Se fosse un film probabilmente vedremmo le forbici volare in alto al rallentatore sullo sfondo del cielo azzurro. Un raggio di sole brilla sulla lama che rotea nell’aria.
Scorcio sui vigneti, paesaggio autunnale, uomini e donne che vendemmiano.
L’immagine improvvisamente accelera, la forza di gravità attira le forbici facendole cadere.
Poi avremmo sentito un urlo, e sarebbe il secondo ma ancora non lo sappiamo, e in primo piano sarebbe apparso un volto deformato dalla rabbia.
Quando ero al liceo alcuni compagni iniziavano la scuola qualche giorno più tardi per finire la vendemmia. Avrei tanto voluto farla anch’io, ma babbo e mamma erano irremovibili.
Se è il momento di andare a scuola, si va a scuola.
Una volta all’università, con gli orari meno stretti, potei finalmente partecipare anche io alla vendemmia.
Il momento più bello era al mattino presto, quando si camminava nella vigna ancora fradicia di rugiada respirando l’aria piena dell’odore pungente delle foglie di vite e della terra umida.
Poi arrivavano i trattori con le ceste e tutti noi, indossati i guanti e sfoderate le forbici, ci si disponeva nei filari per cogliere l’uva.
A metà mattina il sole cominciava a farsi sentire. Ma il lavoro più duro era quello dall’una in poi, quando alla calura del meriggio si aggiungeva la fatica del dopo pranzo e tirare fino alle cinque era tutto in salita.
Per poter vendemmiare era fondamentale conoscere un fattore. Non era facile trovare un posto e chi ce l’aveva lo teneva stretto, conservandolo di anno in anno.
Babbo ne conosceva uno, così alla fine fui presa anch’io.
Anche qualcuna delle mie amiche vendemmiava, ma in aziende diverse. In quella dove mi ritrovai non conoscevo quasi nessuno, a parte una vicina, più grande di me, di quando si stava in Campolungo.
Una mattina ero lì che tagliavo le ciocche d’uva e le buttavo in un paniere a mezzo con un tipo anziano con gli occhiali, quando mi sento afferrare da dietro e due mani mi stringono i seni.
Urlo.
Avvicino le braccia al corpo per difendermi.
Mi divincolo da quella stretta.
Fuggo.
Mi rifugio nel capanno magazzino che faceva da mensa e spogliatoio.
Mi manca l’aria, respiro a malapena.
TremoLa pelle mi formicola tutta del fastidio di quel tocco che mi scuoierei.Decido di andare a casa.
Mi raggiunge la vicina insieme ad altre due donne.
Cercano di calmarmi e di farmi ragionare.
Non andare. Se vai via ora perdi il lavoro.
Non dirlo al fattore. Se lo dici al fattore perdi il lavoro e poi non ti richiama più.
Ero piena di rabbia e decisa a far valere le mie ragioni.
A forza di parlare, le tre donne riuscirono a convincermi che nessuno si sarebbe preoccupato né scandalizzato per quello che mi era successo.
Sì, il tizio era stato un idiota e il gesto indubbiamente fastidioso. Ma son cose che accadono e una fa meglio a girare la testa dall’altra parte e andare avanti.
Tanto valeva che tornassi nella vigna e continuassi a raccogliere l’uva fino alla fine della vendemmia.
Cupa, in silenzio, tornai al mio filare e cercai le forbici che erano volate chissà dove.
Guarda che mi hai combinato, mi esce anche il sangue.
Il vicino di vendemmia, un tizio altrimenti silenzioso e apparentemente pacato, mi parlava aggressivo mostrandomi l’avambraccio.
Non capivo.
Che cosa è successo?
Mi hai tagliato con le tue forbici, guarda qua. Il tipo continua ad accusarmi e ad indicare un graffietto sulla pelle.
Ma scusi, ha visto invece che cosa è successo a me? E poi non l’ho mica fatto apposta, le forbici son volate.
Eh, intanto a me m’hai tagliato il braccio.
Ero attonita, mi sembrava di sognare.
Quello mi stava gettando addosso tutta la sua rabbia per un graffio sul braccio. Di fronte a quel taglietto però il gesto che avevo subìto, una cosa che la legge italiana oggi considera una violenza sessuale, scompariva, si volatilizzava.
Uno scherzo, una manifestazione di simpatia, un gioco.
Qualcosa per cui girarsi dall’altra parte e andare avanti.
Nulla.
Credo di aver finito i miei giorni di vendemmia. O forse no.
Non ricordo quello che c’è stato dopo.
A parte il buio.
E la rabbia.