Diversi anni fa, a Belluno, successe che un gruppo di ragazzi si mise d’accordo per offrire un servizio di accompagnamento ai giovani che andavano in discoteca e non volevano rischiare incidenti al ritorno.
Il nome scelto per la società fu A company, che a orecchio faceva accompany. Furono fatti dei volantini pubblicitari. Le foto le scattò il fotografo del giornale per cui lavoravo in quel periodo, che ci passò anche la notizia.
L’articolo, di poche righe, raccontava qual era la novità, spiegava a chi si doveva l’idea e informava naturalmente sui numeri da contattare per prenotare il servizio di trasporto.
La foto pubblicata a fianco era quella che campeggiava sul volantino pubblicitario e ritraeva i diversi soci, tutti maschi e giocatori di calcio, vestiti e truccati da entreneuse sullo sfondo di un grosso camion bianco posteggiato in una piazzola. Il messaggio giocava ironicamente sul ruolo delle accompagnatrici e lo sfondo del camion richiamava il tipo di cliente a cui il servizio si rivolgeva.
L’idea del camion era venuta al fotografo, dal momento che il gigante della strada era posteggiato ogni notte accanto a casa sua.
Insomma, una notizia utile presentata in maniera simpatica, e finita lì.
Almeno così pensavamo noi.
Invece proprio nel pomeriggio del giorno in cui fu pubblicata, piombò un tizio in redazione che urlando e sbraitando, cominciò ad accusarci di averlo rovinato, di avergli fatto perdere il lavoro e chissà che altro.
Normalmente quando qualcuno protestava per un articolo o una foto, la grana passava all’autore dell’articolo o al redattore che l’aveva impaginato. In quel caso però nessuno riusciva a capire a che cosa si riferisse il tizio per cui fu affidato a me dal momento che seguivo sia la cronaca nera che quella giudiziaria e quelli che protestavano ce l’avevano più o meno spesso con qualcosa che avevo scritto io.
Lo invitai a spiegarmi bene che cosa fosse successo, dopo averlo portato nella nostra sala riunioni così da non disturbare il lavoro dei colleghi.
Non fu facile venirne a capo. Il tizio era agitato e parlava in dialetto. Mentre lui pronunciava frasi senza un senso apparente, io ripassavo con la memoria gli articoli che avevo scritto il giorno prima e non me ne veniva in mente nessuno che parlasse di un camion, l’unica parola che riuscivo a capire di quello sproloquio.
Presi una copia del quotidiano e gli chiesi di mostrarmi dove fosse il problema.
Puntò il dito sulla foto del camion con i calciatori tassisti travestiti da donna che pubblicizzavano il loro servizio di trasporto notturno.
Venne fuori che l’uomo era dipendente di una grossa ditta di trasporti della zona, per la quale lavorava come camionista. I mezzi dell’azienda erano tutti di grandi dimensioni e nuovissimi. La regola, ferrea, era che dovevano essere utilizzati solo per il lavoro e al termine della giornata venire posteggiati nel parco della ditta, al riparo del cancello chiuso a chiave.
Il nostro tipo invece aveva deciso autonomamente di apportare una piccola modifica al regolamento aziendale usando il camion anche per andare e tornare dalla sede di lavoro. Durante la notte lo posteggiava in una piazzola vicino casa, sull’ultimo tratto di strada tra la provinciale e l’ingresso della città, ben visibile a tutti e alla mercé di qualsiasi malintenzionato.
Fortuna volle che prima dell’arrivo di un ladro di tir, il mezzo pesante avesse colpito la fantasia del nostro fotografo, così che la situazione era venuta a galla prima che succedesse qualcosa di irreparabile.
Non so alla fine se il tipo sia stato licenziato o se se la sia cavata con una strigliata di capo e l’obbligo di andare al lavoro con la propria macchina. Fatto sta che se fosse stato un po’ più sveglio, più che arrabbiarsi con noi, avrebbe dovuto ringraziarci.
Altroché.