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Se questo è un rimpianto

Nel 1987, l’ultima settimana di agosto, ero in vacanza all’isola d’Elba con mamma, Paola e una mia amica che ci aveva proposto di condividere l’appartamento che aveva preso in affitto a Porto Azzurro. Lei all’Elba c’era già stata qualche settimana prima ed era voluta tornare per ritrovare amici e amori. 

Lasciammo babbo a casa da solo e partimmo con l’Alfetta 2000 nera a gas con la marmitta scassata.

L’appartamento era grande e aveva anche uno spazio esterno, una veranda, dove apparecchiavamo per mangiare. 

Al tempo avrei voluto fare la cantante jazz, ma ero timida da far paura. In ogni caso ogni sera c’erano musicisti da qualche parte e la mia amica, quando non era con gli altri ragazzi amici suoi, mi accompagnava spingendomi a cantare. Qualche musicista lo conoscevamo. Tra i batteristi c’era Piero Borri, un amico di Firenze, ma ogni sera spuntava qualcuna molto più intraprendente che cantava al posto mio. 

Di giorno andavamo in spiaggia tutte insieme dalle parti di Capoliveri. La sera, io e la mia amica, macinavamo chilometri di locale in locale rombando con l’Alfetta per le strade dell’isola. 

Una mattina, non eravamo ancora andate al mare, sentimmo un rumore fortissimo provenire dall’esterno. Pareva quasi che un elicottero sorvolasse la nostra casa. 

In effetti era proprio così. Uscimmo in macchina con costumi e teli da spiaggia, chiedendoci che cosa potesse mai essere successo. Forse la scorta a un personaggio famoso. In vacanza non possono succedere cose brutte.

Però c’erano polizia e carabinieri dappertutto, e anche la guardia di finanza. 

Una pattuglia ci fermò. Che cos’era tutto quel rumore che veniva dalla marmitta?

Mamma cercò di distrarre il poliziotto che le voleva fare una multa.

  • Ci dica invece che cosa sta succedendo, con tutta questa confusione che c’è in giro…

Scoprimmo così che c’era stata una rivolta nel carcere, proprio lì a Porto Azzurro. Dei detenuti avevano preso degli ostaggi e minacciavano di ucciderli. 

La sera, babbo al telefono sembrava quasi contento del fatto che noi ci trovassimo nello stesso posto di cui parlavano tutti i telegiornali e ci chiese come stava Mario Tuti.

Nel dicembre dell’anno precedente, pochi mesi prima, avevo iniziato a collaborare con un giornale di Siena. Ero corrispondente da Colle Val d’Elsa e scrivevo i miei primi articoli armata di entusiasmo e buona volontà. Oltre che zero esperienza.

Intervistavo il sindaco, le persone in giro, raccoglievo le lamentele dei cittadini, seguivo la stagione teatrale. Insomma, ero una corrispondente di provincia, tra l’altro giovanissima, alle prime armi, divisa tra il giornale, una passione che fino ad allora avevo creduto impossibile da realizzare, e gli ultimi esami all’università.

Avrei potuto chiamare in redazione e dire, sono a Porto Azzurro, se vi interessa posso seguire io la rivolta per voi. Mi sarebbero bastati un taccuino e una penna per prendere appunti e un telefono per dettare i miei pezzi. 

Ma non lo feci. Non passava ora che non pensassi di farlo, ma poi mi dicevo, Simona sei in ferie, che te ne importa? Prenderanno i lanci Ansa. Sai che se ne fanno dei tuoi articoli?

In realtà morivo dalla paura. Sapevo che buttandomi su quella notizia avrei probabilmente fatto anche un salto professionale notevole, ma non potevo immaginare in quale direzione. Potevo anche schiantarmi a terra, vista l’inesperienza, l’ingenuità e tutto quanto. 

L’isola pullulava di forze dell’ordine e di giornalisti. Gli elicotteri continuavano a sorvolare il cielo e il mare era controllato dalle vedette della guardia costiera. 

Ho ancora negli occhi le immagini dei finestroni del carcere coperti da lenzuola con scritte cubitali e di due uomini legati alle sbarre come due cristi in croce. Ma non ricordo più se le ho viste di persona o, più probabilmente, sulle foto dei giornali. 

La nostra vacanza finì dopo qualche giorno ma la rivolta sarebbe proseguita ancora un po’. Quando tornai a casa me ne guardai bene dal rivelare al giornale che avevo vissuto gli ultimi giorni in vacanza sotto il carcere di Porto Azzurro.

Ogni tanto mi capita di ripensare a quella strana avventura da giornalista mancata. Anche mamma dice, ogni tanto, pensa che scoop avresti fatto.

Oggi so bene che uno scoop non cambia niente, né la carriera né tantomeno la vita. Altrimenti avrei avuto ben altre soddisfazioni dal mio amato lavoro.

Allora mi convinco che ho fatto proprio bene a continuare ad andare in spiaggia e a passare le sere nei localini jazz lasciando la rivolta a quelli più bravi di me. 

Però ogni tanto il pensiero riaffiora e quella domanda, dopo trentacinque anni, è ancora senza risposta. Ma so anche che non l’avrà mai più. 

