Astragalo è una parola bellissima. Mi chiedo dove cada l’accento. Se è sdrucciola, astràgalo, la mente corre al cielo, alle stelle e all’astrologo. O all’astrolabio. E per simpatia finanche alla mandragora. O a Tantalo, al vandalo, all’acefalo, al bucefalo, al crotalo e al mesencefalo. A un cembalo.
Se è piana, astragàlo, mi vien da pensare a mondi antichi, alle storie lontane di assiri, sumeri e babilonesi. A Sardanapàlo, il lussurioso re che visse come se fosse stato una donna. A un regalo, a un palo, un narvalo che immortalo, intercalo e incanalo.
Mamma dice: non la conosco questa parola, ma non mi piace per niente.
Io sono la più giovane in astanteria. Nell’angolo di destra, quello opposto al mio letto, c’è un anziano, magro, rinseccolito. Si lamenta di continuo. Aga, aga, aga, aga frishc. Pensavo recitasse una preghiera islamica, invece è un Sinagra dell’ultimo Montalbano che chiede acqua fresca. A lui, oltre all’infermiere, bada il figlio.
Accanto a me una donna, anziana anche lei. Ha la faccia tumefatta. Racconta la figlia: non ha trovato l’interruttore della luce, ha aperto la porta ed è andata giù dritta di testa per le scale. Aveva già un tutore alla spalla.
Un’altra anziana è nel letto davanti a me, a ore 12. Dice alla figlia: l’ho detto anche al dottore, con noi non c’è niente da fare. Siamo vecchi. E io ho cent’anni, sarò vecchia?
Macché cent’anni, dice la figlia come se parlasse a una bambina.
Eh, se un so’ cento son novantaquattro.
Portano un altro lettino con un’altra anziana, meridionale questa come il Sinagra. Ogni tanto le esce un rumorino secco, come di frittura. E ride, guardando soddisfatta verso la figlia.
La notte, fra un lamento e colpi di tosse catarrosa, si dorme.
Fossimo in una puntata di Grey’s Anatomy o di ER, sarebbe tutta un’altra storia.
La signora accanto a me, in rotta con la figlia da una vita, verrebbe salvata dalla morte, orribile e vicina, dalla provvidenziale donazione di sangue della stessa congiunta. O di midollo, dipende. E farebbero la pace con una musica piena di pathos in sottofondo, i primi piani e le infermiere commosse tutte intorno.
Al signor Sinagra anziché l’acqua fresca darebbero per errore un bel bicchiere di varechina, scatenando la macchina dell’emergenza fino al tragico epilogo. Si aprirebbe subito un’indagine interna per scoprire il responsabile dell’errore. Gli indizi punterebbero tutti sull’infermiere gentile, che verrà licenziato per poi essere scagionato e reintegrato quando si scoprirà che era tutta una macchinazione ben congegnata dalla cosca nemica. I Cuffaro.
Sarebbe andata nello stesso modo anche se l’uomo avesse chiesto un caffè.
La quasi centenaria, salvata dall’abnegazione di medici e infermieri, deciderà di lasciare i suoi insospettati averi all’amministrazione dell’ospedale. La mamma tornerà a casa circondata dalla riconoscenza dei sanitari, mentre la figlia badante, oberata dai debiti, sarà stroncata da un infarto fulminante prima ancora di poter impugnare il testamento.
Alla vecchietta che frigge con il didietro verrà diagnostica una malattia rarissima al cui studio verranno devoluti i fondi che l’ospedale ha ricevuto in eredità. E arriveranno ministri e medici e studiosi da ogni dove interessati al caso e ai fondi che gli gravitano intorno.
Invece siamo solo a Campostaggia e, a parte lamenti, catarri e flatulenze, non succede un accidente. Niente aerei che cadono sulle scuole o pullman carichi di badanti ungheresi in gita che finiscono fuori strada per un malore dell’autista dopo aver travolto decine di macchine in autostrada. Nemmeno un paziente trafitto da una fiocina durante la caccia allo squalo.
L’infermiere dice. Fino alle 8.30 non si dimette nessuno. Sottinteso, fino a quando non arriverà un medico. Siamo tutti in ostaggio, qui.
Le anziane magre come grissini con le loro figlie dai grossi sederi compressi in pantaloni di maglia nera elastica. Il vecchio Sinagra e un tizio che si aggira da ore con la pancia scoperta chiedendo una flebo. Nessuno si allontani, prego.
Posso avere almeno un antidolorifico? Chiedo, quando mi trasferiscono dalla sedia a rotelle alla lettiga sulla quale passerò la nottata.
Sono qua perché la sera prima, di ritorno dal cinema (c’era il bellissimo ma noiosetto Pinocchio di Garrone) sono inciampata in una buca, in un sasso, non so. Era buio e pioveva e son finita a terra. Ho sentito un rumorino arrivare dal piede, una specie di croc. Ma mi sono rialzata e sono tornata a casa che c’era da accompagnare un’amica. Poi però son dovuta venire qui, in preda a dolori insopportabili.
Alle quattro arriva il radiologo.
Infrazione dell’astragàlo, dice. Domattina la visiterà l’ortopedico.
È una parola piana, allora.
Avrei detto più sdrucciola, vista da terra.
(P.S. La pronuncia corretta è sdrucciola, astràgalo)
Povera amica mia! Come stai ora? … e del Sinagra e della quasi centenaria e della donna tumefatta … hai notizie? Buon Natale e miglior inizio.
Come disse il contadino cinese del famoso racconto Zen: “Vedremo!” … Nulla succede per caso e tutto ha un suo perchè ma questo si scopre spesse volte dopo qualche tempo … Un abbraccio
Si va avanti, zoppicando e a colpi di stampelle. Per fortuna ho un po’ di amiche care che passano a darmi una mano, oltre a madre e sorella, che però non sono proprio in formissima.
Macché, dellallegra banda ospedaliera non so più nulla, e mai saprò, credo.
Sono d’accordo anche con il contadino zen. Vedremo!
Un abbraccio, grazie
Ti abbraccio sinceramente.
Magari serve che, anche se da lontano qualcuno ti auguri il meglio.
Alfredo
Grazie! Quello serve sempre, in effetti