La casa del minestrone

Quando decisi di trasferirmi a Treviso, tantissimi anni fa, presi in affitto un appartamentino in periferia in una villetta a due piani, circondata da un piccolo giardino. La proprietaria, una signora anziana, viveva al piano di sopra.

Quando mi presentai, la signora stava facendo le pulizie per il mio subentro. La casetta non era un granché, l’arredamento in stile tardo ottocento appesantiva non poco, ma aveva una luminosa porta finestra che dava sul giardino, dove la signora coltivava un piccolo orto.

Dal portoncino sul retro si accedeva a un piccolo ingresso su cui affacciava la porta a vetri di casa mia e da dove partivano le scale per salire di sopra. C’era anche una cucina economica sulla quale sobbolliva tutto il giorno una pentola di minestrone.

La signora era originaria di un paesino del Bellunese. Il capo mi disse, povera te. Io amo Belluno, ma solo perché d’estate fa fresco e non ci sono le zanzare.

La prima notte dormii malissimo. Il letto, un catafalco in legno massiccio, aveva la rete sfondata, a forma di arcobaleno rovesciato.

Mi spostai sul divano, in salotto. 

Alle otto sentii qualcuno che muoveva freneticamente la maniglia della porta. 

Saltai su.

  • Chi è?
  • Apra, apra subito la porta…

Era la proprietaria. Chissà che cosa era successo per agitarsi così.

  • Buongiorno, dissi.

Si infilò subito dentro.

  • Ma che modo è questo di chiudersi a chiave? Qui stiamo nella stessa casa… Se si chiude dentro e io poi ho bisogno di lei, come faccio?

Rimasi a bocca aperta, forse stavo avendo un incubo.

  • Non c’è bisogno di chiudere… – continuò imperterrita -. Avrà mica paura che le rubi qualcosa? 
  • No, ma che c’entra…

Mi mancavano le parole. Non mi sarei mai aspettata una situazione del genere.

  • Io l’ho presa anche per avere compagnia, sa?

Cercai di convincerla che la porta chiusa non aveva alcun significato secondario, se non quello di delimitare lo spazio del mio appartamento, di cui peraltro pagavo l’affitto.

L’episodio segnò sicuramente una prima distanza. Per me, che capii che non c’era niente di scontato e tutto andava conquistato. Per lei, che cominciò a guardarmi con sospetto.

In quel periodo non lavoravo fissa in redazione, ma avevo una collaborazione esterna. 

Non avevo orari e dovevo usare il telefono. I cellulari erano ancora rarissimi e molto costosi, per cui le chiesi se potevo mettere la linea giù da me.

  • Ho parlato con mio figlio e mi ha detto di no, che poi magari lei è una di quelle che vanno via senza pagare e le bollette restano a noi.
  • Mi spiace, allora devo andare via. Io ho bisogno del telefono per lavorare.
  • L’inquilino di prima, un bel ragazzo, tanto perbene sa, si era comprato il cellulare…
  • Per me ora è inutile, – le dissi, – perché non so ancora se resto a Treviso o mi trasferisco a New York.
  • Ecco, lo sapevo che non aveva il lavoro… Vede che anche lei è costretta a emigrare?

Al tempo non conoscevo ancora tutta la storia dei migranti veneti, per cui le sue parole mi rimbalzarono come l’uscita della solita donnina con la testa piena di pregiudizi. 

Alla fine, almeno per il telefono, riuscii a spuntarla, ma la mattina in cui dovevano arrivare i tecnici della Sip, lei li precedette per convincermi a rinunciare.

Intanto il brodo sobbolliva, riempiendo la casa di un odore appiccicoso e dolciastro.

Dopo qualche giorno sembrò che le cose si stessero pian piano sistemando. 

Continuavo a chiudere la mia porta a chiave e avevo attivato il telefono fisso. 

In tarda mattinata facevo un salto in centro, in redazione, per parlare con il capo e decidere gli articoli della giornata. Per il resto, lavoravo al telefono o andavo a qualche conferenza stampa con la mia macchinina, una Fiat 500 rossa nuova (negli anni ‘90) che mi aveva regalato babbo. 

Un giorno, mentre stavo aprendo il portoncino, la vecchietta sbucò da una parte del giardino apparendomi alle spalle all’improvviso. 

  • Allora non è vero che ha un lavoro… 
  • Scusi, ma che dice?
  • Io la vedo sa, che la mattina si alza tardi e non ha un orario…
  • Guardi, non c’entra niente. Collaboro con il giornale, scrivo da casa, non ho un orario fisso, ma questo non vuol dire che non lavoro.   
  • Mah, sarà. Io vorrei sapere che cosa fa lei davvero… 

D’un tratto capii che cosa immaginava e la cosa mi riempì di rabbia. 

Cercai un’altra sistemazione, che trovai in una casa più vicina al centro e senza i proprietari fra i piedi, e le comunicai che me ne andavo.

Credo che sia stato l’affitto più breve della mia vita. Quindici giorni.

La linea telefonica, che feci trasferire nella nuova casa, durò anche di meno.

L’odore del minestrone, invece, ogni volta che ripenso a quella casetta di periferia, mi pare di sentirlo ancora.

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