Di quando quasi ci lasciai le penne

Se fosse successo per davvero non mi sarei accorta di nulla. Ora me ne starei lassù, felice, a volare in alto o chissà dove e avrei sicuramente qualche problemino di meno. Invece sono ancora qui. E siccome quello che è successo non è cosa da tutti i giorni, proverei anche a raccontarlo.

Venerdì 12 gennaio sono stata operata al naso. Ero in lista d’attesa da più di un anno, ormai pensavo che il mio nome si fosse autocancellato, quando sono stata chiamata. Dal chirurgo in persona. Mi ha chiesto se andava tutto bene e mi ha detto che l’operazione si sarebbe fatta il 12. Era il 3 gennaio. La pallina non era caduta nella settimana migliore, ma che vuoi farci. Ormai son diventata fatalista e prendo quello che viene quando viene.

C’era da ripristinare la respirazione, resa difficoltosa dalla deviazione del setto nasale. Poi, siccome trent’anni fa avevano provato a farmi lo stesso intervento, ma il medico di allora si trovava meglio con il trinciapolli che col bisturi, ci sarebbe stato anche da ricostruire ciò che allora era stato distrutto. Cioè tutto.

E siccome il pollaiolo di trent’anni fa non si era preoccupato nemmeno di lasciare un pezzettino di cartilagine, avrebbero dovuto recuperarne un po’ da qualche altra parte di me. Tipo dalle orecchie.

Non era un intervento semplice, il dottore me l’aveva anticipato, per cui si sarebbe fatta un’anestesia generale. É la prima volta? Sì. È allergica a dei farmaci? Non lo so, praticamente non ne uso. Ma finora, quando è capitato, non ho avuto problemi. Ma non ha mai fatto l’anestesia totale. Infatti.

Poi c’era la questione della folgorazione. Cioè di quando, più di dieci anni fa, rimasi attaccata a una lavastoviglie difettosa nella casa nuova in cui il salvavita non era stato regolato. Quando si dice tutte a me le fortune. Però son sempre qui a raccontarlo.

Questa storia della folgorazione l’hanno presa parecchio sul serio. Pensare che io me l’ero quasi dimenticata. Al pronto soccorso, all’epoca, mi dettero poca soddisfazione. Un elettrocardiogramma, lei ha il cuore di una bambina, e poi mi lasciarono su una sedia per due ore mentre le lacrime mi cadevano incessantemente per effetto dello shock. Poi, come faccio (quasi) con tutto, me la misi via. Invece da qualche mese questa cosa è tornata in auge e mi hanno fatto fare perfino una risonanza magnetica al cuore con contrasto. Mezz’ora chiusa in una bara di plastica. Roba che me la sogno ancora la notte.

Insomma, per farla breve, pare che l’anestesista della pre ospedalizzazione fosse tutta ringalluzzita da questa cosa e avesse avvisato i colleghi che avrebbe mandato loro una folgorata. Con la minuscola, spero. Non è una bella cosa, comunque. Specie se te la viene a raccontare sul lettino dopo che ti hanno detto che ci sei quasi rimasta.

Comunque fra esami e tutto il resto si arriva al giorno fatidico quando, alle prime luci dell’alba, vestita di una garza verde, mutande grigie e calzini rosa (senza dimenticare le ciabatte di piumino arancione) mi avvio verso la sala operatoria. C’è un’anestesista nuova. Una giovane ma bravissima, mi dice l’infermiera mentre spinge il lettino per i corridoi. Rispondo per la quindicesima volta alle stesse domande (operazioni? allergie? problemi di altro tipo?) prima di svanire nei fumi dell’etere.

Quando mi risveglio c’è ancora la stessa anestesista, quella giovanissima, davanti a me. Come sta? Bene, grazie. Sono avvolta in una coperta morbida e calda e non sento nemmeno un filo di dolore. Quasi non mi ricordo nemmeno perché sono qui. Ce la fa a sentirmi, le devo dire che cosa è successo. Certo. L’intervento è andato bene ma ad un certo punto il suo cuore ha rallentato e hanno dovuto sospendere tutto. Poi pero è ripartito da solo. Nella nebbia che avvolge ancora il mio cervello mi pare una bella notizia. Mi è piaciuto molto quel poi è ripartito da solo. Dalla faccia del medico però pare che non la pensi come me.

