Il rapper farlocco

Sul treno regionale c’era questo ragazzino. Se ne stava in piedi fuori dallo scompartimento, vicino alle porte.

Lo vedevo dal mio sedile e avrei preferito non vederlo. 

Era un ragazzino sgradevole. Brutto. All’apparenza uno come tanti.

Pantaloni larghi col cavallo basso, giubbotto felpa con cappuccio, le eterne cuffiette nelle orecchie, sneaker ai piedi. 

Tuttavia c’era qualcosa che lo rendeva un prodotto tarocco della cultura hip hop. Una sorta di copiaticcio. Anche se muoveva la testa al ritmo della musica sparata nelle orecchie come da copione. I pantaloni troppo pieni sui fianchi e nella parte alta delle cosce completavano il quadro. Un rapper farlocco.

Insomma, era brutto. Ma proprio il suo essere brutto era allo stesso tempo un richiamo irresistibile. 

Da un po’, non saprei dire quanto, ho perso il gusto del viaggiare. Prima mi lanciavo, tutta valigia e adrenalina, e pensavo solo a quando sarei arrivata. Ora ho paura di perdere il treno, o quel che che è. Arrivo in anticipo, tutta organizzata, documenti a posto, panino di emergenza e bottiglietta d’acqua che fino al Duemila a San Francisco non l’avevo mai vista portare da noi in Italia. Poi, una volta sul treno nemmeno mi rilasso. A quel punto ho paura di perdere la fermata, la coincidenza, di sbagliare binario. 

Ultimamente prendo abbastanza spesso il regionale per Livorno. In certi viaggi i cambi sono addirittura due, Empoli e Pisa, tanto per raddoppiare lo stress.

Al ritorno va meglio, almeno non ho l’ansia del ritardo.

A dire il vero, specialmente le prime volte, mi agitavo anche al ritorno. 

Una sera sull’Empoli-Poggibonsi c’era questo ragazzino brutto, in piedi, fuori dallo scompartimento. 

Quando viaggio ho sempre un libro in borsa. Poi però, sempre per la paura di perdere la fermata, finisco a fare giochini sul telefonino, che richiedono meno concentrazione e più batteria. 

Così feci anche quel giorno e ogni volta che alzavo la testa per controllare le stazioni il ragazzino brutto invadeva il mio campo visivo. 

A Castelfiorentino cominciai a prepararmi mentalmente alla discesa, a Certaldo avevo già messo su il giaccone. Mi alzai e mi ritrovai accanto al ragazzino brutto. 

Quando il treno si fermò, arrivò un tizio di corsa e chiese: Che stazione è questa, Poggibonsi?

E io, sì. Avviandomi verso l’uscita.

Il tipo scese nello spazio di un secondo, il tempo in cui rimasero aperte le porte. Manco il fantasma di Patrick Swayze in Ghost. Io cominciai a premere il bottone a fianco, ma non c’era niente da fare. Le porte rimanevano chiuse. Mentre mi agitavo, chiedendomi il perché di quella stranezza, il ragazzino mi fece, col tono di un Humphrey Bogart alle scuole medie: 

– Calma, signora, dove vuole scendere?

– A Poggibonsi…

– E allora è la prossima.

– Ma come? E questa che cos’era?

– Barberino.

Da allora ogni tanto sento una fitta di senso di colpa per quel poveretto volato giù come un razzo convinto, anche grazie a me, di essere arrivato a Poggibonsi. Ormai erano quasi le otto di una sera di autunno inoltrato ed era buio pesto. La stazione di Barberino non era niente di più che un punto indistinto nel mezzo della campagna toscana, deserta e abbandonata. Chissà se avrà trovato un mezzo qualsiasi per tornare a casa.

Il ragazzino brutto invece si rivelò veramente gentile. 

  • È questa la sua fermata, mi disse pochi minuti dopo, mentre scendeva anche lui.

Si rivelò decisamente anche molto più attendibile di me, in tema di fermate ferroviarie.

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