Il camion fuori posto

Diversi anni fa, a Belluno, successe che un gruppo di ragazzi si mise d’accordo per offrire un servizio di accompagnamento ai giovani che andavano in discoteca e non volevano rischiare incidenti al ritorno.

Il nome scelto per la società fu A company, che a orecchio faceva accompany. Furono fatti dei volantini pubblicitari. Le foto le scattò il fotografo del giornale per cui lavoravo in quel periodo, che ci passò anche la notizia.

L’articolo, di poche righe, raccontava qual era la novità, spiegava a chi si doveva l’idea e informava naturalmente sui numeri da contattare per prenotare il servizio di trasporto.

La foto pubblicata a fianco era quella che campeggiava sul volantino pubblicitario e ritraeva i diversi soci, tutti maschi e giocatori di calcio, vestiti e truccati da entreneuse sullo sfondo di un grosso camion bianco posteggiato in una piazzola. Il messaggio giocava ironicamente sul ruolo delle accompagnatrici e lo sfondo del camion richiamava il tipo di cliente a cui il servizio si rivolgeva. 

L’idea del camion era venuta al fotografo, dal momento che il gigante della strada era posteggiato ogni notte accanto a casa sua. 

Insomma, una notizia utile presentata in maniera simpatica, e finita lì.

Almeno così pensavamo noi.

Invece proprio nel pomeriggio del giorno in cui fu pubblicata, piombò un tizio in redazione che urlando e sbraitando, cominciò ad accusarci di averlo rovinato, di avergli fatto perdere il lavoro e chissà che altro.

Normalmente quando qualcuno protestava per un articolo o una foto, la grana passava all’autore dell’articolo o al redattore che l’aveva impaginato. In quel caso però nessuno riusciva a capire a che cosa si riferisse il tizio per cui fu affidato a me dal momento che seguivo sia la cronaca nera che quella giudiziaria e quelli che protestavano ce l’avevano più o meno spesso con qualcosa che avevo scritto io.

Lo invitai a spiegarmi bene che cosa fosse successo, dopo averlo portato nella nostra sala riunioni così da non disturbare il lavoro dei colleghi.

Non fu facile venirne a capo. Il tizio era agitato e parlava in dialetto. Mentre lui pronunciava frasi senza un senso apparente, io ripassavo con la memoria gli articoli che avevo scritto il giorno prima e non me ne veniva in mente nessuno che parlasse di un camion, l’unica parola che riuscivo a capire di quello sproloquio.

Presi una copia del quotidiano e gli chiesi di mostrarmi dove fosse il problema. 

Puntò il dito sulla foto del camion con i calciatori tassisti travestiti da donna che pubblicizzavano il loro servizio di trasporto notturno.

Venne fuori che l’uomo era dipendente di una grossa ditta di trasporti della zona, per la quale lavorava come camionista. I mezzi dell’azienda erano tutti di grandi dimensioni e nuovissimi. La regola, ferrea, era che dovevano essere utilizzati solo per il lavoro e al termine della giornata venire posteggiati nel parco della ditta, al riparo del cancello chiuso a chiave.

Il nostro tipo invece aveva deciso autonomamente di apportare una piccola modifica al regolamento aziendale usando il camion anche per andare e tornare dalla sede di lavoro. Durante la notte lo posteggiava in una piazzola vicino casa, sull’ultimo tratto di strada tra la provinciale e l’ingresso della città, ben visibile a tutti e alla mercé di qualsiasi malintenzionato.

Fortuna volle che prima dell’arrivo di un ladro di tir, il mezzo pesante avesse colpito la fantasia del nostro fotografo, così che la situazione era venuta a galla prima che succedesse qualcosa di irreparabile. 

Non so alla fine se il tipo sia stato licenziato o se se la sia cavata con una strigliata di capo e l’obbligo di andare al lavoro con la propria macchina. Fatto sta che se fosse stato un po’ più sveglio, più che arrabbiarsi con noi, avrebbe dovuto ringraziarci.

Altroché.     

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Il filmino dell’università

All’università studiavo lettere con indirizzo musica e spettacolo, il più divertente ma anche più inutile. A storia del cinema avevamo Lino Micciché, creatore del festival di Pesaro. Ogni anno ci invitava ad andare, ma io non l’ho mai fatto.

Sergio Micheli teneva un seminario di cui non ricordo il titolo. Però a un certo punto, oltre a guardare di continuo film muti e in bianco e nero nella sala cinema del primo piano in via Fieravecchia, con lui decidemmo di girare un nostro film.

Un filmino, una specie di spot. Ma cercammo di buttare giù una trama e ci distribuimmo i compiti.

Io scelsi di fare la trovarobe, oltre a partecipare a tutto il resto .

La storia era un po’ vaga e non sapevamo dove andare a parare. 

Erano gli anni Ottanta, in Italia non era arrivata nemmeno MTV e noi eravamo digiuni di tutto, compresa la cultura cinematografica e televisiva contemporanea.

Prendemmo ispirazione da una pubblicità del momento, quella dell’uomo che non deve chiedere mai, ci costruimmo sopra una storiellina che vedeva nel ruolo di attore protagonista Olly, un corpulento studente tedesco con il viso tondo incorniciato da riccioli d’oro, occhialini alla John Lennon, gotine rosse e paffutelle.  

Il nostro sforzo creativo di gruppo partorì un plot in cui questo Olly, passando dalla scalinata di Romeo e Giulietta, al Battistero del Duomo, incrociava una ragazza che attirava la sua attenzione grazie alla scia di profumo che lasciava. Anche qui citavamo un’altra pubblicità dell’epoca in cui una donna camminava per strada tutta improfumata e gli uomini la seguivano col naso all’insù.

