Il giorno delle isole veneziane

Ero arrivata da poco nel grande parallelepipedo della redazione di Mestre, quando un collega mi disse.

Vedo che domenica sei libera. Hai impegni?

No, perché?

Perché ti porterei a fare un giro in laguna. Dovrai pur conoscere questi posti se lavori qui. Ce l’hai un motorino?

No.

Non importa, ce lo faremo prestare.

La domenica mattina lasciai la macchina a casa di un altro collega da cui presi il motorino e partimmo alla volta del Tronchetto per salire sul ferry boat. 

Mi raccomando, disse l’amico, non aprire bocca, fai parlare me.

Perché?

Perché se sentono che sei toscana non vale la carta Venezia.

Sbarcammo al Lido coi motorini e puntammo verso il mare. L’amico decideva la direzione e io, che non avevo la minima idea di dove fossimo e dove andassimo, lo seguivo.

La prima cosa che vidi fu la massa imponente dell’hotel Des Bains. Scoprii che una delle massime aspirazioni per un veneziano è prendersi una capanna sulla spiaggia per l’estate. Quelli che amano i desideri irrealizzabili ne sognano una del Des Bains.

L’amico raccontava usanze e tradizioni del posto, ma dovevamo anche andare avanti, altrimenti non ce l’avremmo fatta a terminare il percorso che aveva in mente.

Dopo esserci lasciati sulla destra il biancore rigoroso del Palazzo del Cinema, ci si parò davanti una costruzione rosata adorna di cupole e torrette. 

Ma questo è un palazzo moresco, dissi.

Sì, in effetti lo chiamano anche così, disse l’amico. È l’Excelsior. Anche qui vengono gli attori e si organizzano eventi per il festival del cinema, come al Des Bains.

Pochi minuti e sembrava di essere in un altro posto ancora. Un piccolo villaggio di pescatori, pulito e ordinato, con le casette colorate. 

Qui aveva lo studio Hugo Pratt, dice l’amico indicando una casetta rossa sulla sinistra.

Chi, quello di Corto Maltese?

Proprio lui.

E subito sembra di respirare l’aria dell’isola Escondida.

Sempre a sinistra c’è un ristorante. Il nome non promette benissimo ma il mio amico si ferma a prenotare per la cena. 

Non si può passare di qui e non fermarsi da Scarso, dice. 

Arriviamo in una pineta, dove posteggiamo i motorini. Entriamo in un bar imbalsamato negli anni 60 e spuntiamo sul mare. 

Tende, capanne, sdraio, tutto è di stoffa a rigone bianche e verdi.

Ma io questo posto l’ho già visto… dico.

In Morte a Venezia, forse? 

Ecco. È qui che von Aschenbach osservava l’amato Tadzio ed è qui che alla fine veniva a morire, su una sdraio in riva al mare.

Facciamo il bagno spingendoci lungo i murazzi.

Guarda che acqua. Che dici, mi fa l’amico, non ti sembra di essere in Toscana?

Beh, sì. Già dalla pineta e dalla spiaggia con le dune, l’impressione era stata quella.

Mangiamo una cosa al volo al bar vintage e prendiamo un altro traghetto.

Ti ricordi di non parlare, vero?

Fra San Pietro in Volta e Pellestrina il mio motorino comincia a fare dei versi strani.

Cazzo, hai forato, dice l’amico guardando la ruota posteriore.

No! E ora?

Aspetta qui.

L’amico si dirige sicuro verso un baretto. Fuori ci sono delle persone che bevono intorno ai tavoli.

Si alza un tizio di mezza età, basso e tarchiato, dai capelli precocemente imbiancati. Si avvicina, guarda la gomma con occhio esperto e fa segno di seguirlo.

Tempo mezz’ora e il motorino è come nuovo. Il mio amico accompagna il nostro salvatore al bar e offre da bere a lui e ai suoi amici.

Ma basta così? Faccio io. Sì, sì, tranquilla. Qui con una bevuta si mette a posto tutto.

Intanto vediamo gente che arriva da parti diverse ma corrono tutti verso la laguna.

Andiamo anche noi. C’è una regata delle femene, con le vogatrici sulle mascarete e il pubblico urlante che incita l’uno o l’altro equipaggio.

Siamo arrivati quasi alla fine, ma ora c’è la parte più difficile. Te la senti di guidare su un marciapiede a filo d’acqua?

E io, certo, come no?

Qualche volta, penso mentre tengo lo sguardo dritto davanti a me, cercando di evitare con la coda dell’occhio la laguna alla mia destra e il murazzo alla mia sinistra, potrei anche stare zitta, però. E invece andiamo, e arriviamo. In fondo c’è la riserva naturale di Caroman (Ca’ Roman). Un amico del mio amico è intento a osservare gli uccelli del posto dalle fessure di un capannino di legno. Con un po’ di fortuna si potrebbe vedere anche un succiacapre.

Ora andiamo, dice dopo un po’ il mio amico, si è fatto tardi col contrattempo del motorino e dobbiamo rifare tutta la strada fino al Lido…

Oddio, di nuovo i murazzi?

Sì, potremmo anche andare in traghetto fino a Chioggia, ma poi sarebbe troppo lontano per tornare in motorino. 

A Malamocco mangiamo da Scarso. Il mio amico e l’oste si scambiano delle parole strane, caparossoi, peoci, canoce, e come per incanto arrivano in tavola spaghetti alle vongole e grigliata mista di pesce.

Poenta?

No no grazie.

Ma guarda che qui il pesce si mangia così.

Io preferirei il pane.

Poenta, dice l’amico all’oste.

E polenta sia. Qua è bianca, tagliata a fettine spesse e passata alla griglia. E con il pesce non è affatto male.  

Hai visto com’è per terra?

Guardo in basso. Non mi ero resa conto che avevamo camminato su un’unica distesa di gusci di molluschi tritati. 

La stanchezza, il sole e il vinello bianco giustificherebbero un bel riposino.

Su, è ora di andare, dice invece l’amico.

Bisogna arrivare al molo prima dell’ultimo ferry boat.

Ricordati di non parlare, eh.

Il nastro si riavvolge. San Lazzaro degli Armeni, i giardini della Biennale, l’Arsenale, San Marco, Santa Maria della Salute, la Giudecca, il Molino Stucky. Il buio lascia vedere solo le luci sulla laguna, ma un’ora e più di viaggio bastano per ripercorrere con la mente tutte le tappe di questa giornata.

Saluto l’amico, lo ringrazio e risalgo sull’auto. 

Chissà se immaginava che un battesimo veneziano così non l’avrei dimenticato mai più.

(foto tratta dal blog Pellestrina Azzurra)

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