Sempre al solito corso di Estetica c’era una ragazza, Silvia si chiamava forse, un po’ più grande di noi.
Il modo di vestire, il rapporto diretto e confidenziale con i prof, il suo essere distante anni luce da noi, suscitavano, almeno in me, un sentimento di una certa avversione nei suoi confronti.
Lei però rideva e parlava con tutti, con il suo nasino a punta, il viso affilato e i capelli neri, che qualche volta portava raccolti.
Non ricordo come e quando avvenne, forse fu dopo la cosiddetta lezione che io e L. tenemmo agli studenti del corso di Estetica, ma in qualche modo diventai amica di Silvia.
Un giorno mi invitò ad andare a trovarla a casa sua. Così la mia iniziale avversione non tardò a tramutarsi in ammirazione.
Silvia abitava in un appartamento in piazza del Campo, una torretta dalle parti del Casato, la via da dove entrano i cavalli del Palio.
Non potevi non notarla, quella torretta con due finestroni come gli occhi di Titti il canarino, guardando il cerchio di case che affacciano sulla piazza, e non potevi non chiederti chi fosse tanto fortunato da vivere proprio lì.
Quel pomeriggio dunque suonai il campanello e salii le scale fino lassù. Non credo di essere stata sola. È più che possibile che con me ci fosse proprio L.
Silvia stava con un lettore di tedesco dell’università e da poco aveva avuto un bambino.
Guardavamo lo spettacolo della piazza dall’alto, pieni di meraviglia, mentre Silvia ci offriva il tè e ci raccontava della sua gravidanza.
Quando partorisci, disse, non è che senti male. Senti Il Dolore, una cosa assoluta che sai non proverai per niente altro al mondo. Ma quando vedi tuo figlio passa tutto ed è solo gioia.
Non ho mai avuto bambini, ma questa frase di Silvia mi è rimasta talmente stampata dentro, che credo di averla ripetuta almeno cinquanta volte ad altrettante amiche partorienti.
Del resto delle cose dette quel pomeriggio, invece, mi è rimasto un ricordo piuttosto vago.
Lei che preparava la tesi in Estetica con Olivetti, il marito imbarazzato dalla nostra presenza, il bambino con i riccioli biondi.
Non mi pare che ci sia stata una seconda volta nella torretta, o se c’è stata, la mia memoria la riassume in un unico pomeriggio.
Silvia l’avrò incontrata di nuovo fra i corridoi di via Fieravecchia e nel palazzo di Sant’Ansano, come capitava un po’ con tutti. E poi, come è capitato con molti conosciuti in quei tempi là, l’ho persa di vista.
Qualche tempo dopo chiesi notizie di lei, non ricordo a chi.
Ma come, non l’hai saputo? Mi dissero.
Silvia è morta.
Oddio, ma che cosa è successo?
Forse un intervento chirurgico riuscito male, forse un malore improvviso.
E il marito, e il figlio?
Chissà, saranno andati a stare in Germania.
E io ci penso ancora, e ho davanti agli occhi l’immagine di Silvia, sbiadita come quelle ombre, una volta persone, fissate sui muri dall’esplosione atomica.
Che non si sa abbastanza, di loro, e mai potremo saperne di più.