Mi riaddormento un po’, cullata dai progetti di vacanze degli infermieri e dai problemi dell’organizzazione dei turni. Danno un po’ fastidio a dire il vero ma sono anche tanto lontani. Io toglierei quella luce sparata e magari anche il soffio caldo sotto la coperta, che sto bollendo. Quando riapro gli occhi, non so che ore siano né quanto tempo sia passato, l’anestesista è sempre li che mi guarda con la faccia preoccupata. Questa faccenda del rallentamento l’ha proprio buttata a terra. Ora pare che siano tutti in ansia e che non mi possano mandare nella cameretta al maxillo. Aspettano che si liberi un posto in un altro reparto. Nessuno dice terapia intensiva. Magari mi aiuterebbe a capire. Invece alla fine, per mancanza di posti, vado a finire in una neurochirurgia, il posto più vicino alla intensiva in caso di emergenza.

Nel frattempo l’anestesista va a recuperare la mia mamma, ormai esausta, che ha trascorso la giornata da un reparto all’altro sperando invano di vedermi uscire, ancora incredula di aver rischiato di perdere una figlia per un banale intervento al naso. Mi porta la borsa con il telefono e la chiave dell’armadietto numero 12 dove è rinchiusa tutta la mia roba. Mi faccio fare una foto. Mi vedo, ho una faccia da autopsia. L’intervento, compresa l’ora di stop, è durato sette ore. Quando mi risveglio, la prima volta, sono le 15.10.

Trascorriamo qualche ora in una saletta della chirurgia nell’attesa che si liberi un letto per me. Quando finalmente mi portano via, piena di fili e attaccata a un monitor, sono già quasi le otto di sera. Il nuovo reparto è sotto il controllo di Madama Rosmerta colpita dalla Maledizione Imperius. Appena mi sono sistemata nel letto 31 con il mio video pieno di bip, quella comincia a girare per il reparto urlando che questa cosa non va bene. Che lei è da sola e deve pensare a tutto e non può stare a controllare il mio monitor. Che non vede nemmeno un familiare e toccherebbe a loro, semmai, fissare il monitor tutta la notte e chiamare in caso di emergenza.

A me però lei sembra solo una grande merda che ha sbagliato mestiere. Comunque chiedo a un’amica di Siena se può venire qualche ora in serata e quando lei mi dice di sì scoppio pure in lacrime. Insomma, non è stata proprio una giornata da gita in riva al lago. Il monitor fa bip bip a un ritmo cosi regolare da farti addormentare. Solo quando mi muovo un po’ suona un deng. Allora arriva di corsa Madama Rosmerta, che nel frattempo si è prodotta in una lamentazione bis con un dottore della maxillo passato al mio capezzale, per dare una controllatina.

Quando mi hanno scaricato dalla lettiga al letto, mi sovviene, Madama Rosmerta ha detto queste parole. Questa non c’è bisogno di prenderla di peso. Questa ci aiuta lei. Questa si è fatta la rinoplastica. Vero che ci aiuta lei? mentre io, ignuda come un pollo spennato, mi catapultavo sul materasso e registravo dentro di me il tono derisorio dell’infermiera stronza. Rinoplastica. Intanto qualcuno mi copriva con una vestina da ospedale infilandola a un braccio solo, visto che l’altro era annodato con i fili del monitor. Dal caldo mi ero sfilata i calzini rosa, qualcuno mi aveva consegnato una busta di plastica con le mutande grigie, mentre le ciabatte arancioni erano state incastrate sulla chiusura della borsa che una volta era blu. Ora era color linoleum dopo che mamma, ormai stremata, l’aveva trascinata da un corridoio all’altro dell’ospedale. Non avevo niente altro, a parte le mani piene di cannule per le flebo e la speranza di tornare al più presto al maxillo a recuperare la mia valigia. E me stessa.