Non era un granché, però l’avventura ci piaceva. Ci faceva sentire come studenti del Dams, dei quali eravamo purtroppo solo i cugini poveri.

Sceglievamo le varie zone della città dove girare le nostre scene. Il tecnico dell’università ci seguiva, povero lui, con la telecamera della facoltà.

Ci trovavamo la mattina presto con Sergio Micheli e mettevamo su il nostro set, come una vera produzione cinematografica.

Andammo alle fonti di Pescaia e in Fontebranda, al Battistero del Duomo e nei giardini di via Fieravecchia. All’epoca non si diceva ancora location, erano solo posti belli che avevamo scelto per il nostro filmino.

La trama prevedeva anche una scena di gelosia, con un ragazzo più fisicato del nostro Olly, che si prestava a interpretare il ruolo dell’uomo che non deve chiedere mai, e che a un certo punto raccoglieva l’interesse della ragazza che tanto aveva colpito le narici del tedeschino.

Dopo questo sforzo creativo, per tirare avanti la storia ci fu richiesto di pensare un finale.

Le nostre menti da surrogato del Dams ci portarono a far fissare un appuntamento tra Olly e la bella improfumata dove tutto aveva avuto inizio, sulla scalinata di Giulietta e Romeo.

Olly, naturalmente, si era già girato il suo bel film nella testolina per cui il copione prevedeva che portasse con sé una confezione di profilattici, che dovemmo comprare noi, forse addirittura io, visto che facevo la trovarobe. 

Per non sciupare l’eccezionale sorpresa al pubblico decidemmo che Olly avrebbe nascosto la confezione nella tasca posteriore dei jeans. 

Poi, una volta giunto alla famosa scalinata, nell’attesa della bella improfumata, si sarebbe seduto a terra e girandosi di tre quarti la cinepresa avrebbe inquadrato un angolo della scatolina che faceva capolino dalla stoffa blu.

La scena avrebbe suggellato la disfatta finale e totale del povero Olly, che era andato un po’ troppo avanti con l’immaginazione, mentre la bella improfumata non sarebbe mai arrivata all’appuntamento, essendo molto probabilmente impegnata a laccarsi le unghie per interpretare la donna che si avvinghiava al torace dell’uomo che non doveva chiedere mai.

Da via Fieravecchia, dove una copia di tal capolavoro dovrebbe essere ancora presente in qualche archivio sotterraneo, è tutto.

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Le prime vacanze a Praia a Mare

Quando i nonni morirono cominciammo ad andare in vacanza in posti più lontani. Questo accadeva perché non c’era più bisogno che restassimo a disposizione in caso di emergenza. Un anno andammo in Calabria, a Praia a Mare, nella parte più a nord della regione. Il camping era una distesa di terra brulla con degli alberelli sparuti piantati da poco. Ma eravamo sul mare, davanti all’isola di Dino, che dicevano fosse degli Agnelli.

La strada per arrivare non finiva più. Per questo ci fermavamo sempre una notte a Baia Domizia, sia all’andata che al ritorno. Qui andavamo a mangiare le mozzarelle freschissime di bufala a dei baracchini vicini alla strada, attrezzati con tavoli e panche sotto i tendoni.  

Prima di cena andavo al solarium del campeggio, una distesa di sdraio su un prato verde vista mare, per fumare di nascosto.

Tirava sempre un forte vento che consumava la sigaretta e ne trasformava il sapore. Ma riuscivo sempre a godermi quel momento tutto per me.

Un giorno, quando eravamo a Praia a Mare, babbo ci fece salire in macchina di mattina presto e ci portò a fare un giro sulla Sila. Dopo i lunghi tornanti in mezzo ai boschi, a Camigliatello trovammo un caseificio. Ci fermammo a vedere che cosa c’era e comprammo un sacco di formaggi. Il mio preferito era un cartone come quelli del latte che conteneva delle mozzarelline affogate in una panna densa e acida. Il massimo poi, una volta tornata alla roulotte, era mangiarla con la nutella.

Una volta prendemmo un gozzo a noleggio e facemmo un giro tra le spiaggette dei dintorni. 

Ci fermammo all’Arcomagno, una spiaggia bellissima a cui si accedeva da un’apertura naturale a forma di arco nella roccia.  

A Praia a Mare le roulotte erano molto rade, divise solo da quegli alberelli sofferenti che dovevano ancora crescere. Poco distante dalla nostra, andando verso l’ingresso del camping, ci stava una famiglia del nord Italia con due bambini.

Quell’anno mi ero portata dietro la chitarra e ogni tanto suonavo nella veranda. Un giorno vidi che avevo un pubblico. I due bambini erano in piedi davanti alla nostra roulotte e mi guardavano incantati. Suonai ancora un po’, poi mi stufai, ma loro volevano che continuassi.

Continuarono a venire tutti i giorni. All’inizio il loro interesse mi risultava abbastanza piacevole, ma ben presto i due piccoletti cominciarono a venirmi a noia. Non riuscivo più a far niente senza ritrovarmeli tra i piedi. Quando mi lamentavo con mamma e babbo loro mi dicevano, ma che problema c’è, porta pazienza.

Nel campeggio però non c’erano ragazzi della mia età e quindi alla fine, qualunque cosa facessi, avevo sempre il codazzo dei due bambini.

  • Perché non suoni la chitarra? chiedevano di continuo.

Oppure: 

  • Che cos’hai sulla pelle?
  • Si chiamano lentiggini.
  • E perché te le sei fatte?
  • Non me le sono fatte, vengono da sé.
  • E allora perché… eccetera eccetera.

Io li invitavo ad andare nella loro roulotte e lasciarmi in pace, ma loro erano testardi come dei piccoli muli. 