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Una gita finita male

Quando ero alle medie un giorno la prof di italiano ci portò in gita a San Gimignano. Avremmo incontrato il sindaco che ci avrebbe ospitato nella sala del consiglio comunale insieme a qualche consigliere. Ci eravamo ben preparati, con le domande e tutto il resto.

Io ero una tra quelle che avrebbe posto una domanda. 

Nei giorni precedenti ero agitatissima e terrorizzata dalla paura di sbagliare. 

Poi, quando fummo nell’antico palazzo comunale, nella sala con gli scranni in legno scuro, e mi alzai per parlare, fui invasa per la prima volta da una sensazione dolcissima e inebriante. Ero in piedi, davanti a tutte quelle persone, che mi ascoltavano e rispondevano alla mia domanda. 

Avevo un potere. 

Anche se non capivo proprio bene che cosa significasse tutto ciò, mi sentivo forte e felice. 

Adrenalinica.

Se era così facile, anche per una bambina come me, alzarsi e parlare davanti a un sindaco, a dei consiglieri, degli adulti, e mica di sciocchezze ma di cose importanti per la città e la sua vita sociale, allora avrei potuto fare veramente tutto. 

Ero convinta che, dopo quella scoperta, la mia vita sarebbe completamente cambiata. 

Dopo la mattina in Comune, andammo a pranzo e quindi a visitare un museo. 

Alla fine del giro ci fermammo a parlare a gruppetti mentre aspettavamo gli altri per poter andare via. 

Io ero con altri tre compagni, tra cui il ragazzino che mi piaceva. 

La giornata era stata bellissima e noi eravamo rilassati, ridevamo e scherzavamo.

Tutto d’un tratto entrò un tipo di corsa e ci disse di restare tutti fermi là dove eravamo.

In quel momento esatto, al centro del nostro capannello volò un rotolo di soldi cadendo a terra, ai nostri piedi.

Il tizio parlava a voce alta. Era molto arrabbiato.

Sosteneva che qualcuno di noi avesse rubato l’incasso della giornata e disse che nessuno sarebbe uscito di lì finché i soldi non fossero venuti fuori. 

Ora i soldi c’erano, ma erano vicini ai miei piedi ed erano usciti dal mio gruppetto. 

Non sapevo che cosa pensare. 

Non avevo visto chi li avesse gettati, ma poteva essere stato uno dei compagni con cui stavo parlando.

Era stato il ragazzo che mi piaceva?

No, disse lui, io non c’entro nulla, ero qui a parlare con te. 

La prof era furiosa. Intimò al responsabile del gesto di farsi avanti. Non bastava aver gettato i soldi a terra. Occorreva assumersi la responsabilità del proprio gesto, altrimenti avrebbe pagato tutta la classe. 

Ma come? Avevo appena toccato il cielo con un dito e subito dopo finivo accusata del furto di una manciata di lire insieme ai miei compagni?

Non ci potevo credere. Era un’assurdità. E un’ingiustizia.

Alla fine il responsabile confessò. Disse che aveva visto la teca aperta con i soldi a portata di mano e non aveva saputo resistere. Il custode li stava contando a fine giornata e si era allontanato un attimo per fare qualcosa. 

Dal momento che il maltolto era stato restituito e il colpevole individuato, fu deciso di chiudere lì la questione. L’uomo non avrebbe sporto denuncia.

Poteva sembrare che fosse tutto finito bene. 

Invece no. Tornammo a casa tristi e carichi di vergogna per una cosa che non avremmo neppure saputo immaginare. 

Io in particolare, piccola com’ero, scoprii a mie spese quanto è fragile la gloria e quanto basta poco per distruggere in un attimo anche le cose più belle. 

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Una provvidenziale caparbietà

La prima volta che andai a New York mi iscrissi a una scuola di inglese. La sede era nel centro di Manhattan, io vivevo in affitto qualche strada più giù, nell’appartamento di una ragazza, in un casermone di mattoncini rossi a Stuyvesant Town. Ogni mattina, dal lunedì al venerdì, uscivo di casa prima delle otto e camminavo per una mezz’oretta fino alla scuola. Qualche volta facevo un pezzo di strada con la ragazza, che lavorava al palazzo di vetro dell’Onu, non molto distante da lì.

Nella mia classe non c’era nemmeno un italiano. C’erano una ragazza spagnola innamorata di Michael Jackson, un catalano che ci teneva molto a non esser definito spagnolo, una giapponese con cui una sera andai a Broadway a vedere Miss Saigon, una brasiliana di Porto Alegre che divenne la mia migliore amica a New York, due ragazze di Santiago del Cile e una marea di coreani. 

La mattina presto nell’aula si sentiva un odore forte e pungente, come quello dell’aglio o della cipolla. Erano i coreani.

Una volta mi invitarono a pranzo in un ristorante in Korea Town (all’epoca era giusto una strada, ora non so) dove potei appurare che quell’odore veniva dal porro crudo tagliato a fettine con cui accompagnano il loro piatto nazionale, una zuppa con diversi tipi di carne fatta sobbollire tutta la notte. Insistettero fino allo sfinimento perché la mangiassi, anche se ero vegetariana. Mi insegnarono anche a mangiare con le bacchette alla maniera coreana, cioè tenendole in un modo diverso rispetto ai cinesi e ai giapponesi. 

