È successo più di trent’anni fa, ma appena ho fatto quella curva, il paesaggio intorno rimasto immutato, mi sono ritrovata di colpo a rivivere quel giorno terribile.
Il giorno del mio primo incidente mortale.
Il capo disse che era l’ora che cominciassi anche io a seguire la nera, mi sarebbe servito per l’esame da professionista, e quella era l’occasione giusta. Un frontale sulla Cassia poco prima di Monteriggioni, venendo da Siena. Più o meno all’altezza della discarica abusiva di copertoni.
Partii. I due ragazzi venivano da Colle, più tardi avrei saputo anche i nomi, ma per fortuna, pensai, non li conoscevo. Il cassettino dell’auto, vicino all’accendisigari, era pieno di un liquido rosso. Sangue, come il rosso che era ovunque, sui sedili, dappertutto.
Presi i dati dai carabinieri, com’era successo, quando, la direzione delle auto coinvolte. Nel frattempo era arrivato anche il fotografo. Dopo un po’, come gli altri colleghi, tornai in redazione.
Dalle scrivanie fioccavano consigli. Fai così, non dimenticarti di citare il tale. Precisa che sono intervenuti i carabinieri. E i vigili del fuoco.
Intanto c’era da scoprire chi fossero i due e da trovare anche le foto.
La ragazza lavorava in un negozio di frutta e verdura, il ragazzo era un aiutante. Arrivarono le “testine”, come si dice in gergo giornalistico. Il nome della ragazza non mi diceva molto ma il viso sì.
Una telefonata dietro l’altra riuscii a capire chi era.
Era successo poche settimane prima. Una sera uscii, era già buio, e andai nel nuovo negozio di frutta e verdura in piazza Nuova, quello grande.
Quando arrivai a pagare la ragazza mi disse, te non sei di Colle, vero?
E io, certo che lo sono. Perché?
Perché sei diversa, mi disse, non ho visto nessuno come te fino ad ora.
Non so a che cosa si riferisse, di preciso. Ma ricordo perfettamente come ero vestita. Un lungo cappotto marrone di panno e un basco, sempre marrone, con una piuma, regalo di compleanno dei miei amici.
Il commento di quella ragazza mi rese felice, mi fece sentire internazionale, una cittadina del mondo come avrei voluto essere, e tornai a casa con il cuore più leggero.
Era terribile che fosse andata a finire così.
Qualche giorno dopo sentii un collega che rispondeva al telefono e faceva il mio nome. Oddio, ora che c’era?
Anche se me lo sarei dovuto aspettare con tutte le telefonate di protesta che ricevevano gli altri per ogni articolo di nera che scrivevano.
Il collega diceva, io la ringrazio a nome del giornale, ma di solito queste cose non si fanno.
Posso dirlo alla collega, a voce, ma niente più.
Ero tutta orecchi ma non riuscivo a capire che cosa stesse succedendo.
Messo giù il telefono, mi spiegò.
Era un parente della ragazza, mi disse. Voleva far pubblicare un articolo per ringraziarti per come l’avevi descritta bene. Per loro leggere il tuo articolo è stata una consolazione nel dolore e volevano farlo sapere a tutti.
Era vero. Non avevo sentito nemmeno io una cosa del genere prima di allora. Una punta di orgoglio si insinuò nella tristezza che la telefonata mi aveva risvegliato e la conservai nel cuore, insieme a tutto il resto.
Dice, continuò il collega, che se non si può scrivere l’articolo, avrebbero piacere che tu passassi da uno dei loro negozi perché si vorrebbero sdebitare.
Non lo feci, come mio solito. Sarebbe stato troppo imbarazzante andare a riscuotere un merito sulla morte della ragazza.
Parecchio tempo dopo però, mi capitò di passare per comprare qualcosa. C’erano due ragazze, le sorelle. E allora glielo dissi, chi ero.
Fu una piccola festa. Anche loro mi dissero la stessa cosa che mi aveva riferito il collega.
Conserviamo il tuo articolo perché con le tue parole ce l’hai fatta rivivere.
Finì tutto con un abbraccio, qualche lacrima ricacciata indietro e un enorme sacchetto di aglio e peperoncino essiccati (al tempo si usava) che mi vollero regalare.