La passeggiata sul Serva

Una ventina di anni fa, ero arrivata a Belluno da pochi mesi, un collega che collaborava al giornale si offrì di farmi conoscere la montagna. 

  • Potremmo salire sul Serva, che è vicino e anche abbastanza semplice, disse.

Il Serva è la montagna che sovrasta Belluno, una sorta di panettone liscio con una croce in vetta.

  • Arriviamo fino alla croce e scendiamo.

In quei giorni il monte era completamente coperto di neve. Decidemmo di andare il 6 gennaio, per l’Epifania. 

Chiesi al capo se mi poteva dare quel giorno come riposo settimanale. Strano a dirsi, ma era impossibile. 

  • L’unica cosa che posso fare – disse, magnanimo – è metterti in turno di notte.   

Molto bene. Questo voleva dire che dopo l’escursione sarei dovuta rientrare a casa di corsa, fare la doccia, cambiarmi e volare al lavoro alle cinque del pomeriggio per rimanere fino a mezzanotte.

Vabbè.

A dire il vero non ero del tutto digiuna di montagna. Avevo avuto l’esperienza sul Pelmetto, in Val di Zoldo, e fin dal liceo avevo fatto qualche settimana bianca qua e là. 

Ma apprezzai lo stesso l’ospitalità e la disponibilità del collega. 

Pensai che sarebbe stato gentile portare un thermos di caffè caldo. Ma non avevo il thermos. Andai in un negozio di materiali sportivi in centro ma li avevano già finiti tutti, eccetto uno abbastanza piccolo ma che costava un botto. Lo comprai.

La mattina del 6 gennaio mi preparai con i vestiti più da montagna che avevo, gli scarponi da trekking e una bella giacca a vento. Riempii il thermos di caffè, misi nello zaino due cracker, acqua e un po’ di frutta secca e partii.

Passai a prendere il mio amico sotto casa, visto che si trovava di strada, e andammo verso il Col di Roanza. Da Belluno sono meno di dieci chilometri. Vai a Cavarzano, il mio amico stava lì, poi prendi per Sopracroda, sali sali sali, vai su per qualche tornante, arrivi sul Col di Roanza e lì la strada finisce. C’è un rifugio, poco più avanti c’è uno spiazzo, si chiama Cargador, da dove si lanciano con il parapendio. Un po’ più su c’è la croce luminosa donata da un’associazione cristiana e messa lì sul monte. Qualche anno fa ci fu una polemica perché tanti non ce la volevano. Al giornale si fece un gran casino ma poi la misero lo stesso. 

Si lasciò la macchina vicino al rifugio e ci si incamminò. All’inizio il sentiero saliva e passava in mezzo al bosco. Poi la vegetazione a un tratto spariva e il versante andava su dritto sparato. Ma non era come arrampicare, si camminava, solo parecchio in verticale.    

Era una giornata fredda ma bella, pulita e con il cielo azzurro. Il sole pian piano si alzava e cominciava a battere, oltre che a riflettere sulla neve. 

Noi si saliva e si saliva, ma la vetta era sempre lontana. E poi c’era il problema che a una cert’ora bisognava venir via perché io dovevo andare al lavoro. 

Il mio amico disse, arriviamo fino alla casera. 

A Pian dei Fioc, alla casera, ci fermammo. C’era un po’ di gente che beveva spumante e mangiava pandoro.

Noi ci sedemmo su una panca di legno e bevemmo il caffè del mio thermos. Smangiucchiammo un po’ di frutta secca, poi ripartimmo.

Il mio amico disse che conveniva tornare in giù. Non ce l’avremmo mai fatta a salire fino alla vetta ed essere a Belluno in tempo per il mio turno. 

Peccato.

All’ingiù non era molto meglio rispetto a quando si saliva. La discesa ripida e la neve costringevano a guardare bene dove si mettevano i piedi. Le ginocchia poi cominciavano a fare un po’ male, sollecitate com’erano.

Il mio amico disse, e se ci si buttasse giù di culo?

Si partì, tirandosi sul dietro la giacca a vento per scivolare meglio. 

Si andava che era un piacere. Solo che non è che il versante nonostante la neve fosse poi così liscio. Per cui ci si prendevano anche delle belle botte. Ogni tanto ci si fermava contro un rialzo del terreno o contro un arbusto, allora ci si dava una spinta e si ripartiva.    

Era divertente, come essere al luna park.

Quando si arrivò all’inizio del sentiero e ci alzammo in piedi le gambe non ci reggevano più.

Erano tutte un tremore. Ma c’era da scendere e allora andammo lo stesso. 

Rifacemmo al contrario tutto il percorso della mattina, lasciai il mio amico sotto casa sua e tornai alla mia. Mangiai qualcosa, feci la doccia, mi cambiai e andai al lavoro.

A quel punto ci sarebbe stato bene solo di infilarsi al calduccio sotto le coperte a far riposare i muscoli indolenziti. Invece dovetti affrontare il turno di notte. 

Non ricordo niente però di quello che successe, probabilmente nulla. Ma la mia presenza era comunque indispensabile. 

In ogni caso, almeno l’avventura della mattina, quella non me la scordo più.

(il Monte Serva – foto di Ylena Ichkova da Pinterest)

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