Cominciai a studiare i loro tempi così da poterli seminare e rimanere da sola in spiaggia o al bar. Ma, anche se il giochetto funzionava, purtroppo non durava a lungo e dopo un po’ sentivo la vocina di uno dei due pronunciare l’inevitabile domanda.

  • E la chitarra? Perché non l’hai portata?

Quando la vacanza finì, il pensiero di non rivedere più i due piccoli assillanti bastò a consolarmi del dispiacere di salutare il mare e l’aria calda della Calabria.

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I miei Capodanni lontani

Quando ero piccola per l’ultimo dell’anno avevamo sempre degli ospiti. All’epoca abitavamo ancora in Campolungo, nella casa al secondo piano di una palazzina di tre con un corridoio e tante terrazze. 

Gli invitati erano amici di babbo e mamma, per lo più legati al mondo della scuola, ma non solo. L’avvocato Oreste Mattone Vezzi con la moglie Franca appartenevano alla schiera degli amici di gioventù di babbo. Con loro non ho ricordi particolari se non per il fatto che li guardavo con una certa soggezione di bambina, ammirandoli, specialmente la signora, che sfoggiava sempre mise di gran classe. 

La signorina Iser era la maestra di Paola e a lei si devono alcuni dei regali più belli che abbiamo mai ricevuto, dalla bambola Bettina, al pupazzo Giannino, alla Collina dei Conigli, uno dei libri che ho prestato non ricordo a chi, ma che ho ricomprato tanto mi aveva fatto stare con il fiato sospeso. 

La sera della cena l’aria si faceva frizzante e piena di aspettative. Ogni volta che suonava il campanello e babbo andava ad aprire era una festa. Per me era come essere al cinema. Gli ospiti entravano in casa portando con sè l’aria fredda di fuori mista al loro profumo.

Non c’erano altri bambini e i patti erano che mangiavamo e poi a letto. Ma io non volevo mai andare perché avevo paura di perdermi discorsi, risate e brindisi.

I figli li avevano solo i Mattone Vezzi e non li portavano. 

C’era la Direttrice, Anna Betti, con i suoi cappelli di velluto chiusi da uno spillone con la perla. C’era Robusto Solari, che più tardi diventò lui il Direttore. C’erano Mario Cappelli e Gioli, anche lui insegnante e più tardi Direttore dello stesso circolo didattico di Colle.

Il salotto della casa di Campolungo era arredato con i mobili in teak che andavano di moda negli anni Sessanta. C’era il tavolo che si allungava aprendolo a metà e facendo emergere una giunta dal centro. Le sedie erano foderate di una stoffa nera ruvida con delle piccole escrescenze bianche, così come il divano e le poltrone.

C’era un mobiletto lungo poggiato a terra dove si tenevano i serviti da apparecchiatura più eleganti e dei mobiletti appesi al muro con i bicchieri e i liquori. 

L’illuminazione era a parete, con dei lampadari in legno divisi in quadrati. Ogni quadrato poi o era vuoto o aveva la lampadina. Quelli con la lampada avevano una copertura di plastica bianca o nera per gli effetti di luce. 

Sotto il tavolino basso da fumo un tappeto giallo, alle pareti alcuni quadri e delle stampe giapponesi su delle specie di stuoie.

Mamma cucinava, babbo stappava le bottiglie, spalmava i crostini e aiutava ad apparecchiare.

I pezzi forti di quegli anni erano il vitel tonné e l’insalata russa. Una volta c’era il pollo in galantina. Quello me lo ricordo bene perché il giorno prima era venuto un cuoco a casa nostra a prepararlo. Si chiamava Imolo e nei miei ricordi di bambina doveva essere per forza emiliano come la città. Faceva il cuoco in un ristorante a Pancole nel periodo in cui mamma e una sua collega ci insegnavano .

Quel pomeriggio non mi allontanai nemmeno un minuto dalla cucina. Guardavo le mani di Imolo, vestito di bianco, che disossavano il pollo, preparavano il ripieno e infine riempivano la sacca di carne che poi veniva avvolta in un tovagliolo bianco e legato con lo spago prima di finire in pentola a bollire.

Io seguivo tutta la procedura senza perdermi un passaggio e chiedendo perché faceva questo e perché faceva quello. 

Imolo pensava di insegnare a mamma quella ricetta, ma dopo di lui in realtà nessuno ha mai più preparato il pollo in galantina, a casa nostra.

Alle cene di Capodanno si apparecchiava con la tovaglia di cotone rosso ricamata di bianco. I piatti, i bicchieri, i vassoi e le zuppiere erano quelli dei serviti del matrimonio di mamma e babbo. I bicchieri in cristallo erano molati, tutti sfaccettati, e lo spumante si beveva nelle coppe. 

Babbo nel pomeriggio sbucciava un ananas e lo tagliava a fette che adagiava in una insalatiera e ci versava sopra lo spumante. Qualche volta c’erano anche delle ciliegine sotto spirito.

Gioli portava uno dei suoi dolci capolavoro. La Direttrice ci regalava dei libri di mitologia greca e romana dopo aver saputo della mia passione per il mondo degli dei.

Mangiando e parlando si aspettava la mezzanotte per brindare e farsi gli auguri. Io però a quell’ora sarei dovuta già essere a letto da un bel po’. Paola andava a dormire senza fare storie. Io invece mi impuntavo, all’inizio chiedendo, per finire supplicando, che mi lasciassero stare ancora un po’ con i grandi.

Per agevolare il trasferimento in camera da letto, mamma ci vestiva già da notte per la cena ma evidentemente, almeno con me, lo stratagemma non funzionava.

Lo facevo anche per Natale e per la Befana, di non andare mai a dormire perché volevo vedere di persona chi veniva a portare i regali. Babbo era disperato perché non poteva andare a letto e doveva aspettare che io crollassi. Ma questo l’ho saputo solo molti anni dopo. 

