A pesca con babbo

Ai tempi in cui andavamo al mare in campeggio a un certo punto a zio venne l’idea di pescare con le reti. Avevamo già la barca. Furono comprate le reti. 

D’estate funzionava così: a luglio partivamo noi con la roulotte, prendevamo posto e montavamo la veranda. In un altro momento babbo o zio portavano la barca che poi stava in una piccola rimessa sulla spiaggia.

Ad agosto ci davamo il cambio con la famiglia di zio, che sarebbe tornata a casa con la roulotte alla fine delle vacanze.

Con la barca io già mi divertivo a fare sci nautico. Ero diventata bravissima, sia in linea che nello slalom e non cadevo mai, nonostante gli scherzetti di babbo che frenava il motoscafo apposta, perché ero terrorizzata dalle meduse. 

Un giorno nel mare davanti a Cala Violina c’era babbo che insegnava lo sci ai figli dei nostri amici. Io li guardavo, seduta sul motoscafo, incredula per il fatto che nessuno di loro riuscisse ad uscire dall’acqua alzandosi in piedi. 

A un certo punto mi spazientii e dissi, babbo, ora provo io. 

Mi fece provare, sicuro che non ce l’avrei mai fatta. Invece partii subito. Da allora babbo fece sciare solo me che tanto con gli altri era inutile.

Quando era il tempo giusto per buttare le reti, babbo usciva la sera al tramonto da solo. 

La mattina dopo invece ci alzavamo in piena notte, io e lui, e alle quattro eravamo già in barca. Io mi preparavo dei panini al latte con la Nutella per fare colazione in mare. Babbo pane e affettato. 

La sabbia a quell’ora era fresca e tutta liscia. La barca era pronta, sul bagnasciuga, bastava dare solo una piccola spinta. Quando arrivavamo nel punto giusto, babbo spengeva il motore e buttava l’ancora.

Il mare era piatto e trasparente. Si sentiva solo qualche urlo di gabbiano e lo sciabordio leggero delle onde contro la barca.

Se c’erano dei pesci si vedeva già prima ancora di tirar su le reti, perché facevano dei riflessi d’argento. 

Avevamo un metodo. Babbo tirava le reti e io le passavo, stando attenta che non si attorcigliassero. Man mano che recuperavamo i pesci la rete finiva sul pavimento della barca, sempre ben ripiegata. 

Per lo più prendevamo dei pescetti di poco conto, adatti per la frittura. Ma ogni tanto capitava anche qualche triglia, con le branchie lunghe e le scaglie rosse.

Il terrore dei pescatori erano i cetrioli di mare, una specie di cilindro rigido, con qualche spina qua e là, che rimaneva impigliato nelle maglie e rischiava di romperle. 

I cetrioli, quando c’erano, erano affar mio.

Babbo smetteva di tirare, mi passava il coltellino e io mi mettevo li, paziente, a districare quel coso, facendo attenzione a non rovinare la rete. Poi, una volta liberato, lo ributtavamo in acqua, con schifo e fastidio, il più lontano possibile dalle reti. 

Qualcuno sosteneva che i cetrioli di mare, chiamati anche cazzi di mare (ma di nascosto da noi bambini), erano buonissimi. Ma se li aprivi, sotto la scorza dura e spinosa rivelavano una sostanza fluida e appiccicosa.

Meglio buttarli. 

Quando avevamo la nostra rete tutta bella ripiegata e il secchio pieno di pesci, potevamo finalmente fare colazione. 

Per me non c’era niente di più buono dei miei panini al latte con la Nutella, che ancora oggi me li sogno la notte. 

Intanto il sole era già alto e si era fatta l’ora di tornare. 

Scendevamo in spiaggia con il nostro bottino e passavamo orgogliosi tra i bagnanti, che si sporgevano curiosi di vedere che cosa avessimo preso. 

A me restavano solo due cose da fare. Recuperare un po’ di sonno e andare ai lavandini a pulire il pesce. Mamma poi l’avrebbe cucinato. Se quel giorno c’erano le triglie babbo avrebbe fatto la maionese per accompagnarle dopo averle lessate. 

P

Ai tempi in cui andavamo al mare in campeggio a un certo punto a zio venne l’idea di pescare con le reti. Avevamo già la barca. Furono comprate le reti. 

D’estate funzionava così: a luglio partivamo noi con la roulotte, prendevamo posto e montavamo la veranda. In un altro momento babbo o zio portavano la barca che poi stava in una piccola rimessa sulla spiaggia.