Dopo quel pranzo cominciarono a vedermi come una specie di coreana ad honorem. Ma non era una cosa piacevole. Anzi.

Nei giorni successivi scoprii anche che avevano un senso del possesso molto spiccato e che tendevano a formare un clan che teneva al di fuori tutti i non coreani. Esclusa me. 

Erano molto soffocanti e avevano tutti lo stesso atteggiamento, dai più giovani ai più grandi.

A un certo punto cominciarono a parlarmi male di quelli che erano fuori dalla loro cerchia. Ma il loro senso del possesso non si esprimeva soltanto a parole. Quando stavo con gli altri della classe anziché con loro, mi mettevano il muso e mi guardavano in cagnesco. Avevano poi un modo particolare di tendere i muscoli del corpo, irrigidendosi in pose che richiamavano le posture delle arti marziali, con le quali facevano muro anche fisicamente per impedirmi di uscire dal loro controllo.

Un vero incubo. La mia amica brasiliana non capiva il mio senso di insofferenza. 

Diceva, ma che problema c’è, Simona. Tu puoi frequentare chi ti pare. 

Certo, intanto però dovevo inventarmi continui stratagemmi per svicolare dal clan di Seul. 

Quando la mia vacanza-studio finì me ne tornai a Treviso, dove abitavo in quegli anni.

Naturalmente prima di salutarci, a scuola ci eravamo scambiati tutti indirizzo e numero di telefono.

Dopo qualche mese ricevetti la telefonata di uno dei coreani, il più vecchio. 

Mi disse che era in gita in Italia e che sarebbe passato proprio da Treviso. Avrebbe voluto salutarmi anche perché doveva chiedermi una cosa. Una cosa importantissima, però doveva essere sicuro che io gli avrei risposto di sì.

Dimmi di che si tratta, come faccio a risponderti prima.

Simona, io vengo a trovarti, te però devi rispondermi di sì.

Questa solfa durò un sacco di tempo e probabilmente si sarebbe protratta all’infinito se non avessi tagliato corto. Va bene, passa da Treviso e poi vediamo.

Credo che chiunque al mondo avrebbe capito quale fosse la domanda alla quale avrei dovuto rispondere. A me, sinceramente, un’eventualità del genere sembrava impossibile, per cui la scartai in automatico.

E feci male. Perché quando il signor coreano arrivò a Treviso e ci incontrammo, mi disse che lui era venuto con la certezza che io lo avrei sposato e ormai non potevo più dirgli di no.

Non fu facile convincerlo, ma alla fine riuscii a farlo ripartire con il suo gruppo. E, quel che più conta, senza di me.

Mi sono sempre chiesta da che cosa potesse dipendere questa attrattiva malsana che esercitavo sui coreani.

Forse dal fatto che ero anche una vera ingenua, ma sotto sotto potevo combattere ad armi pari con loro per caparbietà.

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Quando la Nannini cantò all’Elba

Il 14 agosto 1991 Gianna Nannini cantava all’isola d’Elba. Il 13 agosto dello stesso anno alle dieci e mezzo io, Rosario, Alessandra e Raffaella ci imbarcavamo con la mia Polo bianca su un traghetto Toremar a Piombino, destinazione Porto Azzurro, dove si sarebbe tenuto il concerto. 

Fra i bagagli c’era anche la tendina igloo nuova di pacca a due posti che ci aveva prestato Lula, che ancora oggi si chiede come abbiamo fatto a starci dentro tutti e quattro. 

Rosario conosceva un ragazzo che gestiva un campeggio sull’isola. Ci saremmo fermati lì.

Il concerto era stato preceduto da una serie di fraintendimenti che mi indicavano come l’addetta stampa di Gianna Nannini, per cui avevo ricevuto una serie di telefonate con richiesta di notizie e materiale. Mentre mi impegnavo a spiegare che ero una semplice giornalista che avrebbe seguito a sua volta il concerto, colui che aveva probabilmente generato il malinteso, mi diceva, ma fregatene, che te ne importa? Gli mandi due righe e fai come se fossi l’addetta stampa, no? 

Per la prevendita inviai io il fax per tutti dal giornale alla Only Music di Bruno Galeotti, Empoli.  I biglietti dello Scandalo Tour costavano trentunomila lire. 

Pochi mesi prima, a maggio, l’Università di Siena aveva organizzato il progetto Cantar toscano, a cui aveva partecipato anche la Gianna. Per l’occasione ci furono un’esibizione e una conferenza stampa. Seguii entrambi gli appuntamenti per il giornale.

In conferenza stampa c’era un gruppetto di fan agguerrite che seguivano la Nannini in giro per tutta l’Italia e anche fuori. Alla fine, tanta era stata l’insistenza, le avevano fatte entrare anche se non avevano niente a che fare con giornali e tv. Gianna le conosceva tutte per nome.

Da quel momento le conobbi anche io, per cui quando ci incontrammo a mezzogiorno al Centro sportivo di Porto Azzurro, prima dell’apertura dei cancelli, ci salutammo e le presentai al gruppo. 

Parlammo di Siena, del Palio e di tutto il resto, visto che in quel campo ci passammo diverse ore, sotto il sole d’agosto, nell’attesa del concerto.

