if you’re going to san francisco…

thomas, io e alessio

In seguito abbiamo riso fino alle lacrime di quel momento. Ma quel giorno io piansi veramente, anche se di gioia.
Eravamo a San Francisco per una vacanza di tre settimane, con scambio casa. Una coppia americana sarebbe volata in Italia per stare nel mio appartamento in Toscana mentre Alessio, per dare anche lui un contributo, aveva lasciato loro la sua auto.
Arrivammo all’aeroporto in un pomeriggio di inizio ottobre del 2000. La padrona di casa, una giovane americana in abiti casual, ci stava già aspettando all’uscita con l’immancabile bottiglietta d’acqua minerale in borsa. Dopo le presentazioni, i saluti e gli abbracci salimmo sul suv che per il resto della vacanza sarebbe diventata la nostra auto.
Gli eucalipti che costellano la strada dall’aeroporto al centro della città davano al posto un’aria familiare anche se eravamo in California. La periferia era tutto un fiorire di enormi palestre segnalate da gigantesche insegne luminose.
San Francisco, la città del fitness.

La casa di John e Mary era in una zona residenziale fra le più eleganti di San Francisco. c’è anche un film che si chiama così. Pacific heights. L’appartamento, in sacramento street, era l’attico di un palazzo molto alto con due pareti piene di finestre, nove in tutto, che affacciavano su Lafayette park, almeno quelle rivolte a nord. Noi andavamo a fumare sul tetto, da dove si vedeva tutta san francisco e anche oltre.
In casa c’erano delle piante che in quei giorni avremmo dovuto curare noi. Come il gatto, che aveva però una lettiera rotante e autopulente. Il cane, un pastore tedesco che ci fu presentato poco dopo il nostro arrivo, invece era stato affidato a una dog sitter. A San Francisco, ci accorgemmo poi, pareva essere un’occupazione molto diffusa.
L’America era ancora grande e invincibile. E il padrone di casa, un bianco grassottello che evidentemente guadagnava anche molto bene, ebbe anche delle uscite un po’ infelici da americano di prima dell’11 settembre.
San Francisco, la città della new economy.

Davanti a casa nostra c’erano due palme altissime, simbolico accesso al parco in cui c’era sempre qualcuno che correva o che giocava con un cane. Gli animali avevano anche un loro spazio riservato. Ma la cosa più strana era che con tutti quei cani in giro non c’era nemmeno una cacchetta per terra. Eppure percorremmo la città in lungo e in largo più e più volte. A parte la buona educazione degli abitanti del posto, c’era anche un motivo preciso che avremmo scoperto solo in seguito.
Camminavamo tutto il giorno. La mattina preparavamo a turno la colazione. Caffè americano, che Alessio si ostinava a fare con il doppio o il triplo di polvere rispetto al necessario, fette tostate e imburrate, marmellata, succo d’arancia. Dopo uscivamo a piedi per gironzolare qua e là oppure prendevamo il suv e andavamo da qualche parte. A far la spesa, per esempio. O sull’oceano.
A Ocean beach. Lì vicino ci fermammo a mangiare in un posto con la vetrina sulla strada e tutto pieno di bandiere. Sembrava di essere in uno di quei film americani dove la cameriera passa di continuo a riempire le tazze di caffè. Poi mettemmo i piedi nell’acqua del Pacifico, ma era gelata. Nemmeno pensabile fare un bagno.
San Francisco non è Los Angeles.

Un giorno, passeggiando in un parco, conoscemmo Rob. Era salito su un masso e declamava poesie. quando passammo ci fermò e ci chiese se volevamo recitare anche noi nel poetry corner. Mi pare proprio che lo facemmo anche se non ricordo la poesia né la lingua in cui la declamammo.
Rob era carino e simpatico. Come lavoro vendeva accessori per pet, animali domestici, su internet. Quel giorno era con un amico. Rob lo rivedemmo più volte durante quel soggiorno, l’amico no.
Una sera Rob ci accompagnò a fare un giro in città. Andammo all’opera e ci facemmo le foto facendo finta di uscire dal teatro scendendo la scalinata. Una sorta di commesso all’esterno rise con noi mentre ci pavoneggiavamo come divi sul red carpet e ci fece pure qualche scatto. Inevitabile pensare al fastidio che avrebbe suscitato la stessa situazione davanti a un teatro italiano.
San Francisco la friendly.

