Ogni tanto mi torna in mente quella bambina in braccio al babbo che a Pianosa mi indicava insistentemente con il dito.
Avrei voglia di sapere chi era e scoprire oggi, dopo sei anni, se ha patito dei traumi o chissà che.
Avremmo passato un giorno sull’isola piana e, in quell’estate arroventata io mi preparavo a passeggiare per almeno due ore su un terreno brullo e assolato. E con il divieto assoluto della dermatologa, dopo un serio intervento alla pelle, di prendere anche una lontana idea di un raggio di sole.
Mi preparai coscienziosamente.
Abito bianco di lino sbracciato, spolverino bianco di cotone leggero con manica a tre quarti. Cappello di paglia a larghe tese e, per finire, ombrellino dorato come una qualsiasi turista giapponese.
Se si considera che era un periodo che stavo da cani, che ero gonfia, grassa, non mi potevo muovere più di un bradipo senza essere colpita da dolori muscolari e atroci mal di testa, che potevo vantare l’espressione di un nasello bollito, tutta quella vestizione (che comprendeva anche altri elementi che ora non ricordo) non doveva produrre proprio un bell’effetto.
Io mi vedevo come la protagonista di un giallo di Agatha Christie, la terribile archeologa che viene uccisa in uno scavo in Iraq (o in Siria o forse Iran/Persia), strabordante e bardata all’inverosimile per difendersi dai colpi infidi del sole mediorientale.
La bimba era piccola e sicuramente mancante di riferimenti letterari. Forse giusto qualche cartone animato.
Mi indicò insistentemente col dito mentre eravamo in gruppo con la guida preparandoci alla partenza e il padre subito la distrasse.
Non ho idea di quale spiegazione possa averle dato del fenomeno che le stava davanti.
Immagino però l’innocente boccuccia pronunciare un’innocua frasetta.
Del tipo, papà papà, guarda! C’è Peppa Pig…
La bambina impertinente
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