A ogni morte di papa

L’estate fra la seconda e la terza liceo fu quella della morte dei due papi. 

Girellavamo in motorino, con la mia amica Sandra, io sull’orribile Garelli rosso con il serbatoio sotto al sellino che babbo aveva avuto in regalo tramite il negozio, lei con un elegante Ciao Piaggio di colore blu. Girellavamo in un agosto assolato, nell’assolata via 25 Aprile, la strada che collegava la mia casa di Campolungo alla sua casa sopra Spugna, e ci inventavamo delle frasi con i modi di dire sui papi.  

Era la prima volta nella nostra vita che un papa moriva e già eravamo giunte a un traguardo. A ogni morte di papa. Non era questo che voleva dire quel luogo comune, sentito tante volte senza alcun riferimento concreto? Ecco, ora il riferimento c’era. E ancora.

Morto un papa se ne fa un altro. 

E infatti, dopo la morte di Paolo VI, avvenuta il 6 agosto 1978, venti giorni dopo fu eletto un nuovo papa. Albino Luciani, il 26 dello stesso mese, divenne Giovanni Paolo I. 

Noi continuammo a vivere la nostra torrida estate, fra giratine in motorino e interi pomeriggi passati in cucina a pasticciare. Fino a quando, poco più di un mese dopo, i telegiornali passarono un’altra incredibile notizia. 

Il 28 settembre, dopo trentatré giorni di Pontificato, era morto anche l’altro papa, quello dall’aspetto dolce e mite. 

Le frasi di rito mostrarono subito la loro assurdità. Che cosa voleva dire, dunque, a ogni morte di papa? Si intendeva un periodo lunghissimo o appena un mese e qualche giorno? E per il detto morto un papa se ne fa un altro? Non rischiava di diventare un’attività un po’ troppo frequente, rispetto ai ritmi ben più cadenzati del passato?

Andavamo in motorino e ridevamo. Per noi, all’epoca totalmente sprovviste di un minimo senso della tragedia, quelle frasi diventarono subito inutili. Se non come spunto per inventarci delle battute. A ogni morte di papa diventò un modo di dire per qualcosa che si faceva spesso. Per non parlare di morto un papa se ne fa un altro. E un altro, e un altro ancora.

Diversi anni dopo mi ritrovai a fare una breve sostituzione nella redazione di Belluno per il giornale per cui lavoravo. Ne avevo già girate diverse, di redazioni, da Treviso a Rovigo fino a Pordenone, ma quell’angolo di mondo sperduto in mezzo alle montagne mi mancava. 

Ancora non potevo nemmeno immaginare che in seguito ci avrei trascorso quasi quindici anni della mia vita.

Non ricordo il motivo per cui il capo decise di inviare proprio me, appena arrivata dalla Toscana, a Canale d’Agordo, il paese di Albino Luciani.

Forse era il fatto che pareva fossero riemerse da qualche parte le vecchie pagelle di quando andava a scuola. Io quindi sarei dovuta andare in cerca di questi preziosi documenti, in un paese sconosciuto, in un posto in cui non conoscevo nessuno. Fare tutto in un pomeriggio, tornare in redazione e scrivere l’articolo.

Niente di strano per un giornalista. Nei momenti più belli il nostro lavoro funziona proprio così. Ed è tutto adrenalina. 

Il capo mi disse di chiamare il fotografo e andare insieme a lui. Chiamai il vecchio titolare, come da indicazioni, che al telefono biascicò qualche parola in un dialetto per me incomprensibile. Con un po’ di sforzo e di scocciate, da parte sua, ripetizioni, potei capire qualcosa riguardo a un figlio. 

  • Ah, allora vai con Luca. Mi spiegarono in redazione.

Luca era appunto il figlio di Bepi Zanfron, il fotografo ufficiale del giornale famoso per essere stato il primo ad arrivare sui luoghi della tragedia del Vajont.

Salii sulla sua macchina e partimmo alla volta di Canale, dove arrivammo dopo quasi un’ora e mezzo di strada tortuosa tra boschi, centraline elettriche e costoni di roccia.

Il paese era deserto. 

Suonammo il campanello della parrocchia. Il parroco ci accolse, senza troppo trasporto, disse poche frasi di circostanza e ci lasciò di fatto a bocca asciutta.

  • È possibile vedere queste pagelle?

Naturalmente non le aveva certo la parrocchia, eccetera eccetera…

Provammo con il Comune, ovvero il Municipio, come dicono da quelle parti. 

Chiuso.

In giro non c’era anima viva. 

Luca disse, diamo un occhio alla sua vecchia casa. Magari troviamo qualcuno che ne sa qualcosa. Ci spostammo un po’ verso la montagna, dove c’erano delle case bianche con gli infissi in legno scuro, ma non ci fu niente da fare.

Nemmeno il corrispondente del posto ci poteva aiutare. Lui aveva passato la notizia, ma poi era dovuto andare via per impegni personali.

Ero demoralizzata e non sapevo proprio che cosa fare.  

Non esisteva che tornassi in redazione a mani vuote. E in effetti qualcosina si poteva sempre scrivere, condendo la notizia con un po’ di colore, il luogo deserto, la casa sul crinale, le frasi vuote del sacerdote. 

Ma quale notizia?

Mentre facevamo, sconsolati, un ultimo giro nella piazza principale, vedemmo passare un’anziana signora. Chiediamo a lei, disse Luca.

E io, ma che vuoi che ci dica?

In realtà qualcosa ci disse. 

Era stata la maestra di Albino Luciani, come di tutti i bambini della valle, tanti anni prima, e lo ricordava come un bambino serio e studioso. 

Che voti aveva in pagella? chiese Luca, andando al sodo.

I voti non li ricordava ma poteva dire quali erano i suoi punti di forza e le materie a lui più congeniali.

D’altra parte, secondo un altro modo di dire, anche il papa fu scolaro.

In ogni caso avevamo la notizia.

Facemmo ancora la strada piena di curve per rientrare a Belluno e tornammo in redazione cantando vittoria. 

Solo noi sapevamo quanto ci era costato quel risultato.

Ma se i latini dicevano che la fortuna aiuta gli audaci (e, aggiungerei, anche i caparbi) qualche motivo ci sarà pur stato.

(foto da Wikipedia.org)

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