Poi vagammo in cerca delle tracce di Hitchcock. L’albergo della donna che visse due volte, quello con l’insegna luminosa intermittente. Per la baia degli uccelli saremmo dovuti andare diversi chilometri più a nord, a Bodega Bay, ma noi arrivammo soltanto fino a Sausalito, dall’altra parte della baia, pagando il pedaggio sul Golden Gate.
In città di riferimenti hitchcockiani ce n’erano quanti se ne voleva. Il campanile della chiesetta dalla quale kim novak volava sotto lo sguardo atterrito di james stewart era un po’ più a sud, a Mission, nel quartiere messicano.
Un’altra volta rob venne a cena a casa nostra con un’amica. Io preparai gli spaghetti che avevo portato dall’italia con il pesto fatto in casa. Alessio cucinò coscette di pollo con cipolle destreggiandosi con qualche difficoltà fra i fahrenheit del forno americano. Comunque vennero perfette e lì si incrinò la mia prima, e già quinquennale, esperienza vegetariana.

Una sera, alla festa dei vicini di casa, conoscemmo thomas.
Appena mi vide mi venne incontro, quasi mi conoscesse già, si presentò e ci mettemmo a parlare. Alessio, dopo, fece delle battute sul fatto che quel ragazzo si facesse troppe lampade abbronzanti. Non aveva capito che Thomas era di origine indiana. Pellerossa. Anzi, metà irlandese, come il padre, un quarto messicano e un altro quarto nativo, da parte di madre. una volta che dissi, non ricordo a proposito di che, “ho scoperto una cosa”, Thomas commentò: “se l’hai scoperta allora è tua, prendila. Funziona così”.
Ecco, cristoforo colombo e la scoperta dell’america. Evidentemente certi traumi non guariscono mai.
Ci scambiammo i numeri di telefono.

Un giorno thomas venne a casa per insegnarci a fare le zucche di halloween. Portò tutto lui, zucche, coltelli e candele. Ci divertimmo come bambini.
Un’altra volta mi accompagnò a fare un giro a sonoma valley, dove fanno il vino e ci sono molti proprietari di aziende di origine italiana e anche toscana. Durante una degustazione ricordo che sentivo parlare di un tal Luca in continuazione. Tutti mi chiedevano, visto che ero italiana, se lo conoscessi. “Oh Luca… Do you know Luca?”. Non so come a un certo punto capii finalmente che si trattava di Lucca, la città di origine dei loro avi.
San Francisco, la città del vino.

Al ritorno da sonoma, dove mangiai una pasta al forno “all’italiana” farcita con tutti gli elementi possibili esistenti in gastronomia, thomas mi mostrò il suo posto preferito a san francisco. Il padiglione delle arti. Pavillon of fine arts. Ormai era calata la notte. Mi fece stendere a terra al centro del terreno coperto dalla cupola neoclassica, poi si stese accanto a me e mi fece vedere da quella prospettiva che cosa gli piaceva così tanto. Guardare il cielo le stelle e le luci di san francisco girando come la lancetta di un orologio.

Era ottobre. Non l’avevamo fatto apposta. Eravamo andati in quel periodo semplicemente perché per me cadeva alla fine del lavoro estivo. Ma chiunque trovassimo si complimentava con noi per aver scelto la stagione più bella dell’anno a san francisco. A ottobre lì è praticamente estate.
Tutti citavano mark twain. “The coldest winter was the summer I spent in san francisco”. Oh, la ripetevano tutti, a cominciare dai nostri ospiti che ci avevano accolto proprio con quella citazione prima di partire per la loro vacanza in italia. L’inverno più freddo? L’estate che passai a San Francisco, per la cronaca…

Poi c’era quella canzone di scott mckenzie, a cui prima di allora non avevo fatto veramente caso.
If you ‘re going to san francisco, be sure to wear some flowers in your hair….
Se vai a san Francisco metti dei fiori fra i capelli.
Mi risuonava in testa, soprattutto dopo i giri al quartiere hippy, haight ashbury, e quando tornai in italia cominciai a cercarla con scarsi risultati. Alla fine qualcuno mi disse che l’avrei trovata nel doppio cd della colonna sonora di Forrest gump.
San Francisco, la città dei figli dei fiori.