A un certo punto una delle fan più accanite, una ragazza magra all’osso, con i capelli biondi corti, vestita tutta di jeans, chiese a Raffaella, l’unica di Siena fra noi, se poteva parlarle dopo il concerto. Le dette appuntamento ai bagni, almeno ci sarebbe stato meno casino.  

Lei non poteva saperlo, ma in quel preciso istante la serata della mia amica fu rovinata. Cominciò a chiedermi, ma che vorrà, ti prego vieni con me. E io, ma che problema c’è, scusa. Non lo so che cosa vuole chiedermi, magari è solo una scusa per. Per cosa? Dài, che hai capito.

I bagni del centro sportivo erano una struttura periferica allo spazio destinato al concerto, situata in una zona piuttosto buia e isolata.

Dopo l’esibizione seguii la mia amica e mi appostai fuori dalla costruzione ad aspettarla, pronta ad intervenire alla prima richiesta di aiuto.

Dopo pochi minuti, uscirono entrambe. La tipa era rimasta colpita quando aveva scoperto che la mia amica era dell’Oca, come la Gianna, e voleva sapere come poteva farsi battezzare anche lei in contrada. 

Tutto qui.

Passato il momento critico, pensammo a rilassarci. Ritrovammo gli altri due per andare a cena. Cercammo di scoprire dove andasse la Nannini con il suo staff. E grazie alle fan non avemmo problemi a finire per caso proprio nello stesso ristorante. 

Lei fu abbastanza gentile. Si fece scattare delle foto e ci autografò i panama bianchi che avevamo comprato a una bancarella nel pomeriggio.

Il giorno dopo era Ferragosto e noi prendemmo il traghetto da Porto Azzurro poco prima delle tre. Il sedici c’era il Palio e avrei dovuto lavorare al giornale.

Oggi Rosario e Alessandra non ci sono più. Ma non ho mai pensato in tutta la mia vita di poter dimenticare un solo secondo del tempo che ho avuto la fortuna di trascorrere in loro compagnia.

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Il mistero dei rosicchi

Quando stavamo in Campolungo avevamo una terrazza anche sul retro della casa. Vi si accedeva dal salotto, quello che a un certo punto divenne la mia camera. Da quella terrazza si vedeva solo una casa, dalla quale ci separavano un bel po’ di vegetazione e qualche orto. Ci si arrivava da una stradina laterale che finiva lì.  Dopo non c’era più niente, solo campagna. 

In quella casa, al piano di sopra, ci viveva una ragazzina di poco più grande di me, con la quale ero abbastanza amica. A piano terra, con l’ingresso nel piazzale, c’era invece l’officina del suo babbo, che faceva il fabbro. A noi piaceva farci qualche giro e osservare lui con gli occhialoni che gli fasciavano la testa mentre tutto intorno sfavillavano delle specie di fuochi di artificio. Fra gli attrezzi dell’officina c’era anche una grossa stadera con i contrappesi ma se ci si saliva noi si muoveva appena. 

C’erano poi delle bombole di gas molto lunghe, tipo il doppio di quelle da cucina, e un po’ più strette, che una volta vuote venivano messe nel piazzale. Il babbo della mia amica ce le lasciava prendere e noi le facevamo rotolare esercitandoci a restarci sopra in equilibrio. Un giorno scoprimmo che senza scarpe era più facile, perché i piedi potevano fare presa sulla superficie seguendone la rotondità.

Una volta qualcuno mi regalò un paio di pantofoline fatte a mano. Avevano la suola morbidissima, in panno, e sopra erano tutte lavorate all’uncinetto con il filo d’argento. Provai a usarle per stare in equilibrio sulla bombola e funzionarono benissimo. Mi sentivo quasi una Nadia Comaneci. O come una ballerina del circo che veniva una volta all’anno nel campino di Campolungo, quello con il numero di Iside e Semiramide che, tutte vestite di brillantini, roteavano in aria sospese a una fune. 

Della casa con l’officina dalla mia terrazza si vedevano le scale esterne e qualche finestra. Il piazzale rimaneva sulla destra. Tutto intorno c’era un giardinetto delimitato da una rete.

Da un certo punto in poi, io e Paola cominciammo a prendere il sole sul balcone. Qualche volta ci mettevamo il costume da bagno, ma stavamo anche in mutande e canottiera. Noi abitavamo al secondo piano, i vicini di sopra e di sotto non potevano vederci e da quelli di lato eravamo separati da un divisorio di plastica verde. 

Un giorno mentre me ne stavo tranquilla a prendermi i raggi tiepidi di primavera, la nonna della mia amica, quella della casa con l’officina, mi urlò qualcosa dal suo giardino.

Non capivo che cosa diceva, ma il tono era abbastanza arrabbiato.

  • Scusi, non capisco.
  • Sì, certo, quando ti fa comodo non capisci. La devi smettere di buttare i rosicchi nel mio giardino!
  • Che cosa?
  • Fai finta di niente? Ti ho visto, sai, che buttavi i rosicchi di qua da noi. 

Non capii assolutamente che cosa intendeva quella donna e perché fosse tanto arrabbiata. Quei rosicchi, poi. Ma che cavolo erano?

Ormai mi aveva rovinato il pomeriggio. Come si faceva a stare a prendere il sole tranquilli con una tizia che ti urlava contro cose incomprensibili?

Rientrai in casa e mi misi a leggere un libro.