Ma quel che contava prima di tutto era capire che scherzi aveva fatto il mio cuore e soprattutto se aveva intenzione di farne ancora. Poi c’era da capire anche da dove era stata presa la cartilagine per il naso. Mamma mi aveva controllato le orecchie. È proprio bravo questo dottore, non si vede più niente. La mia amica insinuava invece che me la avessero presa dalle costole. Ma non avevo addosso un solo segno a testimonianza del prelievo. Intanto il cuore camminava regolare e io mi sono fatta anche qualche ora di sonno al ritmo del bip bip.

La mattina dopo, quando l’infermiere ha detto a una tipa che dovevo esser trasferita in maxillo, non ce l’ho fatta a trattenermi. Evviva. Mi hanno staccato i fili, portato un bicchiere di latte e due fette biscottate e via. Ma alla fine, fra una cosa e l’altra si è fatto un po’ tardi per il pranzo, che avrei dovuto assumere in forma cremosa e fredda. Siccome è arrivata tardi – ha detto un’infermiera con tono accusatorio – è ancora caldo. Che importa, tanto fra mettersi il pigiama, sciacquarsi i denti, andare al bagno con le proprie gambe dopo aver fatto la conoscenza della terribile padella, il tempo passa e la minestra raffredda. Mangio di gusto dopo un giorno e mezzo di digiuno totale, poi mamma appoggia il vassoio sul carrello dei pasti. Chi ce l’ha messo questo? scatta la musona. Li ritiriamo noi. Cosi mi complica il lavoro. Ecco, a te invece affibbierei il nome di Pansy Parkinson, l’amichetta stronza di Draco Malfoy, il super viscido dei Serpeverde nonché nemico giurato di Harry Potter. Direi che ti si addice proprio.

Il medico che mi ha operato è bravissimo. Lo dicono tutti, pazienti e colleghi. È anche un bell’uomo, di colore, cosa che mi riempie di orgoglio, perché dà l’idea che un po’ di strada si è fatta anche qui. È di colore anche il suo assistente, che era in sala operatoria con lui, e che passa a sincerarsi delle mie condizioni. Sono tutti molto umani e gentili. Mi spiega un po’ meglio che cosa è successo quando ero sotto i ferri. Praticamente è arrivato il mondo, dalla cardiologa con l’ecografia agli anestesisti. Un consulto a naso aperto. E il cuore che saltellava per conto suo. Senta, ma le cartilagini poi da dove me le avete prese che non riesco a capire. Considerato che c’era stata già un’emergenza abbiamo preferito non aggiungere altro e ci siamo rivolti alla banca delle ossa. La cartilagine è un po’ meno morbida di quella prelevata sul momento, ma va bene lo stesso.

Ormai l’anestesia è passata. Sembro Rocky Balboa dopo l’incontro con Apollo Creed e, fra la mascherina e i bendaggi, affiora qualche tratto di Hannibal Lecter. Sono ancora rallentata e ci metto un poco a capire. Poi infine realizzo. Dopo trent’anni vissuti senza setto nasale da ora in poi c’avrò un naso bello sodo e pure ripieno.

Con le ossa di un morto.

6 commenti

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6 risposte a “Di quando quasi ci lasciai le penne

  1. Anonimo

    Brava! Hai descritto un evento traumatico in modo divertente. Che verve 😊

  2. Nicola Gaggelli

    Come vedi preferisco scrivere qui che su Facebook. Ormai ho maturato un pessimo rapporto con l’ambiente feisbucchiano e chi vi circola. Leggendo il racconto mi hai fatto un po’ preoccupare ma ho visto la donna combattiva di sempre. Rimettiti presto. Nicola

  3. Grazie Nicola. Mi commuovi

  4. Un abbraccio forte, forte, forte, forte, forte. Come sei tu 😉

  5. Grazie Robi. Mi dici sempre cose belle, tu 😋

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