In ogni caso anche alle cene di Capodanno a una certa ora ce la facevano e mi mettevano sotto le coperte, dopo che avevo salutato tutti con un bacino. 

La nostra camera era in fondo al corridoio, il salotto subito dopo la porta d’ingresso, sulla destra, e non aveva una porta come le altre stanze. Quella del salotto era a vetrata.

Così io, mentre mi credevano a letto, mi alzavo e mi avvicinavo quatta quatta. Poi mi nascondevo rimanendo accucciata tra il muro e la porta, per poter continuare ad ascoltare.

Pare che una volta, al momento dei saluti, mi abbiano trovata addormentata per terra.

Ma il mio obiettivo l’avevo raggiunto.      

(In foto: l’avvocato Oreste Mattone Vezzi e la moglie Franca, Simona con la bambola Bettina e, dietro, la signorina Iser)

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La Settimana del Vino

Un bel po’ di tempo fa ho lavorato in modo piuttosto intenso nel settore della comunicazione del vino. In particolare, insieme a un gruppo di colleghi, curavo l’ufficio stampa e l’organizzazione degli eventi per l’Enoteca italiana di Siena. 

Quando c’era la Settimana del Vino era tutta una cena di gala, una degustazione. Arrivavano giornalisti, produttori e altre persone legate al mondo del vino.

Al tempo fumavamo quasi tutti e non c’era ancora nessun divieto all’interno di ristoranti e spazi chiusi. 

Per cui a cena, tra una portata e l’altra, accendevamo le nostre sigarette suscitando evidente fastidio nei sommeliers, che provavano a istituire dei divieti sul momento.

Non c’è degustazione, dicevano, così non c’è degustazione.

Un giorno andammo a Montalcino da Biondi Santi dove portammo le telecamere della Rai per la cerimonia della ricolmatura delle vecchie bottiglie. Un rito quasi religioso. Ebbi modo di visitare le cantine e di conoscere il grande vecchio, Franco Biondi Santi, che al momento di salutarci volle regalarmi due bottiglie del suo Brunello. 

In quegli anni il vino italiano aveva già fatto passi da gigante e alcune bottiglie, molte delle quali toscane, figuravano nella classifica mondiale dei cento migliori vini redatta da Wine Spectator.

Quell’anno nella top ten c’era il Cepparello di Isole e Olena.

E tanti altri tra i restanti novanta.

Noi seguivamo i convegni, intervistavamo i vari personaggi e scrivevamo comunicati a nastro, spesso anche in piena notte, in macchina, sul mio portatile.

Un mercoledì sera non c’era niente in programma e io mi pregustavo una cenetta tranquilla a casa, una doccia calda e via a letto, quando ci chiamò il direttore dell’Enoteca e ci chiese di accompagnarlo a Mercatale dai Corsini. Cercai di sganciarmi, chiedendo a un collega di andare da solo, ma non ci fu verso. Ci toccò la cena di gala alla villa, con invitati importanti e chiacchierate in inglese e tutto quanto.

Tra gli ospiti c’erano anche due tizi, un uomo e una donna, arrivati da Londra. Lavoravano entrambi per Sotheby’s dove si occupavano delle vendite dei vini all’asta.

Nei giorni successivi sarebbero stati a Siena, all’Enoteca, per un convegno sul tema.

Intervistammo l’uomo, rigorosamente in inglese. Ci preparammo le domande e via. 

Io ho sempre avuto un certo timore a parlare con i londinesi. Avendo viaggiato soprattutto negli Stati Uniti mi trovo molto più a mio agio con gli americani, mentre gli inglesi, specialmente quelli di Londra, mi sembrano difficili da comprendere.

In ogni caso quella sera l’intervista filò liscia. 

Almeno fino a quando chiedemmo all’esperto di Sotheby’s quali fossero secondo lui i vini toscani su cui puntare. 

Sassicaia lo capimmo bene (anche perché in quegli anni non si parlava d’altro). A Tig-nanello ci arrivammo per istinto. Ma Montcivertcini, che lui indicava come un’azienda emergente di grande qualità, non riuscivamo proprio a catalogarla. 

Ci appuntammo tutto e, finita l’intervista, corremmo a fare le verifiche con un esperto di casa nostra. 

L’azienda misteriosa era Montevertine, di Radda in Chianti. E a guardare bene, la pronuncia, se fosse stata una parola inglese, era perfetta.

Da allora per noi è rimasta quella. Montcivertcini e Tig-nanello.

What else? 

(Foto di Rosemarie da Pixabay)

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Pressione bassa

Nella mia collezione giovanile di audiocassette c’era anche un preziosissimo album di Giorgio Gaber. Mi pare che si intitolasse Pressione bassa. Aveva una copertina bianca con dei disegni a inchiostro nero e conteneva L’illogica allegria e Il dilemma.

Fin da piccola ho sempre avuto una passione per le parole e per le storie che riuscivano a raccontare. Quanto ho insistito con nonna Libe perché mi insegnasse a leggere tutte quelle riviste e quei libri che giravano per casa. Mamma insegnava, stava dietro alla casa e a me e Paola e mi diceva di aver pazienza, che presto sarei andata a scuola. Ma io volevo leggere subito. Perché aspettare? Poi in prima elementare mi annoiavo e facevo gli esercizi anche per gli altri, così il maestro alla fine mi mandava fuori dalla classe. 

L’adolescenza l’ho passata a decifrare le canzoni di Guccini e De Andrè e degli altri cantautori. All’epoca non era facile trovare le parole. Non sempre venivano riportate sull’album e, anche nel caso ci fossero state, se ci scambiavamo le registrazioni rinunciavamo ai testi scritti.

