Nell’autunno del Duemila ero a San Francisco con un amico. Un giorno, mentre passeggiavamo in un parco, conoscemmo Rob. Ci chiese se volevamo salire anche noi su una pietra da dove in passato i poeti declamavano le loro composizioni e così diventammo amici. Rob era un biondino alto e magro che vestiva di nero e vendeva accessori per animali on line. Nel corso della vacanza ci vedemmo più volte. Una sera venne a cena da noi con un’amica. Io preparai gli spaghetti con il pesto fatto in casa portati dall’Italia, il mio amico le cosce di pollo con le cipolle, che vennero buonissime, nonostante il forno con i gradi Fahrenheit.
Ci eravamo sistemati in un attico pieno di finestre a Pacific Heights, grazie ad un home exchange. Rob ci disse che nella casa di fronte alla nostra, ma al di là del parco, ci stava una scrittrice famosa, Danielle Steel, e che spesso i fan si aggiravano nella zona nella speranza di vederla. Un po’ più a sinistra invece abitava una ex sindaca di San Francisco che aveva fatto molto scalpore la volta che si era fatta intervistare da una tv mentre era sotto la doccia.
Una sera andammo noi a casa di Rob, poi uscimmo e lui ci mostrò alcuni luoghi dove Hitchcock aveva girato i suoi film. Come l’albergo con l’insegna intermittente di Vertigo, La donna che visse due volte.
Un giorno ci trovammo con la sua amica Vanessa, una ragazza molto ricca e un po’ sola, che pagò taxi, cibo e bevute a tutti senza batter ciglio. Con lei ci divertimmo a mimare un ingresso trionfale all’Opera immaginandoci camminare sul tappeto rosso in abito da sera con piume e lustrini, tra le risate divertite degli addetti del teatro. Con Rob e Vanessa andammo anche a una festa nel Marina District, dove il Cosmopolitan scorreva a fiumi. Trascorremmo il pomeriggio a bere cocktail e a cantare con il karaoke in giardino.
Una sera Rob, mentre passavamo sotto al municipio, ci raccontò la storia di Harvey Milk e di come, nell’anniversario della sua morte (e del sindaco George Moscone), la City Hall si accenda dei colori dell’arcobaleno.
Fu la cosa che mi colpì di più del lungo viaggio a San Francisco. Non riuscivo a credere che in un posto così bello e cosmopolita fosse successa una cosa così terribile.
In ogni caso, dal momento che San Francisco aveva scalzato il posto nel mio cuore fino ad allora occupato da New York, decisi che avrei fatto di tutto per tornare a viverci.
Il primo pensiero erano i soldi. Me ne sarebbero occorsi moltissimi, non solo per le leggi americane sull’immigrazione. San Francisco in quegli anni era al centro del fenomeno economico dovuto alla crescita delle imprese high-tech della Silicon Valley e si era conquistata il titolo di città più cara di tutti gli Stati Uniti.
Speravo che il mio amico mi lasciasse usare una foto che gli avevo scattato mentre si sfilava il maglione sullo sfondo dei grattacieli. Ero piuttosto convinta di potermi mantenere trasformandola in poster da vendere nel quartiere di Castro, simbolo della comunità LGTB di San Francisco.
Dopo aver scoperto la storia di Harvey Milk, pensai che avrei potuto scrivere un libro sulla sua vita (che sarebbe ovviamente andato a ruba in Europa e in America) permettendomi di vivere in California anche meglio che con il poster.
Quando tornai a casa cominciai a documentarmi e raccolsi un bel po’ di materiale da diversi siti on line. Pensai però che per scrivere un libro andando veramente a fondo in quella storia avrei dovuto trascorrere un certo periodo a San Francisco per raccogliere testimonianze e intervistare qualcuno che poteva averlo conosciuto di persona.
Insomma, qualche anno dopo arrivò il film di Gus van Sant con Sean Penn nelle vesti di Harvey Milk e io non avevo ancora scritto niente.
Nemmeno il mio amico mi ha più detto se potevo usare quella foto per i poster.