Il mistero dei rosicchi

Quando stavamo in Campolungo avevamo una terrazza anche sul retro della casa. Vi si accedeva dal salotto, quello che a un certo punto divenne la mia camera. Da quella terrazza si vedeva solo una casa, dalla quale ci separavano un bel po’ di vegetazione e qualche orto. Ci si arrivava da una stradina laterale che finiva lì.  Dopo non c’era più niente, solo campagna. 

In quella casa, al piano di sopra, ci viveva una ragazzina di poco più grande di me, con la quale ero abbastanza amica. A piano terra, con l’ingresso nel piazzale, c’era invece l’officina del suo babbo, che faceva il fabbro. A noi piaceva farci qualche giro e osservare lui con gli occhialoni che gli fasciavano la testa mentre tutto intorno sfavillavano delle specie di fuochi di artificio. Fra gli attrezzi dell’officina c’era anche una grossa stadera con i contrappesi ma se ci si saliva noi si muoveva appena. 

C’erano poi delle bombole di gas molto lunghe, tipo il doppio di quelle da cucina, e un po’ più strette, che una volta vuote venivano messe nel piazzale. Il babbo della mia amica ce le lasciava prendere e noi le facevamo rotolare esercitandoci a restarci sopra in equilibrio. Un giorno scoprimmo che senza scarpe era più facile, perché i piedi potevano fare presa sulla superficie seguendone la rotondità.

Una volta qualcuno mi regalò un paio di pantofoline fatte a mano. Avevano la suola morbidissima, in panno, e sopra erano tutte lavorate all’uncinetto con il filo d’argento. Provai a usarle per stare in equilibrio sulla bombola e funzionarono benissimo. Mi sentivo quasi una Nadia Comaneci. O come una ballerina del circo che veniva una volta all’anno nel campino di Campolungo, quello con il numero di Iside e Semiramide che, tutte vestite di brillantini, roteavano in aria sospese a una fune. 

Della casa con l’officina dalla mia terrazza si vedevano le scale esterne e qualche finestra. Il piazzale rimaneva sulla destra. Tutto intorno c’era un giardinetto delimitato da una rete.

Da un certo punto in poi, io e Paola cominciammo a prendere il sole sul balcone. Qualche volta ci mettevamo il costume da bagno, ma stavamo anche in mutande e canottiera. Noi abitavamo al secondo piano, i vicini di sopra e di sotto non potevano vederci e da quelli di lato eravamo separati da un divisorio di plastica verde. 

Un giorno mentre me ne stavo tranquilla a prendermi i raggi tiepidi di primavera, la nonna della mia amica, quella della casa con l’officina, mi urlò qualcosa dal suo giardino.

Non capivo che cosa diceva, ma il tono era abbastanza arrabbiato.

  • Scusi, non capisco.
  • Sì, certo, quando ti fa comodo non capisci. La devi smettere di buttare i rosicchi nel mio giardino!
  • Che cosa?
  • Fai finta di niente? Ti ho visto, sai, che buttavi i rosicchi di qua da noi. 

Non capii assolutamente che cosa intendeva quella donna e perché fosse tanto arrabbiata. Quei rosicchi, poi. Ma che cavolo erano?

Ormai mi aveva rovinato il pomeriggio. Come si faceva a stare a prendere il sole tranquilli con una tizia che ti urlava contro cose incomprensibili?

Rientrai in casa e mi misi a leggere un libro.

La sera a cena dissi che la vicina doveva essere impazzita. Raccontai che mi aveva urlato delle frasi senza senso, parlava di rosicchi, che io non sapevo nemmeno che cosa fossero. Ero allibita.

Mamma e babbo mi avevano ascoltato senza sapere che cosa dire. Mamma mi chiese se in ogni caso io avessi buttato qualcosa, ma ovviamente non avevo buttato nulla.

A un certo punto, nel silenzio, si alzò la voce flautata della mia sorella che, con la sua flemma, disse.

  • Forse intendeva i torsoli di mela che mi diverto a lanciare dalla terrazza per vedere quanto arrivano lontano. A forza di esercitarmi sono diventata abbastanza brava… 

E anche quel mistero, alla fine, si chiarì.

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