Passavo le ore chiusa nella mia cameretta, col registratore e un quaderno, a scrivere le parole. Ascoltavo e andavo indietro per riascoltare finché la frase non era chiara. La scrivevo e andavo avanti. Poi finalmente potevo cantarla anch’io. Anche gli spartiti per la chitarra erano tutti scritti a mano, mentre imparavo a suonare. 

Scandagliare quei testi, resi ancor più significativi dalla musica che li accompagnava, era come studiare alla scuola, altrimenti inesistente, del nostro tempo. 

Quante volte mi sono chiesta chi fosse quel Bertoncelli che sparava cazzate e che gioia quando vidi un articolo con la sua firma e mi fu subito tutto chiaro.

Ogni canzone era un mondo da scoprire piano piano, entrando dalla porta della musica e aggirandosi poi tra le stanze delle parole. Il pensionato, il compleanno, vedi cara. 

Ad ogni ascolto coglievo un particolare in più, mi si apriva un nuovo significato. 

Qualche anno fa però mamma riuscì a sorprendermi quando, parlando di un tizio testadura con il quale ero arrabbiatissima, mi citò la frase “vedi cara è difficile spiegare, è difficile capire, se non hai capito già”. 

Se non hai capito già è tutto un mondo e chissà quanti altri ne ho lasciati indietro.

Poi c’era Giorgio Gaber. In quegli anni si vedeva spesso in televisione, naso aquilino, sorriso ironico e sguardo triste. Le canzoni che cantava in tv erano diverse da quelle che scoprii nel disco. Quelle in tv facevano ridere, le altre no. Le altre parlavano di sentimenti grandi, assoluti, ma in modo delicato. Erano intimiste, intelligenti, mai banali, facevano pensare. Nel dilemma c’è questa coppia che assiste alla fine del proprio amore scegliendo di morire. E te ascolti e riascolti perché ti pare impossibile, forse ho capito male, pensi, magari è solo una metafora. Certo, è una canzone.

Anche queste, come quelle di Guccini, dovevano essere ascoltate tante volte per entrare nella storia che raccontavano.

Ai tempi dell’università avevo un walkman dalle cuffiette di gomma piuma arancione, che mi portavo sempre nello zaino. Il walkman era un registratorino a pile delle dimensioni di un’agendina, praticamente una ventina di iPod messi insieme.

Gaber piaceva al gruppo di amici che frequentavo in quel periodo. Io mi estraniavo spesso, anche quando eravamo tutti insieme alla Costarella, per ascoltarlo. Ma capitava anche che dovessi passare il walkman a qualcuno di loro. 

Nel gruppo di Lettere c’erano Marta e Barbara, un ragazzo di Roma che mi chiamava a roscia e qualcun altro di Palermo che passava in Pantaneto, quando ancora si poteva, con la spider. O forse era quello di Roma, non so più. 

Una sera c’era Giorgio Gaber al teatro del Popolo, a Colle. Prendemmo i biglietti e andammo tutti insieme a sentirlo.

Marta disse che lo avremmo potuto invitare a mangiare con noi, a casa mia, dopo il concerto. Facemmo la spesa, pasta, pomodoro e vino. 

Finito lo spettacolo ci precipitammo nel camerino, dove lui stette a parlare con noi per un po’. Quando lo invitammo ero convinta che avrebbe detto sì. Invece disse che non era possibile. Gli sarebbe piaciuto tanto ma dovevamo capire che il meccanismo di uno spettacolo teatrale comprende tante persone, tempi già stabiliti e posti prenotati, anche per mangiare.

Ci dispiacque tanto. All’epoca, giovani come eravamo, capire certi meccanismi non era così scontato. Avevamo già pregustato di averlo con noi per il resto della serata, convinti che non avrebbe potuto dire di no all’offerta della nostra pastasciutta. Però fu davvero gentile e questo ce lo fece amare ancor più.

In ogni caso noi andammo a casa mia, buttammo la pasta e trascorremmo il resto della serata insieme, senza Giorgio Gaber ma come se ce ne fosse un pezzettino lì con noi. 

(Foto Pino D’Amico da Wikipedia)

