Chissà perché stamani mi è tornata in mente quella volta che sono andata a Coverciano a intervistare i calciatori della Nazionale.
Era la primavera del 2002, a Firenze faceva un caldo della madonna, io avevo ancora la mia meravigliosaspiderrossacoltettuccioneroeifariapalpebra e non vivevo a Belluno, anche se mi sarei trasferita di lì a un mese.
Siccome lavoravo a Firenze mi chiamò un amico chiedendomi se potevo fare un salto a Coverciano per delle interviste che gli servivano nell’ambito di un ufficio stampa di qualche azienda. Il motivo per cui lo chiese a me, oltre al fatto che mi trovavo in loco (ah ah, Catarella!), è che a Coverciano entrano solo i giornalisti professionisti.
Andai intorno alle 2, scappottata sotto un sole rovente (i fiorentini sanno di che parlo), mi presentai all’ingresso, feci la registrazione e mi trovai di fronte a un bivio. In pratica entro una mezz’ora avrebbero sguinzagliato un pacchetto di cinque giocatori a sorpresa, intervistabili girando a destra, o il mitico Trap, nella stanza a sinistra.
Impensabile fare entrambe le cose, quindi optai decisamente per la sorpresa calciatori. Di calcio non ci capisco granché ma mi sembrò la decisione migliore. In più di un senso. Anche se, a dir la verità, non mi sarebbe dispiaciuto affatto sperimentare di persona lo strano eloquio di mister Trapattoni.
Fuori uno. Alex Del Piero! Minchia… Si parte alla grande! Ah, forse non ho detto, mi pare, che era il ritiro prima dei Mondiali della Corea del Sud. Una strage… ma ancora almeno non si sapeva.
Alex si siede sciolto su un tavolo, i giornalisti intorno premono, c’è la solita jungla di microfoni e telecamere, i fotografi scattano. Non ricordo le domande, ma mi sa che quello non era proprio un gran momento per lui, doveva riprendersi da qualche problema o qualcosa del genere. Comunque niente da dire. Carino, gentile, disponibile, pacato. Vabbè, lui. Del Piero.
Aspettai timorosa fino in fondo il mio turno, sperando che nel frattempo i colleghi sportivi si stufassero e abbandonassero il campo, e poi alla fine me ne uscii davanti a tutti con la mia domandina sugli investimenti in fatto di impianti sportivi. Strano, non si mise a ridere nessuno come invece avevo temuto. E Del Piero rispose tranquillamente come aveva fatto con tutti gli altri giornalisti.
Rinfrancata, mi misi a caccia degli altri. Ah, siccome in realtà di calcio non ne capisco niente se non per sentito dire, non avevo nemmeno idea, escluso Del Piero, di chi potessero essere gli altri.
“Oh, ce n’è uno con i capelli biondi a caschetto” dicevo al cellulare al mio amico, il committente.
“Come parla, napoletano?”
Aspetta che mi avvicino.
“Sì, mi pare di sì”.
“Allora è Fabio Cannavaro, vai…”
“Vado”.
“Ciao Fabio! Sono Simona Pacini, ti volevo chiedere che cosa ne pensi degli impianti sportivi per i giovani eccetera eccetera…”
Era da solo, alto più o meno come me. Lo dico per certo perché mi si stampò addosso. Ce l’avevo davanti a un centimetro con quell’aria da scugnizzo che poi non ti dava nemmeno troppo fastidio. Avercelo un po’ appiccicato, intendo.
Anche lui rispose, presi i miei appunti sul taccuino, scusa ti sposti un attimo, grazie ciao.
Non avevamo mica tutto il tempo che volevamo a disposizione. Bisognava correre per beccarli, intrufolarsi fra i colleghi più esperti, strappare la dichiarazione e andare alla ricerca di un altro. Il tempo stava per scadere.
A Coverciano entri in una specie di palazzo ma poi esci in un giardino molto grande, subito prima dei campi di allenamento. E le interviste le facevamo lì, all’aperto.
Ne vedo un altro accerchiato da giornalisti con i soliti microfoni, telecamere e taccuini. Non ho tempo di chiamare il mio amico. Mi butto, cerco di cogliere qualche particolare dalle domande degli altri. Qualcuno parla di Atalanta. Era un ragazzo bellissimo, alto e con gli occhi celesti.
“Sarà stato Cristiano Doni” fa il mio amico sentendo la descrizione. Boh, mai sentito prima.
Toh, Francesco Coco. Di questo non ricordo se lo conoscessi o no, ma mi pare strano. Me l’avrà detto il mio amico di sicuro.
Aspetto che due tizie finiscano di intervistarlo. Sono evidentemente infastidite dal fatto che io stia lì dietro sentendo le loro favolose domande ma non sanno che non ho alcuna intenzione di copiare la loro intervista. L’unica cosa che mi preme è non farmelo scappare. Ho detto che li intervisto tutti e cinque e cinque devono essere, oh!
Alla fine le tipe finiscono e dopo avermi incenerito con un’occhiata si allontanano e mi lasciano sola con lui. Gli faccio la mia domanda ma non mi pare che risponda a tono e mi viene la faccia un po’ stupita. Allora lui prende il mio blocchetto e ci scrive Camp Nou. E che cosa vuol dire scusa? Ah, è lo stadio di Barcellona dove ti piacerebbe tornare a giocare? Sì ma che c’entra scusa? Vabbè, pensava che gli avrei fatto anche io le domande come tutti gli altri. E invece no.
Sono vicina all’uscita, nel vialetto da cui si rientra nelle sale piene di frigoriferi straboccanti di bibite e con il tavolo del buffet, quando ne passa un altro di corsa. Questo lo conosco. E’ Pippo Inzaghi. Scusa, posso farti una domanda? Lo fermo afferrandolo per la maglia. Lui risponde tutto di fretta e poi riparte di corsa.
Ok, sono cinque. Fatto!
Non è andata nemmeno troppo male.
Mi fermo un attimo intorno a una fontana, o forse era un’aiuola, per ritemprarmi e risistemare gli appunti. C’è quella giornalista sportiva della Rai, come cavolo si chiamerà. Con lei c’è una tipa che le tiene il cagnolino, pare che siano inseparabili (con il cagnolino non con la tipa). Una non tanto simpatica con l’aria un po’ supponente. Infatti quando le dico, che carino!, accennando una carezza al cagnetto, mi fulmina con lo sguardo e non dice una parola. Manco risponde al saluto. Vabbè, pace.
Esco da Coverciano, risalgo sulla mia meravigliosa spider e torno a Firenze.
I mondiali del 2002 poi non andarono molto bene. Durarono poco, fino agli ottavi, ah già ci fu quella storia dell’arbitro disonesto. Ma quando li vidi, strana la vita, ormai ero già a Belluno.