La sera a cena dissi che la vicina doveva essere impazzita. Raccontai che mi aveva urlato delle frasi senza senso, parlava di rosicchi, che io non sapevo nemmeno che cosa fossero. Ero allibita.

Mamma e babbo mi avevano ascoltato senza sapere che cosa dire. Mamma mi chiese se in ogni caso io avessi buttato qualcosa, ma ovviamente non avevo buttato nulla.

A un certo punto, nel silenzio, si alzò la voce flautata della mia sorella che, con la sua flemma, disse.

  • Forse intendeva i torsoli di mela che mi diverto a lanciare dalla terrazza per vedere quanto arrivano lontano. A forza di esercitarmi sono diventata abbastanza brava… 

E anche quel mistero, alla fine, si chiarì.

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Allarme inutile

Quando stavo a Belluno accadde che mi preoccupassi molto per la sorte della mia amica, l’anziana scrittrice di gialli per ragazzi. In genere la incontravo in ascensore, oppure sentivo il giornale radio la mattina dalla finestra della sua cucina. Qualche volta la vedevo seduta con le amiche in uno dei bar del centro o ci sentivamo al telefono.

A un certo punto invece mi resi conto che non avevo segnali della sua presenza già da un po’. Al cellulare non rispondeva, ma non era un problema. Avrebbe richiamato lei quando le fosse tornato meglio, una volta vista la chiamata. Però erano anche diversi giorni che non la incontravo in ascensore. Provai a suonare il suo campanello. Niente. Intanto passavano i giorni e la cassetta della posta si riempiva di buste che nessuno ritirava. 

Il sabato mattina pensai che dovevo fare qualcosa, sperando che non fosse troppo tardi.

Provai a fare un’ultima chiamata. Niente. Il telefono suonava, e questo mi sembrava positivo, ma non lo era il fatto che la signora non rispondesse.

Alla fine mi decisi e chiamai il 118. 

Scattò l’allarme che fece partire la procedura prevista in questi casi.

In pochi minuti arrivarono i sanitari con l’ambulanza, i vigili del fuoco e i carabinieri.

Spiegai loro qual era la situazione. Tentai un’ultima chiamata, che non ottenne risposta.

Quando i vigili del fuoco, che nel frattempo si erano posizionati sotto alla finestra della sua camera, terzo piano fronte Duomo, mi chiesero se potevano procedere, a malincuore risposi di sì.

Nel momento in cui il pompiere frantumava il vetro della finestra, mi squillò il telefono.

Era l’anziana scrittrice.

Le spiegai la situazione. 

Lei, mi disse, era nella casa di montagna dove era andata da qualche giorno senza dire nulla a nessuno. Tornava tutto, la posta che si accumulava, il campanello che suonava a vuoto. 

Ma il telefono?

Aveva visto le chiamate, ma una volta riposava, una volta parlava con qualcuno e si era dimenticata di richiamarmi.

Però mi ringraziò moltissimo per essermi preoccupata per lei.

La mattina dopo, domenica, aspettavo delle persone alle 10 per parlare di scrittura e letteratura intorno al tavolo del mio tinello.

Scesi in cantina a recuperare qualche sedia e quando risalii trovai due di loro che mi aspettavano davanti alla porta. 

In quel momento si fermò l’ascensore e ne uscì la vecchia vicina, l’amica di Ercolino. 

La salutai. 

  • Proprio, lei. Ma non si vergogna per quello che ha fatto?
  • Per cosa, scusi?
  • Me lo chiede anche? Ha messo la nostra casa al centro dell’attenzione per niente. Lo sa che ieri mi hanno chiamato tutto il giorno per chiedermi che cosa era successo?

Il problema, mi spiegò con insolito (perfino per lei) livore, era che il giorno prima era sabato, giorno di mercato. Per cui lo schieramento di ambulanza, carabinieri e vigili del fuoco era stato notato da centinaia di persone. E questo era un motivo di grande vergogna per lei, che si era dovuta scusare con l’intera città per il disturbo (peraltro inutile) da me causato.

L’anziana scrittrice invece si fece una gran risata e mi volle perfino fare un regalo. Disse che non si sarebbe mai aspettata che qualcuno si interessasse tanto a lei. 

Qualche giorno dopo mi consegnò un pacco infiocchettato. Dentro c’era una scatola decorata con i papaveri di Monet che conteneva tazza, piattino e teiera con lo stesso motivo.

Ho mandato un regalo anche ai vigili del fuoco – mi disse -. Erano tanto dispiaciuti per il vetro rotto. Ma che problema c’è, gli ho detto. Con il caldo che fa la notte, almeno avrò la camera ventilata.   

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Posteggio e ordinaria follia

Ci sono delle storie che sono talmente brutte e immotivate che ti chiedi, ma perché dovrei raccontarle. E infatti ormai sono anni che questa storia me la tengo dentro. Con l’unico risultato di farla affiorare, ogni tanto, alla memoria, con il suo carico di amarezza. 

Poi, tra i motivi per cui si racconta una storia c’è anche la volontà di lasciarla andare e sperare quasi di non ricordarla più.

Per questo la racconto.