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La mia chitarra

Quando cominciai a frequentare le scuole medie decisi che avrei voluto imparare a suonare la chitarra. Mamma e babbo me ne comprarono una, così potei iniziare le lezioni dai Salesiani con Don Vanzetto.
Ormai ero grande e mi muovevo da sola, andando a piedi da Campolungo fino in Sant’Agostino. Sempre in Sant’Agostino, in un campetto di cemento circondato da muri giallognoli, giocavo a basket con altre ragazzine della mia età, allenate da Paolo Pratelli. Non ricordo chi fossero, a parte una che era stata alle elementari con me e con cui ci si litigava il ruolo di playmaker.
La stanzetta delle lezioni di chitarra affacciava sulla corte interna del seminario. Don Vanzetto sedeva alla mia destra e mi insegnava come tenere le dita sulle corde per formare gli accordi.
A me sembrava una magia. Pian piano uscivano i suoni e diventavano melodie.
La canzone del sole, di Battisti, era la rampa di lancio per gli aspiranti chitarristi. Sulla ripetizione infinita di la-mi-re-mi andava avanti tutto il pezzo. Ma intanto si imparava a cambiare gli accordi con la mano sinistra e a segnare il ritmo con la destra.
La chitarra mi appassionava molto più della pallacanestro, tanto che smisi di giocare ma continuai a suonare.
In quegli anni c’erano delle ragazze e dei ragazzi più grandi di me che si alternavano nel complesso della parrocchia. Si esibivano nelle manifestazioni che si tenevano al teatro di Sant’Agostino.
Tra i musicisti c’era una ragazza molto alta con un gran cesto di ricci neri che per me era un mito. La vedevo passare quando seguivo le mie lezioni. Più volte avevo assistito a serate in cui lei suonava. Bravissima, sicura di sé. Praticamente irraggiungibile.
La guardavo e avrei tanto voluto essere come lei, ma non avevo nemmeno il coraggio di rivolgerle la parola.
Un giorno, credo che mancasse qualcuno dei soliti, Don Vanzetto mi disse che quel sabato sarei salita io sul palco. A volte accadono cose cosi, anche se non te le aspetti. Avrei suonato la chitarra elettrica. Per l’occasione imparai Alla fiera dell’est di Branduardi.
Mi rivedo in pantaloni e maglietta bianchi, quasi una divisa, mentre suono in piedi con la chitarra a tracolla.
Al basso c’era la ragazza con i capelli ricci neri, con la quale avevo parlato durante le prove ed era stato più facile di quanto avessi immaginato.
Il gruppo della parrocchia aveva un nome che però non ricordo.
Stranamente non ho nemmeno una foto di quella esibizione, come se salire sul palco a tredici anni con una chitarra in braccio, fosse la cosa più normale del mondo.
A scuola poi, la prof di italiano mi chiese di suonare Giochi proibiti alla recita di fine anno. Sapevo che una delle ragazze più grandi la sapeva fare e le chiesi se poteva insegnarmela. Anche lei era una delle inarrivabili ma sorprendentemente mi disse di sì. Per qualche settimana andai a casa sua di pomeriggio a imparare i vari passaggi, finché non l’ebbi imparata tutta, accordi e arpeggio.
Al saggio di terza media il pezzo mi venne benissimo e continuai a suonarlo negli anni a venire. Finché, alla festa dei diciott’anni, per i quali babbo e mamma mi avevano regalato una chitarra nuova, non venne un gruppo di giovani delinquenti che spaccarono un bel po’ di cose, compreso il mio strumento nuovo.
Ma questa è decisamente un’altra storia.

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Il regalo di Natale

Quando vivevo a Belluno, a un certo punto, cominciai a patire la mia condizione di toscana fuori regione. Stavo in Veneto e avrei voluto essere in Toscana, quando tornavo a casa in pochi giorni dovevo fare talmente tante cose fra le visite a più amici e parenti possibili che quando tornavo su mi sentivo quasi riavere.

Insomma, soffrivo di una sorta di schizofrenia geografica. In più, la situazione lavorativa molto pesante, anche dal punto di vista umano, mi portava ad idealizzare qualsiasi cosa al di fuori di quella provincia, ancor più se aveva l’acca aspirata.

In quel periodo cominciai a notare un’incredibile presenza toscana a Belluno, in special modo nei posti chiave delle istituzioni. Il presidente del tribunale era di Follonica, la presidente dell’Ordine degli Avvocati di Pistoia, il dirigente della Digos veniva da Figline Valdarno, il capitano dei Carabinieri di Cortina da Firenze. Poi avevamo un avvocato bellunese ma nato e cresciuto a Firenze, che aveva conservato con orgoglio la parlata toscana, un’altra avvocata fiorentina, sorella di un magistrato e zia del sindaco di Belluno. Il dirigente amministrativo della questura era di Siena. Poi c’ero io come giornalista di una testata e un collega di Livorno in quella concorrente. Non solo, a un certo punto scoprii anche che la mia anziana vicina di casa scrittrice di gialli per ragazzi, originaria dell’Umbria, aveva vissuto per quasi una vita a Siena. Poi c’era una coppia di medici pisani, un ex finanziere anch’egli di Pisa, un posturologo della Lucchesia, un informatore farmaceutico fiorentino, un artista, una lavoratrice della scuola di Piombino, il socio titolare di un bar del centro, che veniva da Grosseto, e la mia amica del cuore, nata a Belluno ma cresciuta a Lucca.

Con la mia passione per l’insiemistica decisi di raggruppare in un’associazione tutti i toscani che vivevano nel Bellunese. Venne fuori un bel gruppo. Ci ritrovavamo a cena per Natale, d’estate facevamo una festa all’aperto in montagna con la grigliata. Cucinavamo le nostre ricette, la ribollita, i crostini di fegatini. Una volta arrivarono dei tortelli maremmani direttamente da un pastificio di Grosseto. 

Il posturologo si offriva di fare le panzanelle, che scoprimmo essere pasta da pizza fritta, quelle che chiamiamo donzelle o zonzelle. 

Insomma a un certo punto si era più di sessanta. 

Un anno, uno degli anni orribili vissuti tra giornate di dieci ore minimo di lavoro serrato e continui mal di testa, per la cena di Natale dei toscani pensammo di fare un regalino a tutti i partecipanti. Una cosa piccola, giusto un pensierino. Ai tempi c’erano ancora i negozi tutto a un euro. Ce n’era uno anche in centro a Belluno. Con il mio amico barista, nonché segretario dell’associazione di cui io ero la presidente, andammo a cercare qualcosa.

Trovammo delle candeline rosse in piccoli contenitori dorati di varie forme, stella, conchiglia, albero di Natale. 

Alla cena furono consegnate come segnaposto ad ogni partecipante. Alla fine però ne avanzarono quasi dieci. 

Una sera, prima di partire per le vacanze in Toscana, mi ritrovai in redazione da sola per il turno di notte. 

In quel periodo il lavoro era particolarmente pesante e i rapporti con i colleghi molto dolorosi. Sembrava che una maledizione aleggiasse su quell’ufficio, distorcendo le intenzioni e i significati delle parole, complicando relazioni già difficili e appesantendo ancor più situazioni di per sé molto impegnative. 

Tutto questo mi faceva sentire triste e disperata perché io a quelle persone volevo bene. Ma questo non bastava a salvarmi dai malintesi né a rendere le mie giornate più serene. 

