Camminavo con Luana sulla Quinta Avenue quando ad un semaforo vicino a Central Park sentimmo, Simona.
Io non mi girai. Luana invece al secondo Simona disse, cercano te.
Si, figurati.
Simona, ancora.
Alla fine mi volto verso la voce e vedo M., un’amica del nordest.
Si era fermata un giorno a New York per fare un giro nei musei. Poi sarebbe partita per il Messico dove l’aspettava il fidanzato.
Noi eravamo state al Guggenheim, lei arrivava dal Metropolitan.
Mangiammo qualcosa insieme. Fu un bell’incontro.
Ora anche io potevo vantare una di quelle coincidenze che sembravano succedere solo a babbo. Come quando, una volta che era in un ristorante a Pattaya, sentì chiamare Asvero.
In quel caso si trovò di fronte proprio il cassiere che gli aveva cambiato la valuta per la Thailandia.
M. l’avevo conosciuta al giornale. Lei scriveva dal suo paese del nordest e io la chiamavo per mettere i suoi pezzi in pagina. In quella redazione li chiamavano tòcchi.
Xè rivà el tòco de Cióza? Che starebbe per Chioggia.
Una sera con un collega giornalista oggi piuttosto conosciuto, a cui allora affittavo una stanza di casa mia, andammo nel paese di M. a mangiare una pizza speciale con lei e altri suoi amici. Un viaggio lunghissimo che sembrava non finire mai.
Della pizza invece non ricordo.
Anni dopo, nel mio girovagare, un’estate che lavoravo più a nordest del solito, andai a trovare M. a casa diverse volte.
Nel frattempo aveva avuto un bambino, un putto biondo che aveva fatto innamorare perfino me.
In quel periodo avevo una macchina cabrio, una Mazda X5 rossa con tettuccio nero e fari a palpebra di cui andavo molto orgogliosa.
Il bimbo era piccolo ma la macchina sembrava che gli piacesse molto, così dissi, lo porto a fare un giro qui intorno.
M. disse forse è meglio di no, magari è pericoloso. E io, ma scherzi? Facciamo un giro breve e fra cinque minuti siamo qui.
Misi il bimbo sul sedile della macchina scappottata, feci un giro per uno, due chilometri, e tornai da M.
Quella fu l’ultima volta che la vidi e che ci parlai.
Io continuai a cercarla ma lei non rispose più alle mie telefonate.
Solo anni dopo, ripensando alla successione degli eventi, ho ricostruito quella che potrebbe essere stata la causa della sua chiusura.
Sul momento non collegai il silenzio che venne dopo con l’episodio del bambino.
All’epoca vivevo le amicizie in modo tanto assoluto e viscerale che potrei non aver notato il suo disappunto. O non dargli il giusto peso.
Consideravo, piuttosto infantilmente, ogni persona amica come una stella del mio cielo e non potevo concepire dissidi o malintesi che non si potessero chiarire e risolvere.
E poi c’era quell’incontro inaspettato a New York che, almeno per me, dava alla nostra amicizia un suggello speciale.
Chissà. Forse la ragione era un’altra.
Una di quelle che non saprò mai.