualche anno fa con un’amica decidemmo di dormire al mare, in spiaggia, con il sacco a pelo. Era una notte di luna piena e volevamo fare il bagno nell’ora magica.

Scegliemmo la Spiaggia del Cinghiale, una caletta di Punta Ala abbastanza difficile da raggiungere, frequentata per lo più dai residenti delle ville di quella zona.

Non so come si chiami in realtà, ma l’ho battezzata Spiaggia del Cinghiale dopo che la mia amica mi aveva raccontato che i cinghiali le avevano saccheggiato le provviste, tanti anni prima, mentre dormiva all’aperto con l’allora fidanzato. 

Abitavo ancora nella provincia montana, nella casa in pieno centro sotto le campane del Duomo, e trascorrevo tutto il giorno, dalla mattina alla sera tardi, tra il tribunale e la redazione.

Nonostante le lunghe camminate sul Nevegal e le escursioni in montagna, per le lunghe giornate al chiuso, avevo perso dimestichezza con il mondo naturale, e avrei tanto voluto ritrovarla. 

Così proposi alla mia amica, una che non si ferma davanti a niente, di passare la notte sotto le stelle.

Posteggiammo la macchina nell’apposito spiazzo ricavato nella pineta e, armate dei nostri bagagli, ci piazzammo su un tratto abbastanza vicino al mare. 

La Spiaggia del Cinghiale era piuttosto stretta, a malapena in alcuni punti ci potevano stare due file di bagnanti. Alle spalle, guardando il mare, rimaneva una parete di terra piuttosto bassa sorretta dalla vegetazione della macchia mediterranea. Verso la parte da cui si accedeva alla spiaggia, un litorale sassoso e pieno di scogli, si apriva un praticello delimitato da una siepe, nel quale diverse persone stendevano i loro teli o posizionavano le sdraio. Dietro alla siepe un viottolo separava la spiaggetta dalle ville.

Oggi purtroppo quella caletta appare del tutto snaturata, dopo che è stato scavato un nuovo tratto di spiaggia, stabilizzato da alcune lingue di terra che si tuffano in mare. 

Avevamo tutto il necessario per essere autonome fino al giorno dopo, dalla cena alla colazione e tutto il resto. 

La sera fu bellissimo addormentarsi guardando il cielo pieno di stelle. Dopo mezzanotte facemmo il bagno al chiaro di luna. Poi ci addormentammo di nuovo.

A un tratto sentii un rumore inconfondibile e lanciai un urlo che svegliò la mia amica.

  • Un cinghiale, ho sentito un cinghiale.
  • Ma che dici? Te lo sarai sognato, qui non c’è nessun cinghiale.

Io però avevo sentito grugnire, ne ero sicura. E anche abbastanza vicino.

La mia amica, convinta che mi fossi immaginata tutto, dormì tranquilla per il resto della notte.

Io no.

La mattina dopo, non appena fu giorno, ci alzammo e chiudemmo i sacchi a pelo prima che arrivasse qualcuno. 

La mia amica fece un giretto nei dintorni.

  • Avevi ragione te. Qui ci sono delle impronte fresche di cinghiale. 
  • Accidenti…
  • Però era uno piccino.  
  • Ah, meno male.

In ogni caso non ho ancora deciso se era meglio la versione del sogno o quella della realtà.  

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