Un giorno di non molti anni fa ero andata in ospedale da sola per un intervento di poco conto. Il reumatologo mi aveva detto che avrei sentito come un pizzicotto, niente più. C’era da trovare un nome al male che mi affliggeva, a quei misteriosi dolori che aggredivano i miei muscoli rendendomi difficili i movimenti. Quel giorno mi aspettavano in uno dei piani super sotterranei dove avrei trovato due medici giovanissimi, probabilmente specializzandi, più interessati alle carriere dei loro colleghi e a qualcosa che sarebbe dovuto accadere in Sardegna che a me.

Io me ne stavo stesa sul lettino mentre uno di loro armeggiava con un bisturi nella mia bocca e parlava con l’altro. Io non esistevo.

Il bisturi intanto armeggiava molto perché non riusciva a trovare quello che cercava, ovvero delle ghiandole salivari da asportare dall’interno delle mie labbra per sottoporle a un qualche esame. Non proprio un pizzicotto. Almeno mi avevano fatto una puntura di anestetico.

Uscii abbastanza tramortita con l’unico pensiero di arrivare a casa il più presto possibile e infilarmi a letto. 

Pagai il posteggio, entrai in auto e feci per uscire a retromarcia. Impossibile. C’era un suv piantato dietro che non si muoveva. Gli lasciai il tempo per passare, ma quello niente. Mi sporsi dal finestrino con il mio labbro gonfio ricucito con i punti e la mia voglia di andare a dormire e gli chiesi se per favore mi faceva passare.

Era un tizio anziano. Mi disse, vada lei in avanti.

Non potevo. Avevo messo la macchina in uno dei posteggi a lisca di pesce nella prima fila a sinistra del piazzale scoperto. 

Non posso, dissi.

E lui, può può. Giri tutto a sinistra. 

Il genio pretendeva quindi che io ruotassi la macchina di novanta gradi e uscissi da un posto libero a lisca di pesce nella corsia opposta, disposto nel senso contrario al mio, per sbucare nel corridoio contro il senso di circolazione, pure.

Scusi, che cosa le costa andare indietro e lasciarmi passare?

Nel frattempo si stava formando una fila di auto dietro al suv.

Spostati, cretina, sei proprio una puttana, disse una voce di donna.

Volsi lo sguardo perplessa verso una signora bloccata sull’ultimo metro della rampa in salita, che mi restituì uno sguardo altrettanto perplesso. 

Deficiente, muoviti.

La voce di donna veniva dal suv dell’anziano, era la moglie, seduta accanto a lui.

Senta, io di qui non mi muovo. Se si sposta, esco, altrimento resto qua. 

Non avevo molto tempo per stare dietro a queste manfrine. Una volta pagato, il biglietto ti dà quindici minuti e poi scade. Tra l’altro era l’ora di pranzo e il parcheggio era abbastanza libero, il tizio avrebbe potuto scegliere altri posti anziché intestardirsi a volere il mio. 

Alla fine l’uomo si decise a mettere la retro, costringendo tutta la fila a fare altrettanto e io potei fare la mia manovra. 

Calcolai mentalmente il tempo che mi mancava alla scadenza del biglietto e mi fermai giusto un minuto per rendergli il favore. Poi, esausta, ingranai la prima ed uscii dal parcheggio assolato.

Senza aver potuto trarre nemmeno una morale o un qualche senso da questa storia. 

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Il salice della discordia

In Campolungo abitavamo in un condominio di tre piani e sei appartamenti. Il nostro era al secondo piano a sinistra. Quelli al primo piano avevano il giardinetto in cui scendevano dalla terrazza. Agli altri spettava un pezzettino di terra ciascuno al quale si accedeva girando intorno alla casa. 

Nel nostro pezzo si teneva la roulotte durante l’inverno. Non c’erano molte piante, a parte un cespuglio di uva spina, un rosmarino e poco più. 

Un anno gli alunni di mamma le regalarono un salice piangente che piantammo lì. L’alberello crebbe in pochi anni, sviluppando le sue bellissime fronde. Purtroppo non fu piantato in posizione abbastanza centrale nel terreno, ma più sul lato sinistro, e alcune fronde andavano ad occupare lo spazio aereo dell’orto dei vicini del terzo piano. 

La vecchia ogni volta che ci incontrava ci diceva di tagliare quei rami, altrimenti lo avrebbe fatto lei.

Io quel salice lo amavo moltissimo e non riuscivo a spiegarmi come una pianta così bella potesse generare tanta insofferenza.  

In ogni caso mamma e babbo potavano quei rami per evitare dissidi con i vicini. 

Loro occupavano l’appartamento sopra il nostro. Un giorno, da piccola, ero sola in casa. Fuori dalla porta, dal pianerottolo, venivano dei rumori strani. Swish, thump. In certi momenti la porta tremava, quasi sbatteva. Ero terrorizzata e allo stesso tempo morivo dalla voglia di scoprire che cosa stesse succedendo. A un certo punto mi feci forza, raccolsi tutto il coraggio che avevo, aprii la porta di scatto e, con un urlo tipo l’ultimo dei mohicani, mi lanciai sul pianerottolo pronta ad affrontare il mostro misterioso. Cioè la vicina del piano di sopra che stava passando il cencio sulle scale. Che non si impressionò, ma nemmeno perse l’occasione.

