Una bottiglia di Franciacorta

Quando rientrai al giornale, dopo essere stata lontana per quasi due anni, sembrò il caso di fare una festicciola per amici e colleghi. 

In realtà c’era ben poco da festeggiare. In quei due anni avevo iniziato a collaborare con un giornale che mi piaceva molto di più per lo stile, il nome e altri motivi. 

Ma tra un lavoro da esterno con zero garanzie economiche e future e un posto fisso con regolare stipendio, non c’era storia. 

Quel posto lo avevo ottenuto grazie alla sentenza di un giudice, dopo essere stata sballottata per un decennio qua e là che nemmeno una pallina da ping pong. 

Ricordo il giorno in cui l’avvocato mi chiamò al telefono per comunicarmi la vittoria. 

L’improvviso dolore al petto e quella domanda, ma devo proprio rientrare là, non potrebbero darmi dei soldi e chiuderla così? 

No, non era possibile. 

Ricordo anche quello che indossavo, quel giorno. Pantaloni verde militare Sisley a mezzo polpaccio con cinturina di cuoio e maglietta coordinata. 

Dopo pochi minuti ero già a letto. Stentavo a muovermi. I muscoli si contraevano, fino a diventare rigidi e immobili. Fui assalita dal mal di testa, un dolore sordo che dall’alto si irradiava lungo la colonna dandole fuoco e poi le braccia e le gambe. 

Rimasi così per cinque giorni. Quasi paralizzata, in preda al dolore. Impossibilitata a muovermi, ad alzarmi, a mangiare, a pensare, a fare qualunque cosa.

Al quinto giorno, su insistenza della redazione per la quale lavoravo, accettai di alzarmi e andare a seguire una conferenza. Indossai lo stesso completo verde militare. Camminavo piegata in avanti, quasi a novanta gradi, ancora in preda a dolori e a un persistente giramento di testa. La schiena non si raddrizzava e le gambe facevano fatica a muoversi. Mi feci forza e riuscii ad arrivare. 

Dopo qualche settimana ci fu la festa. 

Nel frattempo ero stata a casa in Toscana ed ero tornata su con forme di pecorino di varia stagionatura e salumi. Mi misi d’accordo con il proprietario dell’enoteca in cui avrei invitato amici e colleghi. Gli lasciai formaggi e salumi, che lui avrebbe tagliato e disposto in vassoi. Il pane sarebbe arrivato dal forno vicino. Lui avrebbe preparato prosecco e vino rosso, oltre ad acqua e altre bibite, a volontà. 

Concordammo un prezzo che, insieme alla spesa già fatta a casa, rendeva quella festicciola un investimento di un certo rilievo. 

Pazienza, avrei ammortizzato con i primi due o tre stipendi.

La sera stabilita, era la metà di giugno di una quindicina di anni fa, arrivarono amici e colleghi. Fu una serata piacevole, tutto sommato. Passarono diverse persone a salutare, a bere un bicchiere, a mangiare un boccone. Due colleghe stettero un po’ in disparte a un tavolino insieme a due politiche locali, ma andava bene anche quello. 

Finimmo abbastanza tardi. 

Il giorno dopo passai dall’enoteca per saldare il conto. Il proprietario mi porse lo scontrino a occhi bassi mentre, con l’aria imbarazzata ripeteva, eh hai visto come son fatte, son fatte così. 

Non capivo a cosa si riferisse. Poi lessi lo scontrino. Erano battute due cifre, quella pattuita, più un’altra di qualche decina di euro. 

Continuavo a non capire.

Lascia stare, ci sono rimasto male anch’io, ma che ci vuoi fare…

Insomma, alla fine venne fuori che le tipe del tavolino, non soddisfatte del vino servito, avevano ordinato una bottiglia di Franciacorta facendola segnare sul mio conto. 

Ancora oggi penso alle migliaia di cose che avrei potuto fare e dire anziché quello che ho effettivamente detto e fatto. 

Cioè, stare zitta e pagare. 

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