Ci sono delle storie che sono talmente brutte e immotivate che ti chiedi, ma perché dovrei raccontarle. E infatti ormai sono anni che questa storia me la tengo dentro. Con l’unico risultato di farla affiorare, ogni tanto, alla memoria, con il suo carico di amarezza.
Poi, tra i motivi per cui si racconta una storia c’è anche la volontà di lasciarla andare e sperare quasi di non ricordarla più.
Per questo la racconto.
Un giorno di non molti anni fa ero andata in ospedale da sola per un intervento di poco conto. Il reumatologo mi aveva detto che avrei sentito come un pizzicotto, niente più. C’era da trovare un nome al male che mi affliggeva, a quei misteriosi dolori che aggredivano i miei muscoli rendendomi difficili i movimenti. Quel giorno mi aspettavano in uno dei piani super sotterranei dove avrei trovato due medici giovanissimi, probabilmente specializzandi, più interessati alle carriere dei loro colleghi e a qualcosa che sarebbe dovuto accadere in Sardegna che a me.
Io me ne stavo stesa sul lettino mentre uno di loro armeggiava con un bisturi nella mia bocca e parlava con l’altro. Io non esistevo.
Il bisturi intanto armeggiava molto perché non riusciva a trovare quello che cercava, ovvero delle ghiandole salivari da asportare dall’interno delle mie labbra per sottoporle a un qualche esame. Non proprio un pizzicotto. Almeno mi avevano fatto una puntura di anestetico.
Uscii abbastanza tramortita con l’unico pensiero di arrivare a casa il più presto possibile e infilarmi a letto.
Pagai il posteggio, entrai in auto e feci per uscire a retromarcia. Impossibile. C’era un suv piantato dietro che non si muoveva. Gli lasciai il tempo per passare, ma quello niente. Mi sporsi dal finestrino con il mio labbro gonfio ricucito con i punti e la mia voglia di andare a dormire e gli chiesi se per favore mi faceva passare.
Era un tizio anziano. Mi disse, vada lei in avanti.
Non potevo. Avevo messo la macchina in uno dei posteggi a lisca di pesce nella prima fila a sinistra del piazzale scoperto.
Non posso, dissi.
E lui, può può. Giri tutto a sinistra.
Il genio pretendeva quindi che io ruotassi la macchina di novanta gradi e uscissi da un posto libero a lisca di pesce nella corsia opposta, disposto nel senso contrario al mio, per sbucare nel corridoio contro il senso di circolazione, pure.
Scusi, che cosa le costa andare indietro e lasciarmi passare?
Nel frattempo si stava formando una fila di auto dietro al suv.
Spostati, cretina, sei proprio una puttana, disse una voce di donna.
Volsi lo sguardo perplessa verso una signora bloccata sull’ultimo metro della rampa in salita, che mi restituì uno sguardo altrettanto perplesso.
Deficiente, muoviti.
La voce di donna veniva dal suv dell’anziano, era la moglie, seduta accanto a lui.
Senta, io di qui non mi muovo. Se si sposta, esco, altrimento resto qua.
Non avevo molto tempo per stare dietro a queste manfrine. Una volta pagato, il biglietto ti dà quindici minuti e poi scade. Tra l’altro era l’ora di pranzo e il parcheggio era abbastanza libero, il tizio avrebbe potuto scegliere altri posti anziché intestardirsi a volere il mio.
Alla fine l’uomo si decise a mettere la retro, costringendo tutta la fila a fare altrettanto e io potei fare la mia manovra.
Calcolai mentalmente il tempo che mi mancava alla scadenza del biglietto e mi fermai giusto un minuto per rendergli il favore. Poi, esausta, ingranai la prima ed uscii dal parcheggio assolato.
Senza aver potuto trarre nemmeno una morale o un qualche senso da questa storia.