E un giorno ci siamo ritrovati tutti Charlie. Anzi, Sciarlì, alla francese. Anche quelli che l’unico rapporto che hanno avuto con la Francia risale a Berlino 2006, e insultavano Les Bleus, con i loro idoli in Italia, l’algerino Zidane o il senegalese Vieira. Ora tutti schierati, tutti francesi, tutti Charlie; pochi conoscevano Charlie Hebdo fino a quel giorno. Poi è diventato un simbolo. Di libertà. Di ribellione. Di fanatismo.
#jesuischarliehebdo campeggiava su tutti i profili social, pure su quelli di chi “Santoro fa il comunista in Rai con i soldi delle mie tasse” o “devono legnare i leghisti che fanno passeggiare i porci dove devono sorgere le moschee”. Tutti, improvvisamente, paladini della libertà di stampa, di satira.
Perchè non hanno mai visto le vignette, perchè qui per loro si tratta di difendere l’Occidente contro la violenza dei fanatici. Quanti, vedendo le vignette contro il Papa, contro il cristianesimo, avrebbero ancora la forza di dirsi Charlie? La libertà di satira è sacra…fino a quando non tocchi le mie convinzioni. Siamo tutti Charlie, ma noi non siamo i 12 morti. Non abbiamo scelto di mettere nel mirino tutti gli aspetti della vita degli altri: politica, sociale, religiosa. Non siamo neanche Ahmed: poliziotto e musulmano? In tempi di anti-Stato e anti-Islam è la scelta sbagliata. Siamo Charlie per non essere i fratelli Kouachi.
Ma loro hanno già vinto: ci siamo divisi, troppi Charlie non accettano le posizioni di chi, viste le vignette di critica all’occidente, non riesce a sentirsi Monsieur Hebdo. E’ in questo muro contro muro, nell’assenza di dialogo, che si insinua il fanatismo: islamico, cristiano, religioso, politico. Dobbiamo smettere di “essere” Charlie, dobbiamo “fare” Charlie. E’ troppo facile fare Charlie Hebdo con le matite degli altri.
Daniele Dalvit
Belluno
(secondo posto con 17/20 voti al concorso “Chi è Charlie?”)
L’ha ribloggato su Je suis une journaliste.