Quando ero piccola passavo diverso tempo in Colle Alta da nonna Libe e nonno Corrado. All’epoca stavano in un appartamento all’ultimo piano di un condominio in via Volterrana, davanti a Vestrola. Si erano trasferiti da quando nonno era andato in pensione. Prima, quando era il responsabile dell’ufficio anagrafe, vivevano nel palazzo comunale, in via del Campana, dove si narra sia stata fatta la festa per il mio battesimo. Ma di questo non ho memoria.
Con nonna si andava spesso a fare qualche giratina in Borgo. Si entrava dalla Porta Nuova e si scendeva giù, verso piazza Baios, passando davanti all’ospedale e all’asilo della signorina Torsoli.
Spesso in questo tratto incontravamo Ria insieme alla sua mamma Rosa. La vedevamo trotterellare con l’aria svagata, volgendo la testa di qua e di là, mentre salutava tutti con la mano.
Per me incontrare Ria era una festa. Mi metteva una grande allegria.
Ria era una donna bambina. Sdentata, con i capelli corti tagliati alla basta sia, aveva la leggerezza di chi non conosce la propria triste condizione. Per me, bambina, era una compagna di giochi e di risate. Non vedevo differenze.
Una volta seppi che Ria veniva presa in giro dai ragazzi di Borgo.
“Ma perché, nonna?”. C’ero rimasta malissimo e non capivo come potesse accadere una cosa simile.
Nonna aveva difficoltà a spiegarmi come stavano le cose. Liquidò la faccenda con uno sbrigativo, “sai la gente è cattiva quando ci si mette”.
Ci capii ancora meno e continuai a rimuginare su quello che succedeva a Ria.
Che poi a dirla tutta, pensavo, se avessero proprio dovuto dar noia a qualcuno potevano darla alla mamma Rosa, che era sempre seria e con lo sguardo corrucciato. Ria invece era l’immagine della gioia.
Avrebbero dovuto passare molti anni ancora prima che potessi capire com’era Ria e quello che succedeva alle persone come lei.
Nel frattempo sono cresciuta e ho vissuto altrove, perdendo di vista le strade di Borgo e le persone che ci si potevano incontrare.
Diversi anni fa all’interno dei bastioni della Porta Nuova è stato realizzato un locale, una sorta di bar con musica e aperitivi in terrazza.
Una sera ci sono andata per bere qualcosa con un amico. Scorrendo il menù l’occhio si fermò sul nome di un cocktail: Rya.
Mi pareva che anche i nomi degli altri longdrink fossero legati a posti e personaggi della Colle vecchia per cui, quando arrivò la cameriera, una ragazza mora con la divisa bianca e nera, non potei non farle la domanda.
“Lei è sicuramente troppo giovane per averla conosciuta – le dissi – ma sa per caso se questo cocktail si chiama Rya come omaggio a una persona che viveva in questo bastione tanto tempo fa?”.
“I nostri cocktail sono tutti originali e creati dal nostro barman. Se ne desidera uno fuori dalla lista possiamo farlo fare secondo le sue indicazioni”, rispose lei con tono professionale e distaccato.
“No, non è questo che le chiedevo. Intendevo dire se è possibile sapere perché gli è stato dato questo nome…”
“Le ripeto, i nostri cocktail sono tutti originali…” eccetera eccetera.
Guardai il mio amico con tanto di occhi. Lui scosse impercettibilmente la testa per farmi segno di chiuderla là. Captai il messaggio. Che altro avrei potuto fare?
“Mi porti una tisana, grazie”.