Un vecchio incidente

C’è un punto, sulla strada vecchia tra Colle e Poggibonsi, dove il pensiero si fa scuro. È un punto tra la sede dei pullman e il nuovo ospedale. Ogni volta che ci passo so che lì è successa una cosa terribile, ma il ricordo è impreciso e vago.

Non c’è nemmeno una lapide, un mazzo di fiori. Niente. 

Fu qualcuno a dirmelo, forse ne parlavano i miei, non so. 

C’era una macchina piena di ragazzi. Andavano forte, scherzavano, forse bevevano. 

Il gioco, forse, prevedeva di aprire lo sportello in curva.

Una sfida al destino. Forse l’avevano già fatto, forse era una cosa che usava fare per divertirsi a provare un brivido in più.

Quella volta una ragazza morì. Cadde dalla macchina e battè la testa sull’asfalto.

Quando ero piccola, e anche per un po’ di anni dopo, la cronaca erano solo i grandi avvenimenti, quelli di cui parlava il telegiornale, cose che interessavano tutta l’Italia. Un incidente tra Colle e Poggibonsi non rientrava tra queste. E la cronaca locale, sui giornali, era ancora di là da venire.

Io non lo so chi fosse questa ragazza. Era più grande di me, non so nemmeno se la conoscevo, anche solo di vista. 

Ricordo che all’epoca rimasi sconvolta. Non solo non capivo il perché di un gioco così, ma la vaghezza delle notizie, la mancanza di una cronaca precisa e dettagliata, mi lasciava un senso di ansia e di paura indefinito, che però si allargava fino a comprendere altre cose, altri pericoli, altri giochi. Era come se d’un tratto tutti potessero morire facendo una cosa semplice, sciocca. 

Il fatto dello sportello aperto non era sicuro. Era preceduto da parole come sembra, pare. 

Quindi non si sapeva per certo. E allora, che cosa era accaduto veramente? Qual era il motivo per cui una ragazza era morta?

Poi c’era il potere dell’immaginazione. Quello per cui delle parole dette in un certo modo, con frasi smozzicate e parti eluse, nella mia mente diventavano un film realistico per cui quell’incidente riuscivo a vederlo come se fossi stata lì.

Lo vedo anche oggi, ogni volta che passo di lì. 

Vedo una macchina rossa, di un rosso stinto, opaco, come erano i colori delle macchine negli anni Settanta. E vedo la testa di una ragazza, capelli lunghi e mossi, castani con le punte bionde, che sbatte sull’asfalto. 

Poi penso agli altri. A come saranno rimasti quando hanno visto che cosa era successo, come era finito il loro gioco. E non riesco a pensare, come faccio sempre, come saranno state le loro vite da allora in poi. Che cosa è cambiato in quel momento. Se hanno capito, se hanno negato, se hanno covato una rabbia profonda o un profondo senso di impotenza.

Non so nemmeno immaginare quante cose si possano provare quando vedi succedere una cosa così. E se poi se lo sono dimenticato, anche a forza, perché non è facile viverci con una cosa così, o se la rivivono sempre, quando passano di lì ma anche in altri momenti, e non ne parlano mai.

Chissà, magari è anche per questo che ho voluto fare la giornalista. Per sapere le cose che succedevano e come succedevano, per vincere quel senso oscuro che ti gira dentro quando le cose non le capisci e non puoi pensare che quella cosa, in quel modo, tu non la farai mai, perché ora lo sai.

Foto di NeiFo da Pixabay

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