Un giorno andammo con Rob a una festa a casa di amici a Marina, un distretto di san francisco sotto al golden gate bridge. Con lui c’era anche vanessa, una ragazza che avevamo già conosciuto la sera dell’uscita dall’opera. Era alta, bionda e molto carina. Probabilmente anche ricca perché voleva pagare sempre tutto lei, nei bar e nei taxi e senza mai dividere le spese. Rob quando protestavamo faceva un movimento con gli occhi come a dire: “lasciamoglielo fare, se a lei piace così…”
Alla festa facevano dei cosmopolitan da urlo. The best cosmo in san francisco disse il padrone di casa, mentre versava quel liquido rosa ovunque, già molto avanti evidentemente con i cocktail bevuti. The best cosmo in san francisco a dire la verità l’avevamo bevuto già la prima sera in un ristorante semi italiano in centro dove ci avevano portato i padroni di casa.
Il ragazzo-barista ci spiegò anche la ricetta nel dettaglio. Inutile, si sa benissimo che certe cose le puoi fare solo nel loro posto di origine.
Dove lo trovi in italia il succo di cranberry? cavolo, non abbiamo nemmeno una parola per tradurlo, (cioè sarebbe mirtillo palustre, dimmi te…) figuriamoci il succo…
Ovvio, qualcuno usa il mirtillo ma non è la stessa cosa. E infatti il mirtillo, in inglese blackberry, è viola e il cranberry rosso-rosa. E non vale nemmeno il lampone, che infatti è raspberry…

Anche quella della festa a Marina era una delle varie case che visitammo a san francisco e di cui ci innamorammo un po’. Pareti colorate rifinite in bianco, candele accese ovunque anche in bagno, arredamento essenziale ma comodo, e lì c’era pure il giardinetto.
nel cortile, appunto, la festa proseguiva con il karaoke. Un impianto bello grande su cui passavano tutte le canzoni della storia del rock. Cantammo anche io e vanessa, born in the usa di Bruce Springsteen, facendo le dive rock con le chitarre finte eccetera. Riscuotemmo anche un buon successo. Ma va detto che il pubblico era di parte.
Quando tornai in italia mi misi in testa di fare anche io una grande festa con il karaoke, ma non ci fu proprio verso di trovarne uno a noleggio. La festa la facemmo comunque, a casa di lula a san gimignano, e fu bellissima ugualmente.

Quel giorno a Marina si celebrava un qualche anniversario dell’aeronautica americana. A un certo punto andammo fuori per vedere lo spettacolo del passaggio degli aerei. Rob sosteneva che se fossimo stati fortunati avremmo potuto vedere un volo radente sotto il ponte, roba che nemmeno maverick in top gun… ma non lo fece nessuno per fortuna. Pare che questo genere di esibizioni fosse stato espressamente vietato. In ogni caso quel giorno, non ce ne furono.
Ci piaceva, a san francisco, trascorrere le giornate come se avessimo sempre vissuto lì, senza la frenesia del turista che deve vedere e sperimentare tutto.
Vedemmo un sacco di cose, ovvio, ma non ne vedemmo altre. Di due in particolare mi vergogno un po’. Lo Yosemite park, perché mi pare che ci volessero troppe ore ad arrivarci e a visitarlo (e certamente non ci sfiorò affatto l’idea che quell’estate o forse quella precedente una ventina di turisti erano stati uccisi da un misterioso serial killer) e noi non volevamo stare nemmeno un minuto senza calpestare le strade di san francisco.
Infatti un giorno prendemmo il suv per andare a sud, per visitare non ricordo più quale san qualcosa, san josè forse, dopo la silicon valley. dopo un po’ ci rompemmo e facemmo dietrofront.
Ma la cosa che più mi dispiace di non aver visto a san francisco è la city lights, cavolo, la libreria dei poeti della beat generation. Pensare che per trovare la gemellina di firenze, pochi anni prima, avevo fatto il diavolo a quattro, chiedendo a tizio e a caio (erano gli anni prima di internet) fino ad arrivare finalmente al negozietto di via san niccolò. Che chissà se sarà ancora aperto, anzi dopo voglio proprio controllare.
Ecco, presi dall’ebbrezza della vita a san francisco quella mi passò proprio di mente. Me ne ricordai solo una volta tornata a casa. E pace…
A san francisco c’erano tantissime mazda cabrio, la stessa che avevo anche io in quel periodo. Da noi si chiamava Mx5, lì era la Miata. Ancora mi chiedo se avranno avuto il cambio automatico o no…