A un certo punto mi venne un’idea. Aprii il cassetto della scrivania dove avevo messo le candeline avanzate. Pensando al muro di incomprensioni e alle tante sofferenze inutili mi venne da piangere. Potevo anche evitare di rinchiudermi in bagno, come ero costretta a fare di solito, tanto in quella situazione non mi vedeva nessuno.

Con il sacchettino di carta in una mano e il sale delle lacrime sulle labbra, cominciai a girare da una scrivania all’altra, lasciando una candelina di Natale davanti a ogni computer. Fu una dichiarazione silenziosa ma piena di affetto.

A mezzanotte spensi le stampanti e i computer, girai la chiave nella porta e mi incamminai verso casa, pronta a partire la mattina dopo senza aver salutato nessuno. 

Qualche tempo dopo un collega indicandomi la candelina davanti al suo computer mi disse.

  • Di questa sai niente? È un mistero, ce le siamo ritrovate tutti e nessuno sa chi le abbia portate.

Io sorrisi ma non dissi nulla, nemmeno allora.          

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Nonna Armida e le mie lentiggini

Quando ero piccola mamma e babbo mi lasciavano spesso a casa di nonna Libe, in Colle alta. Paola invece andava da nonna Armida, a Castiglioni. 

Ogni volta che tornava a casa ce ne raccontava una. 

Un giorno, mentre nonna chiedeva di passarle il pennato, Paola si guardava intorno spaesata senza capire di che cosa stesse parlando.

  • Ma che c’andate a fa’ a scuola se un v’insegnano nulla, diceva allora nonna spazientita.

Un’altra volta nonna cercava una gallina che mancava alla sua conta. 

Paola le rispose soavemente:

  • L’ho vista passare, giocava a rincorrersi con il cane.

Anche a me ogni tanto mi toccava andare da nonna Armida, ma non ne ero mai troppo entusiasta. Sia perché nonna stava tutto il giorno a lavorare nel campo e a dar da mangiare agli animali, sia perché aveva un carattere brusco, brontolava sempre e non le andava mai bene niente.

Ogni tanto ci si divertiva anche, però. Come quando mi faceva salire su un fico con la scala e da sotto, mostrando il paniere, mi diceva. Bel bambino, mi allunghi un fichino con il tuo manino? 

Ma erano episodi abbastanza rari.

A un certo punto, per esempio, cominciò a prendersela con le mie lentiggini. Sembrava allora che trovare il modo di toglierle fosse diventato l’unico scopo della sua vita.

Chiedendo in giro aveva raccolto diversi metodi, tutti fantasiosi, per risolvere quello che lei riteneva essere un mio grosso problema.

Naturalmente si guardava bene dal consultarsi con gli altri familiari, tipo sua figlia che era anche la mia mamma, sapendo bene che l’avrebbero stoppata sul nascere.       

Forse non era nemmeno un comportamento del tutto ragionato. D’altra parte lei era così, una contadina furba che pensava sempre di farla franca quando gli altri non la vedevano.

Poi, quando zio e zia tornavano a casa e trovavano il frigorifero dipinto di rosa o il caminetto arancione, la brontolavano. Ma lei alla fine era sempre convinta che fossero gli altri a sbagliare e andava avanti per la sua strada.

Tra i rimedi che qualcuno le aveva suggerito per sbarazzarsi delle mie lentiggini ce n’era uno che garantivano come definitivo. La pipì di cavallo. 

Io le avevo detto che mi faceva schifo solo pensare di fare un bagno nella pipì di un cavallo, ma lei insisteva che per levare tutta quella semola (le mie lentiggini) bisognava farlo.

Io sinceramente non capivo che problema ci fosse con la mia pelle e intanto mi consolavo con il fatto che né la mia famiglia, né altri conoscenti, avessero dei cavalli a cui chiedere la preziosa donazione.

Purtroppo però all’epoca a Colle c’erano un bel po’ di cavalli nel campetto sotto alla piscina Olimpia. Nonna decise quindi che avrebbe chiesto a chi li badava di metterle da parte il miracoloso liquido.

Io ero divisa tra l’orribile sensazione che avrei dovuto sperimentare lavandomi con l’urina ippica e la speranza di veder sparire dalla mia pelle quelle inutili macchioline che, a furia di venire criticate da nonna, mi erano anche venute a noia.

In ogni caso ogni volta che mi toccava andare da nonna Armida avevo sempre il terrore che tirasse fuori un bottiglione di liquido giallo con il quale mi sarei dovuta lavare.  

Un giorno eravamo a casa da sole e lei arrivò in cucina con un barattolo bianco di crema per il corpo. Mi disse, vieni qui che te la passo sui bracci e sulla schiena. Questa vedrai che te la manda via la semola.

Insomma, alla fine non mi era andata troppo male. 

Crema contro pipì di cavallo. Non avrei potuto chiedere di meglio. 

Il pomeriggio trascorse con le solite cose. La merenda, i giornalini, la televisione.

Solo che ogni tanto arrivava nonna con quel barattolo tondo e bianco in mano, svitava il coperchio e mi spalmava ditate di crema di qua e di là.

La sera poi mamma mi venne a riprendere e sembrava come se non fosse successo niente.

Il giorno dopo invece arrivò la telefonata di zia Carla che svelò a mamma l’ultima trovata  di nonna Armida. 

Zia era fuori di sé. Quella crema gliel’aveva segnata un dermatologo e sicuramente non per eliminare le mie lentiggini. 

Mamma era fuori di sé. 

  • Che ti ha fatto nonna, ieri? mi disse precipitandosi su di me come un falco.
  • Boh, le solite cose…
  • Pensaci bene Simona. È vero che ti ha spalmato la crema di zia Carla?
  • Ah sì, mi voleva togliere le lentiggini. Meno male non aveva trovato la pipì di cavallo.

