Sa dirmi dov’è l’Appia Antica?

Non ricordo il momento esatto, ma di sicuro, quando ho iniziato a fare l’imitazione dei miei genitori ero solo una ragazzina.  

Senza saperlo, feci come fanno gli imitatori veri. Presi una loro caratteristica e la amplificai, trasformandola nel lato dominante. Loro sapevano di non essere proprio così, ma sono sempre stati al gioco. 

Il risultato fu che mamma diventò una signora svagata ma allo stesso tempo sicura delle proprie affermazioni, che parlava come la Signorina Snob con la voce dell’orso Yoghi del parco di Yellowstone. Di babbo invece misi in risalto l’irascibilità, spesso compressa, che si esprimeva con grugniti e grattate di gola.

Le voci servivano per scopi diversi. Per stemperare momenti di tensione, per prenderli in giro bonariamente e per raccontare episodi di cui erano protagonisti interpretandoli. Come accadeva con i nostri animali, mi bastava intonare una frase con quella voce e già era chiaro che non ero io che parlavo, ma babbo o mamma.

Babbo si lamentava spesso che mamma esprimesse i propri concetti con locuzioni infinite e complicati giri di parole. A lui, per farsi capire, spesso bastava un colpo di tosse dal tono giusto. 

A un certo punto iniziammo ad andare al mare d’estate nel sud Italia. Partivamo la mattina, con l’Alfetta nera e la roulotte, e verso l’ora di pranzo eravamo ai Castelli Romani. Qui babbo aveva individuato una trattoria che faceva dei galletti buonissimi. Ne mangiavamo uno a testa, anche io e Paola, che ne andavamo matte. Lui in più ordinava anche un fiaschetto di Frascati.

Un giorno, dopo essere ripartiti dai Castelli, babbo non riusciva a ritrovare la strada per proseguire verso sud.

Avremmo dovuto percorrere l’Appia Antica ma ogni volta ci ritrovavamo sulla via sbagliata. Mamma avrebbe dovuto fare il navigatore, controllando la cartina e dando indicazioni. Ma non sempre funzionava. In ogni caso se c’era da chiedere indicazioni, toccava a lei, dal momento che sedeva sul lato del passeggero.

  • Asvero, accosta che chiedo a quel signore.

Mentre apriva il finestrino a manovella, cercava di attirare l’attenzione dell’uomo, un tizio sbracato in ciabatte e pantaloni corti, dal ventre prominente, che la guardava con aria interrogativa.

  • Signore, mi scusi se la disturbo. Dal momento che dobbiamo andare verso sud, avremmo bisogno di trovare l’Appia antica. Lei saprebbe indicarci come raggiungerla, per favore? 

Mentre mamma parlava, babbo soffriva. Per cercare di non mostrare la propria insofferenza, stringeva i pugni e li batteva sul volante, scuotendo la testa al ritmo della metrica del poema di mamma, mentre diceva sottovoce, troppo lunga, troppo lunga. 

Noi, dietro, trattenevamo il fiato.

Il signore ascoltò tutta la tiritera di mamma senza battere ciglio. Poi, non appena lei ebbe finito di parlare, disse.

  • Ci stai sopra.

E questo fu tutto.

A quel punto mamma, incredula, avrebbe voluto chiedere se avesse capito bene e se quella fosse veramente l’Appia antica, ma babbo aveva già fatto fare un balzo in avanti alla macchina senza aspettare un secondo di più. 

Da allora la storia dell’Appia Antica è entrata a pieno titolo negli episodi di famiglia da citare in casi analoghi o da ricordare semplicemente per farsi una risata. 

Interpretata sempre con le voci giuste, naturalmente.

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