Nei primi anni del liceo con la mia amica e compagna di banco si passavano spesso i pomeriggi a casa sua con la scusa di fare i compiti.
Poi in realtà si facevano delle grandi merende, con i pasticcini o la pizza, e si guardava la tv.
Ogni tanto veniva anche un’altra ragazza, un po’ più grande di noi, che coinvolgevamo nelle nostre festicciole pomeridiane.
Questa ragazza era una personcina minuta con dei grandi occhi verdi e i capelli neri. Era anche molto ingenua e credulona per cui noi due ci divertivamo ad approfittarne.
In quel periodo avevamo iniziato i nostri primi esperimenti culinari grazie alla ricetta delle lingue di gatto che la mia amica aveva avuto dalla nonna.
Sembrava quasi impossibile, ma i nostri biscottini prendevano forma ed uscivano dal forno caldi, dorati e croccanti.
Spiegammo alla nostra amica che quella doratura era un segreto della nonna e che per ottenerla si aggiungeva all’impasto dello stracchino. Uno poi, volendo, avrebbe potuto aggiungerne altro anche dopo la cottura.
La nostra amica fu entusiasta dell’idea e cominciò a spalmare lo stracchino sulle sue lingue di gatto.
- È vero, sono buonissime. Ma voi perché non ce lo mettete?
Lei continuava a spalmare e a mangiare, soddisfatta di questa scoperta.
A noi, spiegammo, ci bastava quello che avevamo messo dentro, quello della crosticina.
Non sapevamo se essere più divertite o attonite. Era stato troppo facile prenderci gioco di lei.
Che poi, alla fine, ne era addirittura contenta.
La nostra ospite dello stracchino era anche un’appassionata sciatrice e noi, io e la mia compagna di banco, andavamo ogni anno a Natale nella casa della mia amica sulle Dolomiti a fare la settimana bianca. Una volta venne anche lei.
Faccio fatica a pensare che quella vacanza in montagna ci sia stata davvero. Non ricordo più niente. Forse, vagamente, il fatto che io e la mia amica andavamo sulle piste più facili mentre la ragazza dello stracchino faceva anche la nera, che in quel caso era un terribile percorso ripido fra spuntoni di roccia.
Non ricordo la nostra convivenza in casa, non ricordo il viaggio di andata, sempre in treno da Firenze, dove ci accompagnava in genere il babbo della mia amica, né la sosta d’obbligo a Bolzano con wurstel e senape al baracchino per strada, e nemmeno la salita in autobus lungo i tornanti a picco su versanti di pietre.
Ricordo invece il lungo viaggio di ritorno sulla tratta ferroviaria Bolzano-Firenze.
- Se ci chiedono di dove siamo non dite assolutamente che siamo di Colle.
- Ah no? E di dove saremmo?
- Di Firenze.
L’amica dello stracchino, scoprimmo, si vergognava delle sue origini provinciali, che poi erano anche le nostre. Solo che a noi non ce ne importava proprio niente.
In ogni caso, pensai, a chi vuoi che interessi sapere di dove siamo?
- Ciao, posso? Di dove siete?
Eccolo lì il tipo che aspettavamo, affacciarsi nel nostro vagone, sedersi e pronunciare la fatidica domanda.
Io e la mia amica, zitte.
La ragazza dello stracchino con voce trillante: di Firenze.
- Firenze Firenze?
- Certo.
- E di dove, di preciso.
A pensarci era inevitabile che sul Bolzano-Firenze trovassimo qualcuno veramente di Firenze. Questo qualcuno sicuramente aveva capito che gli stavamo raccontando delle stupidaggini e si divertiva a metterci in difficoltà.
Io e la mia amica lasciammo il campo alla ragazza dello stracchino che comunque sembrava cavarsela abbastanza bene.
Il tizio però non mollava l’osso e insisteva a fare domande sempre più particolari su Firenze.
- E chi sarebbe il patrono di Firenze?
Gelo.
La ragazza dello stracchino aveva gli occhioni sgranati e pareva stesse per scoppiare in lacrime da un momento all’altro. Decidemmo di intervenire per aiutarlo.
- San Lorenzo.
- No.
- Santa Maria Novella.
- No.
- Aspetta, lo so io. Santo Spirito.
Il ragazzo ci guardava sornione, la ragazza dello stracchino era sull’orlo di una crisi di nervi.
Ma insomma, possibile che non sapessimo chi era questo benedetto patrono di Firenze. Ci sarà stata una festa, un detto, una canzone che lo ricordava…
- San Fiorenzo!
Urlai, come se avessi scoperto il tesoro dei pirati.
La risata del ragazzo ci fece capire che non ci eravamo proprio. Però scoppiammo a ridere anche noi, con lui.
Almeno la tensione si era smorzata.
Ma io quel San Fiorenzo uscito chissà da dove non me lo sono più scordato.
(Panorama – 1954, Ottone Rosai)