My first time in New York, alone

La prima volta che andai a New York ricevetti  un sacco di raccomandazioni. La più importante era, una volta scesa al Jfk, passato il controllo passaporti e ritirati i bagagli, di andare dritta al punto da cui partivano i taxi gialli. Mettermi pazientemente in fila e per nessun motivo, ripeto, nessun motivo, farmi abbindolare da uno dei tanti tassisti abusivi che avrebbero cercato di agganciarmi. 

Ti allettano con i prezzi bassi ma non puoi sapere se quando arrivi a destinazione ti chiedono più soldi. E a quel punto che fai? Non hai nemmeno un ente a cui fare reclamo. Paghi e basta. 

In quegli anni tra l’altro New York stava appena iniziando a perdere l’immagine di città in mano al crimine che l’aveva accompagnata per tutti gli Ottanta, grazie al sindaco Rudy Giuliani e alla sua tolleranza zero, per cui non c’era molto da scherzare. 

Prima di partire poi, avevo fatto un giro in libreria, la Canova di Treviso dove abitavo all’epoca, e avevo trovato un libro che mi aveva catturato subito, New York per donne sole, dove l’autrice diceva che si poteva girare tranquillamente per la città pur stando attente ad alcuni accorgimenti, tipo non farsi riconoscere come turiste dispiegando la mappa della città in mezzo alla strada, non mostrare rotoli di banconote ad ogni apertura di portafoglio e dare sempre l’idea di essere in attesa di qualcuno. Poi infilava un capitolo con gli indirizzi a cui rivolgersi in caso di stupro, spiegando le numerose probabilità che potesse succedere.

Rovinandomi tutte le notti prima del viaggio.

In ogni caso, l’ultima mezz’ora in aereo la passai esercitando il mio inglese mentre chiedevo a tutti i passeggeri se volessero condividere un taxi con me.

Quando arrivai al ritiro bagagli non avevo ancora trovato nessuno. 

Mi incamminai verso l’uscita con i miei valigioni sul carrello e tentai un’ultima volta con una ragazza alta e con i lunghi capelli biondi. 

Perché no, disse.

Si chiamava Helen ed era sudafricana. 

Prima ancora di uscire dalle porte scorrevoli un tizio si precipitò verso di noi, proponendoci un taxi per Manhattan a quaranta dollari. 

Helen disse, va bene, ignorando la lunga fila di passeggeri in attesa sulla destra, al terminale dei taxi gialli.

E fu così che la prima raccomandazione svanì come una bolla di sapone.

Salimmo su un’anonima macchina bianca guidata da un pakistano e partimmo alla volta della grande città.

Helen studiava moda, viveva nel fashion district e sarebbe scesa prima di me, lasciandomi da sola per l’ultimo tratto di strada. Era già passata la mezzanotte. 

La prima volta che vidi lo skyline mi sembrò di guardare un film alla TV.

Quando arrivammo downtown, intorno all’una, la ragazza che mi avrebbe ospitato in bed&breakfast mi stava aspettando. Il tassista fu gentile, si preoccupò di parlarci al citofono e portò le mie valige fino al portone e non mi chiese nessun dollaro in più di quanto pattuito. 

Anche la ragazza del b&b era stupita di non vedere un taxi giallo ma io non ero in grado di spiegarle alcunché. 

Lei invece iniziò a parlare e non smetteva mai. Salimmo a casa in ascensore, mi mostrò la mia camera, il bagno, il divano dove dormiva lei, in salotto.

Oh, dissi, avrei potuto dormire io qui, senza problemi.

No. Tu paghi, disse, tu dormi nel letto.

In cucina aprì il frigorifero gigante e mi mostrò quale fosse il mio ripiano. 

Mi disse che mi spettava la colazione ma per il resto avrei dovuto arrangiarmi. Tanto c’era un negozio di coreani a ogni angolo, aperto ventiquattro ore su ventiquattro, non avrei avuto problemi a fare la spesa in qualsiasi momento.

Poi aprì lo sportello del congelatore e tirò fuori un enorme pene di plastica trasparente ripieno di un liquido blu. Capii che voleva che lo vedessi prima di trovarlo da sola e pensare chissà che. Mi spiegò lei quello che avrei dovuto pensare ma non capii una sola parola. Tra l’altro avevo un sonno che non stavo in piedi e sinceramente non mi importava niente del suo enorme pene blu.

Feci una risata e le feci capire che andava bene così mentre lei si affannava nella sua spiegazione. 

Finalmente andai a letto, un bel lettone alto con due materassi e quattro cuscini dove si dormiva da dio. Nonostante tutto quella notte non chiusi occhio tra l’eccitazione di essere a New York e il jet lag. Per fortuna il giorno dopo era domenica, così avrei potuto riposarmi un po’. Stetti in quella casa quasi un mese, ma presa dalla città e da tutti i miei impegni con la scuola e gli amici, dimenticai del tutto il grande pene blu.

Man mano che il mio inglese progrediva avrei potuto azzardare anche un dialogo più impegnativo con la mia padrona di casa. 

In realtà andò proprio così. Ma il mistero del grande pene blu non fu chiarito mai più.

Foto di Ryan McGuire da Pixabay

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