Durante un giro a Castro, il quartiere gay per eccellenza, Rob ci raccontò di Harvey Milk e del sindaco Moscone, uccisi tanti anni prima da un conservatore fanatico in municipio. Alla City Hall (all’esterno delle cui finestre era appeso il cartello “vietato fumare in quest’area”) ancora ricordano l’evento srotolando nastri con i colori dell’arcobaleno nel giorno dell’anniversario. Rob non seppe dirci però molto di più. Incuriosita, tornata a casa feci diverse ricerche sul personaggio, il primo attivista gay eletto come tale a rappresentare la città di san francisco. una figura bellissima, simbolo della tolleranza e dell’apertura, nel senso di open minded, caratteristiche delle quali san francisco e i suoi abitanti si sono sempre fatti un vanto.
poi il genere umano è quello che è, e per un milk c’è anche il conservatore represso e depresso che spara per uccidere chissà che, un uomo o un’idea. Il suo avvocato riuscì a farlo uscire dal carcere sulla parola dimostrando che quel giorno l’omicida aveva mangiato del cibo guasto, che pare sia una vera e propria attenuante nel processo americano o almeno in California. Ma poco dopo il tizio si suicidò.
Ero decisissima ad approfondire la storia di milk. Il sogno era: torno a san francisco a raccogliere le testimonianze di chi l’ha conosciuto e poi ci scrivo un libro.
Avevo già pensato a come sovvenzionare il mio soggiorno. Avrei venduto poster di Alessio duplicando la foto che gli avevo fatto a tradimento mentre si sfilava la camicia sullo sfondo dello skyline di san francisco, quello con la torre triangolare. Con quel fisico sarebbe diventato il nuovo simbolo di castro.
Non ne feci nulla, peccato. Né per milk né per il poster. Nel frattempo ci ha pensato gus van sant a girare un film, con Sean Penn.
Milk, per coinvolgere più elettori possibile, aveva fatto anche una campagna per la pulizia delle strade sensibilizzando i proprietari dei cani ad usare sempre sacchettino e paletta.
Eccola là la San Francisco dei proprietari di cani educati.

Comunque, in quel momento, quello di cui parlavo all’inizio della storia, eravamo in union square. Era il nostro primo giorno a san francisco. Già Alessio mentre camminavamo per le strade, hanging around, mi aveva detto: “Tu da quando hai messo piede sul suolo americano sei cambiata. Brilli di felicità a prescindere”.
Sì, lo sapevo già che funzionava così.
Ci sedemmo su una panchina, con i nostri zainetti in spalla. Si respirava l’aria frizzante della grande città. San francisco la tollerante, san francisco la città d’oro.
Era una calda giornata di sole. Tante cose ancora non le sapevamo ma la vacanza si preannunciava splendida. E così fu.
E io ero con il mio amico alessio, una cosa che mi riempiva ancor più di gioia.
Non sapevo ancora che la nostra dirimpettaia a pacific heights era danielle steel, la scrittrice di romanzi rosa, quando dissi: “Ale, questo è un momento perfetto”.
Mentre dagli occhi mi scendevano lacrime di felicità.

2 commenti

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2 risposte a “if you’re going to san francisco…

  1. simona

    che forte… deve essere stata una vacanza indimenticabile!!
    io a Frisco ci sono stata da ragazzina, perchè ero in soggiorno-studio a Santa Barbara, un po più a nord.
    Della città di San Francisco mi ricordo in particolare la nebbia che scendeva puntuale come il thè delle 5 p.m e copriva tutto, lasciando intravvedere solo un pezzettino rosso rosso del golden gate (perchè poi golden??)
    E poi i leoni marini, al pier 39!!!!! gli esseri con gli occhi più dolci del mondo.
    solo molti anni dopo avrei rivisto, negli occhi del mio cane, quello stesso sguardo. Mi piacerebbe poter guardare il mondo con degli occhi così buoni.

    di… bho

  2. tu eri più a sud, se eri a santa barbara, vicino a los angeles dunque. cavolo, ma tu hai girato un sacco per essere del comelico!!! :-))))
    si è vero, proprio una vacanza indimenticabile!
    tu ci sarai stata nel periodo di mark twain, allora (intendo come stagione, of course, non come anni)
    golden gate perché san francisco era la “porta” della corsa all’oro
    proprio dal fatto che ci arrivava gente da ogni parte per tentare la fortuna con le pepite san francisco trae la sua fama di città aperta e accogliente
    sì sì, me li ricordo bene gli elefanti marini al pier 39
    lì in un negozino comprai un orsacchiotto “americano” e dei prodotti naturali a base di cera d’api e olii essenziali contro le zanzare… (e che c’entra? niente, solo un altro ricordo)
    per lo sguardo buono non sei messa male, comunque
    poi, chissà che vedono gli elefanti marini
    devo ammettere che san francisco, nel mio desiderio-sogno di vivere negli stati uniti, ha soppiantato new york che era sempre stata la mia città preferita in the world…
    ps: senti, non so perché, ma a san francisco se sentono dire frisco gli viene il mal di pancia…

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