Tra mamma e zia era tutto un urlare: ora basta, Armida non può fare sempre di testa sua e via dicendo. 

Nonna credo che abbia fatto come sempre. Cioè, se l’è fatta entrare da un orecchio e uscire dall’altro. Per poi continuare a fare di testa sua.

Io ancora ringrazio per il pericolo scampato.

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Gastone (2)

Appena Gastone si trasferì stabilmente da noi, si resero necessari due passaggi: toilette e veterinario. 

Dopo il bagno Gastone non sembrava più lui. Gli era esplosa una quantità di pelo lungo, brillante e ondulato del tutto inimmaginabile. Fino ad allora il pelo sembrava corto, mi spiegò Mariagrazia, la toelettatrice di Spugna, perché era compresso in una specie di fango solidificato da chissà quanto.

Il veterinario invece sentenziò che Gastone doveva avere sui tre anni e mezzo ed era anche abbastanza sano. Di sicuro non aveva avuto una vita facile. Lo testimoniavano tutte quelle cicatrici sul muso e su altre parti del corpo e le isolette di peli bianchi che spuntavano nel manto fulvo. La cosa più impressionante però erano le unghie, consumate quasi del tutto, come se, disse il veterinario, avesse dovuto scavare chissà per quanto per fuggire da chissà dove.

Al canile, mentre riempivo i fogli per l’adozione, scoprii che a Gastone non era stato dato un nome, nemmeno provvisorio. Quando raccontai che a casa Gastone saliva sul muretto e abbaiava con una voce rauca e bassa scoprii anche che nessuno lo aveva sentito mai abbaiare in tutti i mesi che era rimasto chiuso in quella gabbia.

Poi ci fu il cambiamento di mamma. Lei che fino ad allora si era opposta con tutte le sue forze all’ingresso di Gastone in famiglia, all’improvviso ne diventò la principale sostenitrice, convinta com’era di essere la sua preferita perché gli preparava la pappa. 

Io lo avvisavo: Gastone non ti fidare, è lei quella che ti ha rimandato al canile e che non ti voleva a casa. 

Ma lui, ingenuo e pieno di riconoscenza, ci cascava sempre. 

Al primo calore di Vanessa, mamma si trasferì nel mio appartamento con Gastone, perché restassero separati. Ma non fu affatto facile. Così al calore successivo decisero di portare Gastone da me a Belluno.

In quel periodo vivevo in una porzione di palazzo Miari Fulcis in pieno centro. Con mamma decidemmo che lei avrebbe dormito al Centro Diocesano mentre Gastone sarebbe rimasto in casa con me. La prima sera però io avevo il turno di chiusura al giornale e sarei tornata dal lavoro dopo mezzanotte. Mamma invece doveva andare via prima che il Centro chiudesse verso le dieci e mezzo, undici. Così Gastone rimase a casa solo per un’oretta. Mamma pensò che si sarebbe annoiato e lasciò luce e tv accese per lui. Quando aprii la porta sentii dei rumori strani, come dei gemiti. In salotto c’era Gastone accucciato sul suo cuscino davanti alla tv che trasmetteva i programmi pornografici notturni. 

Quando mamma tornò in Toscana dovetti gestire da sola le necessità di Gastone. Al mattino, appena sveglia, lo portavo a fare la prima passeggiata del giorno. Per l’intervallo del pranzo mi preparavo un panino che mangiavo su una panchina. La sera poi, appena rientravo, si partiva con un’altra giratina. 

Per certi versi poteva sembrare impegnativo, però era anche divertente, oltre che salutare. Tra l’altro a Belluno, pur abitando in pieno centro storico, bastava attraversare piazza Duomo e prendere le scale dietro al Comune, per arrivare in campagna in pochi minuti, verso Castion o lungo il Piave. 

In poco tempo Gastone era diventato una vera attrazione in città e quando passavamo per il centro raccoglieva un sacco di complimenti, che lui accettava abbassando il testone e facendoselo accarezzare.

Un giorno con un’amica andammo a Erto e Casso, sopra la diga del Vajont, a fare un giro. Portammo anche Gastone. Aveva nevicato da poco e il terreno in pendenza lungo i tornanti era tutto bianco. Prima di arrivare al paese ci fermammo. Fu allora che Gastone scoprì la neve.

Cominciò a saltare eccitato lungo i pendii innevati, arrampicandosi e lasciandosi scivolare come un bambino sullo slittino. Sembrava impazzito, con quelle capriole e le sdrusciate di schiena. Peccato non avere un filmino di tutta quella gioia.

Poi arrivò il momento di riportare Gastone in Toscana e per Vanessa di subire un intervento di sterilizzazione.

Io continuavo a vivere a Belluno e i cani li vedevo quando tornavo a casa. Allora facevamo lunghe passeggiate per i campi e le colline circostanti. Vanessa conduceva con lo sguardo dritto davanti a sé e Gastone le girava intorno come un perfetto innamorato, saltellando mentre le zampe posteriori andavano una in qua e una in là.

Ogni tanto uno dei due, più spesso Vanessa, prendeva un forasacco e bisognava correre dal veterinario. Vanessa prese anche la leishmaniosi, dalla quale guarì miracolosamente tenuta su a forza di fettine di prosciutto cotto.

Gastone invece sembrava avere meno problemi. Finché non iniziò a stare male e ad avere difficoltà a muoversi. Babbo per portarlo fuori all’aria aperta aveva preparato una specie di zatterina con le ruote. Gastone ci si accucciava sopra e loro lo tiravano. 

Nessuno mai capì di che cosa soffrisse Gastone. 

Un mattino, verso Pasqua, mamma si alzò e lo trovò ormai morto. 

Aveva fatto tutto in silenzio, senza disturbare. Sempre grato com’era per la nuova vita che gli avevamo regalato.

(2-fine) 

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