Con Gastone funzionava così. Dopo che la mia amica mi aveva avvisato che al canile avevano questo setter irlandese bellissimo, ero andata a vederlo e mi ero subito innamorata.
Gastone stava in un recinto insieme ad altri cani. Era tutto rincantucciato in un catino di plastica azzurra da bucato e sembrava non accorgersi di niente.
Era lì da tre mesi, da quando era stato catturato insieme ad altri due cani, mentre vagava nei boschi di Radicondoli.
Chiesi se potevo prendermene cura facendogli fare qualche giro intorno al canile.
Di portarlo a casa non se ne parlava.
Mamma era stata chiara. C’era già Vanessa, che bastava e avanzava.
Mi fu dato il permesso. Così cominciai ad andare ogni tanto al canile.
Il volontario di turno entrava nella gabbia, metteva il guinzaglio al collo di Gastone e lo portava fuori. Io lo prendevo, uscivo dal canile e passeggiavo con lui nei campi.
Lui camminava guardando dritto davanti a sé, chiuso in un mondo tutto suo. Non reagiva a niente, nemmeno alle carezze.
La volta dopo mi portai dietro qualche biscotto. Gastone lo mangiò e continuò a guardare dritto davanti a sé.
Una volta invece Gastone si girò quando lo chiamai per dargli il biscotto e mi guardò negli occhi.
Fu un’emozione fortissima. Era un inizio.
Gastone cambiò subito il modo di camminare, si fece più sciolto e rilassato. Poco a poco cominciò anche a scodinzolare.
Decisi che era arrivato il momento di portarlo a casa, anche solo dalla mattina alla sera.
Al canile furono d’accordo.
Lo feci salire sul posto del passeggero della spider rossa, raccomandandomi che stesse ben raggomitolato e senza alzare la testa. Andò bene.
Quando arrivammo a casa mamma disse che non voleva un altro cane e che avrei dovuto riportarlo subito al canile.
Gli preparai la pappa. Gastone mangiò tutto, poi cominciò a saltellare e a strusciare la testa sulla mia pancia.
- È un segno di ringraziamento, disse mamma.
Scoppiai a piangere.
La sera lo riportai al canile.
Questa storia andò avanti per un po’. Appena potevo andavo a prendere Gastone, lo facevo salire in macchina e lo portavo a casa per un giorno.
Vanessa, l’altro setter irlandese che all’epoca aveva cinque anni, non sembrava affatto contenta di avere un amico. Temeva di perdere i suoi privilegi. Quando uscivamo non cedeva mai il passo a Gastone, col risultato che sbatacchiavano entrambi su un lato diverso della porta. Gastone correva per la gioia di uscire, Vanessa per non farsi superare.
Gastone adorava Vanessa e quando lei si stendeva sul divano con posa aristocratica, lui si stendeva ai suoi piedi e la guardava di sotto in su, con lo sguardo implorante.
Babbo ormai aveva cambiato idea sul fatto di tenere un cane a casa. Appena tornati in campagna era contrario. Ma poi c’era stato Iadi, il pastore tedesco, dopo era arrivato Taro, il siberian husky, e ora Vanessa. Per lui avere anche Gastone non cambiava niente. Anzi.
Mamma invece continuava ad opporsi.
Quell’anno le vacanze di Pasqua, tra ponti e weekend, si allungarono fino al Primo Maggio. Gastone le passò tutte a casa con noi, senza mai tornare al canile.
Ormai, pensavo, è fatta.
Invece mamma tornò alla carica e disse che lo dovevo riportare, prima che si abituasse e diventasse tutto troppo difficile.
Quando riconsegnai Gastone al canile, lo misero in una gabbia di decompressione, da solo, per farlo riabituare alla prigionia.
Lui rimase in piedi, un po’ traballante sulle zampe larghe, con lo sguardo fisso davanti a sé.
Io ero disperata. Tra le lacrime gli dicevo di stare tranquillo, che sarei tornata a prenderlo.
Lui aveva la bocca socchiusa con un filo di bava che scendeva giù.
Una volta a casa telefonai al canile per sentire come stava.
Era sempre come prima.
Babbo continuò a telefonare per tutto il giorno. Gastone, ci dicevano, era lì, in piedi nella gabbia, come pietrificato, con il filo di bava.
Il giorno dopo mi alzai presto e uscii. Non ci fu bisogno di dire a nessuno dove andavo e a fare che.
(1 – continua)