Ad agosto ci davamo il cambio con la famiglia di zio, che sarebbe tornata a casa con la roulotte alla fine delle vacanze.

Con la barca io già mi divertivo a fare sci nautico. Ero diventata bravissima, sia in linea che nello slalom e non cadevo mai, nonostante gli scherzetti di babbo che frenava il motoscafo apposta, perché ero terrorizzata dalle meduse. 

Un giorno nel mare davanti a Cala Violina c’era babbo che insegnava lo sci ai figli dei nostri amici. Io li guardavo, seduta sul motoscafo, incredula per il fatto che nessuno di loro riuscisse ad uscire dall’acqua alzandosi in piedi. 

A un certo punto mi spazientii e dissi, babbo, ora provo io. 

Mi fece provare, sicuro che non ce l’avrei mai fatta. Invece partii subito. Da allora babbo fece sciare solo me che tanto con gli altri era inutile.

Quando era il tempo giusto per buttare le reti, babbo usciva la sera al tramonto da solo. 

La mattina dopo invece ci alzavamo in piena notte, io e lui, e alle quattro eravamo già in barca. Io mi preparavo dei panini al latte con la Nutella per fare colazione in mare. Babbo pane e affettato. 

La sabbia a quell’ora era fresca e tutta liscia. La barca era pronta, sul bagnasciuga, bastava dare solo una piccola spinta. Quando arrivavamo nel punto giusto, babbo spengeva il motore e buttava l’ancora.

Il mare era piatto e trasparente. Si sentiva solo qualche urlo di gabbiano e lo sciabordio leggero delle onde contro la barca.

Se c’erano dei pesci si vedeva già prima ancora di tirar su le reti, perché facevano dei riflessi d’argento. 

Avevamo un metodo. Babbo tirava le reti e io le passavo, stando attenta che non si attorcigliassero. Man mano che recuperavamo i pesci la rete finiva sul pavimento della barca, sempre ben ripiegata. 

Per lo più prendevamo dei pescetti di poco conto, adatti per la frittura. Ma ogni tanto capitava anche qualche triglia, con le branchie lunghe e le scaglie rosse.

Il terrore dei pescatori erano i cetrioli di mare, una specie di cilindro rigido, con qualche spina qua e là, che rimaneva impigliato nelle maglie e rischiava di romperle. 

I cetrioli, quando c’erano, erano affar mio.

Babbo smetteva di tirare, mi passava il coltellino e io mi mettevo li, paziente, a districare quel coso, facendo attenzione a non rovinare la rete. Poi, una volta liberato, lo ributtavamo in acqua, con schifo e fastidio, il più lontano possibile dalle reti. 

Qualcuno sosteneva che i cetrioli di mare, chiamati anche cazzi di mare (ma di nascosto da noi bambini), erano buonissimi. Ma se li aprivi, sotto la scorza dura e spinosa rivelavano una sostanza fluida e appiccicosa.

Meglio buttarli. 

Quando avevamo la nostra rete tutta bella ripiegata e il secchio pieno di pesci, potevamo finalmente fare colazione. 

Per me non c’era niente di più buono dei miei panini al latte con la Nutella, che ancora oggi me li sogno la notte. 

Intanto il sole era già alto e si era fatta l’ora di tornare. 

Scendevamo in spiaggia con il nostro bottino e passavamo orgogliosi tra i bagnanti, che si sporgevano curiosi di vedere che cosa avessimo preso. 

A me restavano solo due cose da fare. Recuperare un po’ di sonno e andare ai lavandini a pulire il pesce. Mamma poi l’avrebbe cucinato. Se quel giorno c’erano le triglie babbo avrebbe fatto la maionese per accompagnarle dopo averle lessate. 

Per me invece l’avventura del pesce finiva li. Non riuscivo proprio a mangiarlo, anzi non potevo nemmeno sentirne l’odore. 

Avrei osato assaggiarlo solo a ventidue anni, in una cena tra amici con pesce di tutti i tipi e da allora lo avrei apprezzato. 

Nonostante questo, le mie estati da piccola pescatrice con i momenti trascorsi con babbo, rimangono tra i ricordi più belli.

er me invece l’avventura del pesce finiva li. Non riuscivo proprio a mangiarlo, anzi non potevo nemmeno sentirne l’odore. 

Avrei osato assaggiarlo solo a ventidue anni, in una cena tra amici con pesce di tutti i tipi e da allora lo avrei apprezzato. 

Nonostante questo, le mie estati da piccola pescatrice con i momenti trascorsi con babbo, rimangono tra i ricordi più belli.

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