  • Dì alla tua mamma che stia più attenta quando bagna le piante. Esce l’acqua dai vasi e poi la devo asciugare io.

Io però, dopo aver scoperto che il misterioso mostro era la vecchia vicina che passava il cencio, ero paonazza per la vergogna e mi sarei solo voluta nascondere.

  • Digli anche di potare quel salice, sennò glielo taglio io.

Un giorno sempre la stessa tizia, incontrandomi per le scale, mi disse, povera te che sei nata donna, vedrai quante ne avrai da passare. Un’esplosione di positività.

A un certo punto, dopo anni passati in camera con la mia sorella, decisi che ne volevo una per conto mio. Così mi trasferii in salotto. 

Fu più o meno nel periodo in cui i vicini del piano di sopra iniziarono a sparare Julio Iglesias a tutto volume alle sette della domenica mattina. 

Mamma, babbo e Paola avevano le camere un po’ più in là, rispetto al salotto. Io invece dormivo nella stanza proprio sotto a quella del giradischi.

Dopo qualche domenica mi presentai alla porta della vicina chiedendole se per favore potevano tenere la musica più bassa perché la domenica era l’unico giorno in cui potevo dormire.

La vecchia rispose che avrebbero continuato a fare come gli pareva. Così Julio Iglesias continuò ad urlare sono un pirata sono un signore ogni domenica mattina.

Quando ero ormai grande, mamma mi raccontò che la vecchia vicina mi aveva fatto da baby sitter nei primi mesi della mia vita. Chissà che cosa mi avrà trasmesso.

Finalmente, ai miei diciotto anni, ci trasferimmo in campagna e lasciammo la casa di Campolungo insieme all’orto e al salice piangente. 

Qualche tempo dopo mi venne voglia di rivedere la nostra vecchia casa. Le facciate di ogni appartamento, che prima erano del colore deciso da chi ci abitava con un allegro effetto Arlecchino, erano state dipinte tutte nello stesso color giallo pesca.

Girai verso i garage per dare un’occhiata all’orto e la cosa mi saltò subito all’occhio.

Il salice non c’era più. 

Non nascondo che il fatto mi ha lasciato una certa tristezza. La stessa che provo ancora oggi ogni volta che penso al salice della discordia. 

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Archiviato in diario minimo, storie di piante ed erbe aromatiche

La scoperta di Harvey Milk

Nell’autunno del Duemila ero a San Francisco con un amico. Un giorno, mentre passeggiavamo in un parco, conoscemmo Rob. Ci chiese se volevamo salire anche noi su una pietra da dove in passato i poeti declamavano le loro composizioni e così diventammo amici. Rob era un biondino alto e magro che vestiva di nero e vendeva accessori per animali on line. Nel corso della vacanza ci vedemmo più volte. Una sera venne a cena da noi con un’amica. Io preparai gli spaghetti con il pesto fatto in casa portati dall’Italia, il mio amico le cosce di pollo con le cipolle, che vennero buonissime, nonostante il forno con i gradi Fahrenheit.

Ci eravamo sistemati in un attico pieno di finestre a Pacific Heights, grazie ad un home exchange. Rob ci disse che nella casa di fronte alla nostra, ma al di là del parco, ci stava una scrittrice famosa, Danielle Steel, e che spesso i fan si aggiravano nella zona nella speranza di vederla. Un po’ più a sinistra invece abitava una ex sindaca di San Francisco che aveva fatto molto scalpore la volta che si era fatta intervistare da una tv mentre era sotto la doccia.

Una sera andammo noi a casa di Rob, poi uscimmo e lui ci mostrò alcuni luoghi dove Hitchcock aveva girato i suoi film. Come l’albergo con l’insegna intermittente di Vertigo, La donna che visse due volte. 

Un giorno ci trovammo con la sua amica Vanessa, una ragazza molto ricca e un po’ sola, che pagò taxi, cibo e bevute a tutti senza batter ciglio. Con lei ci divertimmo a mimare un ingresso trionfale all’Opera immaginandoci camminare sul tappeto rosso in abito da sera con piume e lustrini, tra le risate divertite degli addetti del teatro. Con Rob e Vanessa andammo anche a una festa nel Marina District, dove il Cosmopolitan scorreva a fiumi. Trascorremmo il pomeriggio a bere cocktail e a cantare con il karaoke in giardino. 

Una sera Rob, mentre passavamo sotto al municipio, ci raccontò la storia di Harvey Milk e di come, nell’anniversario della sua morte (e del sindaco George Moscone), la City Hall si accenda dei colori dell’arcobaleno.

Fu la cosa che mi colpì di più del lungo viaggio a San Francisco. Non riuscivo a credere che in un posto così bello e cosmopolita fosse successa una cosa così terribile.

In ogni caso, dal momento che San Francisco aveva scalzato il posto nel mio cuore fino ad allora occupato da New York, decisi che avrei fatto di tutto per tornare a viverci.

Il primo pensiero erano i soldi. Me ne sarebbero occorsi moltissimi, non solo per le leggi americane sull’immigrazione. San Francisco in quegli anni era al centro del fenomeno economico dovuto alla crescita delle imprese high-tech della Silicon Valley e si era conquistata il titolo di città più cara di tutti gli Stati Uniti.

