Collotorto

Ho preso il mio primo gatto ancor prima di trasferirmi in campagna. Freeday era una gattina grigia tigrata che trovai alla Rocca di San Gimignano un giorno che ci ero andata da sola in motorino dopo un litigio con il mio ragazzo. Era così piccola da entrare nel bauletto di vimini che usavo come borsetta. Per tutto il viaggio miagolò a pieni polmoni col capino fuori ma alla fine arrivammo a casa sani e salvi. I primi mesi furono un po’ complicati. Ricordo che la mattina quando andavamo in cucina a fare colazione trovavamo sempre qualche nuovo disastro. Soprattutto barattoli rovesciati con il contenuto sparso ovunque. D’altra parte quelli non erano ancora tempi da gatto in casa. Il gatto era un animale da giardino o da campagna, infatti l’avevo preso proprio in vista della nuova casa. 

E poi non esisteva ancora il merchandising felino di oggi, non c’erano morbide cucce, lettiere coperte e sassolini di tutti i tipi, cibo variegato, negozi specializzati. I gattini si trasportavano nelle scatole da scarpe dopo averci fatto due buchi per farli respirare, per i bisogni c’era una cassettina in terrazza con la segatura e la pappa si comprava in barattoli grossi (da aprire con l’apriscatole) dai venditori di attrezzi per il giardinaggio.

Anche i croccantini dovevano ancora arrivare.

In ogni caso Freeday stava proprio bene.

Quando finalmente ci trasferimmo in campagna aveva già qualche mesetto, per cui appena arrivò la stagione giusta andò in calore. All’epoca non si usava nemmeno sterilizzarli, i gatti.

Una volta nati i gattini si cominciava con il passaparola fra i conoscenti, a volte si faceva pubblicare un trafiletto sul giornale.

Secondo il conteggio della mia sorella, Freeday di gattini ne avrebbe fatti cinquantaquattro in tutta la sua vita. Non so se nel conto rientra anche la cucciolata dei quattro che morirono, forse perché la mamma, ormai stremata, non ce la faceva più a nutrirli.

I gattini erano sempre diversi, secondo il padre del momento. Ogni tanto ne nasceva uno grigio fumo. Qualcuno ci aveva detto che era tipo certosino. Oltre al colore, si distingueva anche per il carattere, ancor più fiero e indipendente. A me sarebbe tanto piaciuto tenerne uno così, ma ogni volta, per ordine di mamma, dovevamo darli via tutti. I certosini andavano a ruba, ma alla fine anche gli altri trovavano sempre una nuova famiglia.

Freeday non sceglieva nemmeno sempre lo stesso posto per partorire. A volte andava nella legnaia, a volte nel garage. 

Una delle prime cucciolate venne alla luce nella parte esterna a nord della casa, sotto il poggio di tufo. Freeday si era sistemata dentro il guscio di un vecchio fornello a gas da campeggio appoggiato su un tavolino. Siccome il precedente inquilino ci aveva raccontato che intorno casa di notte giravano le volpi e una volta gli avevano mangiato tutti i gattini, prima di andare a dormire abbassavamo il coperchio per farli stare al sicuro.

Una mattina, andando a rialzare il coprifornello, mi accorsi di una testolina bianca e nera che ciondolava fuori. Sembrava un gattino decapitato. 

Urlai. Alzai il coperchio e controllai. Era vivo! Si muoveva, aveva il corpicino caldo. Gli era solo rimasto il collo completamente storto.

Ma chi era che aveva cercato di ucciderlo così?

Babbo, mortificato, ammise la sua colpa. Naturalmente non aveva cercato di uccidere nessun gatto.

Simona, disse, c’era buio e non avevo preso la pila, non ho visto che uno era rimasto mezzo fuori, ma non l’ho fatto apposta.

Insomma, venne fuori una mezza tragedia.

Però il gattino continuava a vivere come se non gli fosse successo niente. 

Nonostante il collo torto, giocava e saltava. Faceva esattamente tutto quello che facevano i fratellini.

Mamma cercò di sdrammatizzare scherzandoci su e siccome per ogni cosa che riguardava il gattino citava la locuzione latina obtorto collo, alla fine il micio fu battezzato Collotorto.

Quando i gattini ebbero l’età sufficiente per essere dati in adozione cominciarono a venire le persone a vederli.

Ovviamente Collotorto sarebbe rimasto con noi. Chi mai avrebbe voluto prendere un gattino così? E poi, sarebbe sopravvissuto ancora a lungo? Che vita lo aspettava?

Ci facevamo queste domande ogni giorno, mentre lui se ne faceva un baffo e continuava a crescere come gli altri.

I primi che si presentarono furono una ragazza col fidanzato. Non ricordo come ci avessero trovati, se avevano a che fare con gli alunni di mamma e babbo, se erano clienti del negozio di zio o se avevano letto l’appello sul giornale.

In ogni caso mostrammo loro con orgoglio i tre gattini sani, tutti bellissimi. Da una parte c’era anche Collotorto, di cui raccontammo la tragica sventura, ma dando per scontato che lui, poverino, fosse fuori dai giochi.

Ricordo che il momento della scelta si protrasse per un bel po’. La ragazza non riusciva a decidersi su quale gattino volesse prendere. E noi lì a decantare i pregi delle femmine e subito dopo quelli dei maschi, a tessere le lodi del mantello pezzato e poi di quello tigrato. 

Lei non diceva nulla, sembrava pensare ad altro. 

Alla fine puntò il dito verso uno dei gattini e disse: ho deciso, voglio quello.  

Era Collotorto.

(foto di Asvero Pacini)

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