Qualche anno fa abbiamo cominciato a vedere un gatto nuovo, un altro, girellare nei campi sotto casa. Un giorno che ero andata giù con mamma per sistemare la pompa dell’acqua, abbiamo chiesto al rumeno se fosse suo.
Disse di no, che anche lui lo vedeva girare da un po’, che gli aveva dato dell’acqua e qualcosa da mangiare, ma non era suo.
Il gatto era bellissimo e molto dolce, si faceva avvicinare senza problemi e aveva un pelo di seta. Di sicuro aveva una famiglia da qualche parte.
In ogni caso, poco tempo dopo salì fino a casa nostra. Così toccò a me mettergli un ciottolino con l’acqua e un altro con il cibo e tenerlo alla larga dagli altri energumeni felini di casa.
Fosse stato per me, l’avrei tenuto senza pensarci due volte. Mamma invece cominciò a martellarmi: questo gatto deve andare via, scrivi un appello per cercare i padroni, se non ci pensi te lo fo io ma lo metto nel bosco. E così via.
Qualcuno mi disse che in un certo ambulatorio veterinario c’era un appello per un gatto simile. Ci andai ed era vero. Cercavano proprio lui.
Un gatto siberiano.
Chiamai subito il numero indicato e, dalla descrizione che feci a un incredulo proprietario, sembrava proprio che fosse il gatto giusto. Poi misi giù e, come al solito in ritardo, pensai: azz, un gatto siberiano!
Uno di quei gatti che possono stare con gli allergici al pelo di gatto, uno di quei gatti che i figli di mia cugina vorrebbero comprare e per questo mettono da parte cinque euro su cinque euro per arrivare a mille.
Che bella sorpresa sarebbe stata per loro!
Finita la telefonata tentai di rientrare in macchina, ma ero rimasta chiusa fuori. Era bastato che scendessi per guardare dentro all’ambulatorio lasciando dentro le chiavi che per qualche motivo erano scattate le chiusure automatiche.
Meno male che avevo il telefono con me.
Richiamai il probabile proprietario del gatto e ci accordammo perché, dopo essere passato da casa mia a vedere se il micio era proprio il suo passasse nel posteggio del veterinario per aiutarmi a riaprire la macchina.
Finalmente arrivò, su un grosso suv. Era un padre giovane con un bambino di sette-otto anni al fianco, con il gatto stretto in braccio.
Abitavano in un altro comune ma in linea d’aria la loro casa non era molto distante dalla nostra. Era più che plausibile che il gattino si fosse allontanato per qualche motivo e, solo attraversando alcuni campi, fosse arrivato direttamente fino da noi.
I siberiani, mi disse il padre, in realtà erano due, entrambi cuccioli. Un giorno la famiglia era rientrata a casa e non li aveva più trovati.
Uno era ricomparso una settimana dopo, in un posto non molto lontano. L’altro invece, cioè il “nostro”, mancava ormai da una quindicina di giorni e avevano quasi del tutto perso la speranza di ritrovarlo.
Potevo immaginare la loro felicità. E la loro gratitudine, anche.
Mentre il babbo trafficava con la mia auto per riaprire lo sportello, mi avvicinai al bambino che teneva il gattino stretto in braccio.
- Fammelo salutare un’ultima volta, bello lui.
- È di razza purissima, fu la risposta, abbastanza bizzarra, del bambino.
Mi feci dire il nome, un’inutile accozzaglia di lettere che mi sforzai di dimenticare subito.
Poi ci fu una metamorfosi. Il piccolo viso si trasformò in una maschera, i muscoli del collo e la mascella tutti tesi e la bocca contratta in un ghigno da grande.
- Sono stati i vicini a portarlo via… lo so io, lo so, disse alzando il mento a rafforzare la sua accusa.
Non trovai alcuna parola con cui rispondergli.
Intanto il gattino si faceva accarezzare, morbido e rilassato.
- Ora però deve bere, ha sete. È tanto che non beve, disse ancora quel bimbo.
- Come lo sai?, gli chiesi.
- È fuori di casa da tanti giorni, ora deve bere e mangiare sennò muore.
Mi stavo innervosendo.
- Ma guarda che a casa nostra ci sono altri gatti ed è pieno di ciotole di acqua e cibo, e lui ha mangiato e bevuto ogni volta che ha voluto. E anche quelli del campo di sotto che lo avevano visto prima di noi gli hanno dato da bere e da mangiare…, dissi con il tono metallico della rabbia trattenuta.
- Ora devo chiudere il finestrino perché sennò scappa di nuovo, disse il nostro piccolo eroe, stringendo ancor più la povera bestiola a sé.
Ecco, se c’è una buona azione di cui mi sono pentita è questa. Anche se, a dire il vero, essendo cresciuta con la sindrome da Giovane Marmotta, di buone azioni di cui pentirmi ne ho collezionate un bel po’. In ogni caso sarebbe stato meglio telefonare ai bambini di casa e dire loro, ho trovato il gattino che cercate. Avrei avuto più soddisfazione. Probabilmente anche per il micio. E lo avrei chiamato Ivan, al posto di quel nome ridicolo da gatto di pezza.
Accanto al cartello del micio siberiano, nello studio veterinario, ce n’era un altro, di un gatto comune che si era perso, i cui proprietari promettevano una ricompensa per chi li avesse aiutati a ritrovarlo.
Il siberiano invece è stato riconsegnato gratis e senza un grazie, dopo essere stato accudito per giorni e pure con l’impegno della ricerca dei padroni.
La mia solita fortuna.