Speravo che il mio amico mi lasciasse usare una foto che gli avevo scattato mentre si sfilava il maglione sullo sfondo dei grattacieli. Ero piuttosto convinta di potermi mantenere trasformandola in poster da vendere nel quartiere di Castro, simbolo della comunità LGTB di San Francisco. 

Dopo aver scoperto la storia di Harvey Milk, pensai che avrei potuto scrivere un libro sulla sua vita (che sarebbe ovviamente andato a ruba in Europa e in America) permettendomi di vivere in California anche meglio che con il poster. 

Quando tornai a casa cominciai a documentarmi e raccolsi un bel po’ di materiale da diversi siti on line. Pensai però che per scrivere un libro andando veramente a fondo in quella storia avrei dovuto trascorrere un certo periodo a San Francisco per raccogliere testimonianze e intervistare qualcuno che poteva averlo conosciuto di persona. 

Insomma, qualche anno dopo arrivò il film di Gus van Sant con Sean Penn nelle vesti di Harvey Milk e io non avevo ancora scritto niente. 

Nemmeno il mio amico mi ha più detto se potevo usare quella foto per i poster.

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Archiviato in diario minimo, on the road

Il pappagallo e la libertà

In prima elementare un compagno di classe mi regalò un pappagallino. Disse che lui ne aveva tanti, perché i suoi gliene facevano di continuo. Mi sembrò un miracolo. Che bel regalo. Un animalino, un esserino vivo, che entrava nella mia vita. 

Era un pappagallino come tanti, piccolo, di colore chiaro, con sfumature celesti. Me ne prendevo cura quando tornavo da scuola. Gli davo da mangiare, gli cambiavo l’acqua, gli pulivo la gabbietta. 

Lui stava aggrappato alle pareti di metallo con quei suoi artigli, becchettava l’aria e sembrava solo voler uscire dalla gabbia. 

Un giorno provai a liberarlo. Chiusi bene la finestra e la porta di camera e aprii lo sportellino. 

Lui fece un breve volo, andando ad appoggiarsi su un ripiano della libreria. Poi da lì ancora un voletto fino alla testiera in metallo del letto. 

Quando lo presi fra le mani non fuggi. Anzi, si faceva accarezzare. Era morbido, leggerissimo. 

Ero felicissima. Anche di potergli regalare un po’ di libertà.

Ogni giorno tornavo da scuola, mangiavo, facevo i compiti e poi giocavo con il pappagallo. Il momento più triste era quando dovevo rinchiuderlo di nuovo. 

Sognavo già allora un mondo senza gabbie. Ma era solo un sogno di bambina.

Dopo che avevo cominciato a liberarlo, mi sembrò che il pappagallino fosse diventato più nervoso. Era come se pretendesse di uscire. Ormai quello era diventato un diritto acquisito. 

Un giorno il pappagallino morì.

Lo trovai steso nella gabbietta e non riuscivo a crederci.

Piansi e mi disperai.

Poi mi convinsi che era stata colpa mia. Gli avevo fatto assaggiare una piccolissima fetta di libertà per poi rinchiuderlo di nuovo. E quello per lui era stato troppo.

Anche babbo la pensava così.

In questi giorni mi è capitato di fare alcune supplenze in una scuola media. I ragazzini di prima cercavano tutte le scuse possibili per farsi portare in giardino, o durante la ricreazione o per l’intera lezione. 

Così stiamo più attenti. Oppure, la nostra prof ci porta sempre.

Il top era quando ripetevano le frasi ascoltate dai grandi. In questo periodo siamo stati costretti al chiuso, abbiamo BISOGNO di uscire.

Stranamente, però, uscivano solo con la supplente, cioè con me.

Uno dei primi giorni non sono riuscita a dire loro di no, abbiamo fatto un intervallo e una lettura all’aperto, portandoci dietro le sedie e spostandoci di continuo per schivare i raggi del sole. 

Poi ho deciso di non portarli più, visto che tanto facevano sempre confusione, dentro e fuori.

Loro sono diventati ancora più agitati e mi hanno reso quasi impossibile fare lezione. 

L’ultimo giorno urlavano tutti insieme e battevano i piedi per terra. Da impazzire.

È stato questo a farmi venire in mente la storia del pappagallino morto di strazio dopo aver assaporato la libertà.

Ho chiamato uno dei ragazzini più agitati alla lavagna e gli ho detto, scrivi.

M-A-N-I-P-O-L-A-T-O-R-E.

Lo so io che vuol dire, ha alzato la mano uno dei ragazzini.

È uno che vuole far fare agli altri quello che vuole lui. Come noi!

E tutta la classe, come noi, come noi.

Qualche tempo fa, però, mi è capitato di parlare con qualcuno della storia del pappagallo. Mi disse che sicuramente non era stata la smania di libertà ad ucciderlo.

Sono animalini molto fragili e capita che perdano la vita così, per mille motivi. Inoltre, essendo nati e cresciuti in gabbia, hanno perso l’istinto del volo libero. Anzi, tornare liberi per loro significherebbe la morte certa, visto che non conoscono le insidie e i pericoli del mondo là fuori.

Una spiegazione che mi rincuorò, cancellando in un colpo il rimorso di tutto il tempo in cui avevo creduto il contrario.

Per questo ho pensato che non sarebbero morti nemmeno i ragazzini.

E così è stato.

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