Per un breve periodo della mia vita è capitato che acquistassi abiti costosi e accessori di marca. Poi non più.
In ogni caso ogni tanto avevo un capo che amavo in modo particolare, al di là che lo avessi pagato un botto o sette euro al mercato. Tipo una camicia bianca di cotone elasticizzato con qualche galetta al collo, in cui mi sentivo bene a prescindere.
Una decina di anni fa capitò che vincessi un premio giornalistico. Avrei potuto essere felicissima, e lo ero, ma ero anche molto preoccupata per la presenza di una persona, fra i miei colleghi, che sapevo ne avrebbe sofferto molto e non avrebbe mancato di farmelo sapere. Era già successo in un’altra occasione simile.
Ora si dà il caso che quella persona fosse assente per un periodo abbastanza lungo per cui ritenni che per quella volta forse avrei potuto anche star tranquilla. Andai alla cerimonia della consegna, una cosa strepitosa sull’isola di Mazzorbo, nella laguna veneziana. Riconoscimento, intervento, ringraziamenti, doni. Fra questi anche un enorme mazzo di fiori, una montagna di gigli bianchi.
Quando tornai a casa, a notte inoltrata (ci sarebbe anche una storia legata all’andata, con gomma forata e auto presa in prestito al volo), mi fu subito chiaro che in casa con quel mazzo non avrei potuto convivere.
Dovevo scegliere. O io o lui.
La mattina dopo lo portai al lavoro sistemandolo su una cassettiera a torretta vicina alla mia scrivania in un ambiente molto più grande del mio appartamento.
Per una settimana o più il mazzo di fiori fece bella mostra di sé sulla cassettiera a colonna, con tutti i suoi profumi e colori.
Finché un lunedì quella persona rientrò.
Non ricordo quale occasione di litigio escogitò quel giorno, ma non dimentico la frase che a un certo punto urlò, puntandomi il dito addosso.
“Tu e i tuoi fiori di m…, ci ha rotto i c… qui non possiamo nemmeno respirare”. Con la chiosa, a noi dei tuoi premi non importa un c…. di nulla.
Vabbè, ormai anche i gigli il loro tempo lo avevano fatto, potevano lasciare il vaso. Mi alzai cercando di mantenere una certa flemma, afferrai il mazzo e lo portai in bagno per gettarlo nel secchio.
Purtroppo quel giorno indossavo la mia amata camicia bianca da quattro soldi che, nell’operazione, si macchiò indelebilmente di polline sulle maniche.
Dopo vari tentativi falliti, cercai una tintoria che togliesse quelle tracce gialle.
Purtroppo, per un motivo o per l’altro, nessuna sembrava disposta ad eseguire quel particolare intervento. Finché ne trovai una che si disse disponibile.
Già al telefono, mentre esponevo il problema, mi sentii la regina Elisabetta. La lavandaia mi trattava con un misto di deferenza e un tocco di affettuosa complicità.
Accettai senza batter ciglio la cifra che mi propose per la smacchiatura, di gran lunga superiore al costo della camicia. Consegnai il capo accolta dalle guardie a cavallo e il tappeto rosso, infine il giorno stabilito mi presentai trionfalmente in lavanderia per il ritiro.
Che brutto momento! Di colpo non ero più la regina Elisabetta, ma nemmeno l’ultimo dei suoi stallieri.
La lavandaia mi allungò con malagrazia la camicia impacchettata nel nylon dicendomi con aria di sfida e malcelato disprezzo.
“Questo è tutto quello che ho potuto fare… che poi io pensavo che la camicia fosse almeno di un certo valore”.
Come mio solito ci misi un po’ a capire che cosa intendesse dire. Ma a quel punto avevo già pagato, preso la camicia ed ero uscita dal negozio.
Anche stavolta avevo conosciuto un bel personaggio.
Mi sono chiesta per anni che film si fosse fatta nella sua testa su quella camicia col polline e di come io, ahimé, glielo avessi infranto.