Calzini bianchi a Sarajevo

Era una domenica di sole, Sarajevo sembrava già la città più bella del mondo ma io ancora non lo sapevo. La guerra era finita da qualche anno e la Bosnia, divisa in due stati confederati, cercava di ritornare alla normalità sotto il controllo militare occidentale.
Da quando ero arrivata era sempre stato nuvoloso, oppure pioveva e faceva freddo, anche se era maggio.
Quel giorno no. Quel giorno il sole splendeva e dietro i palazzi sfregiati dai colpi di mortaio si stendeva un cielo azzurro e senza una nuvola. Fu una vera sorpresa, la mattina, buttare lo sguardo fuori dalla finestrella del prefabbricato della base militare e vedere tutta quella luce, niente il giorno prima avrebbe fatto sperare in tanta bellezza.
I militari avevano il giorno libero e ognuno lo passava come voleva. Ero libera anche io, ospite del reggimento, ma non mi avrebbero mai lasciato andare in giro da sola per la città.
Un maresciallo, quello che faceva le foto per l’ufficio stampa, si offrì di farmi compagnia e fissò un appuntamento con la nostra traduttrice, Kanita.

maggio 2005 – Sarajevo (Bosnia)

Sarajevo maggio 2005

al confine fra la città vecchia e quella nuova

con Kanita

una domenica di sole a Sarajevo (maggio 2005)

Ci ritrovammo di buon ora alla Casa del Dispetto (si chiama così per un motivo preciso che adesso però non dirò), a pochi metri dalla biblioteca nazionale, quella che avevamo visto bruciare nei servizi dei tg. Poco lontana c’era anche la casa di Kanita, quella nel cui salotto suo marito fu ucciso da un colpo d’arma da fuoco attraverso la finestra mentre fumava un sigaro seduto in poltrona. Fu una delle prime vittime del conflitto civile.

Fa uno strano effetto trovarsi in un posto così. Passeggi, mangi un gelato, bevi una coca, e sei sulle strade dove solo una manciata di anni prima la gente sparava e si uccideva.

L’aria di Sarajevo trasuda tragedia e scoppia di vita. Sarà questa contraddizione che le dà quel sapore dolce amaro che ti resta appiccicato addosso anche quando non ci sei più.

Gli adulti ricordano e raccontano. I familiari uccisi, gli amici perduti, le mille storie che hanno accompagnato gli anni della guerra assurda tornano a vivere nelle loro parole.

Prima qua eravamo tutti diversi ma convivevamo in pace. Stavamo bene a Sarajevo, dicono con l’orgoglio del passato, di quello che sono stati. Poi, d’un tratto, essere musulmani è diventata una colpa. Ma anche ebrei e ortodossi non se la sono passata tanto bene in questa battaglia di tutti contro tutti.

Su un ponte vicino alle colline dove i minareti ora sorgono come funghi, le colline che durante la guerra erano il paradiso dei cecchini, una lapide ricorda due giovani fidanzati uccisi mentre passeggiavano mano nella mano. Admira e Rosko, 25 anni, lei musulmana lui serbo, diventarono il simbolo di quella frattura che aveva generato odio e distruzione.

Kanita, di origine croata, è ortodossa, ma il marito era musulmano. E i due figli sono uno ortodosso come la madre e l’altro musulmano come il padre. Una scelta che non divide nemmeno una famiglia, come racconta lei. Altri non la vedevano allo stesso modo.

Io e il maresciallo attraversiamo a passo spedito tutto il viale dei cecchini fino al centro. T-shirt bianca, pantaloni di tela beige e mocassini senza calze. Sembra di essere in vacanza.
Ma il programma è serrato, come in una gita organizzata. Comprende la Sarajevo vecchia, quella turca, con le case basse, le botteghe per i turisti e l’acciottolato per terra. Qui Kanita ci tiene a farci fare il giro completo della Sarajevo che era stata il simbolo della convivenza pacifica fra religioni diverse.
Prima di entrare nella moschea ci copriamo i capelli in segno di rispetto. Kanita ha portato un foulard anche per me, ma non ne ho bisogno, ho al collo la mia sciarpa grigia che si adatta perfettamente all’occasione. Il guardiano, fuori, sgrida il maresciallo che ha osato scattare delle foto alle donne che pregano prostrandosi a terra. E’ vietato. Lui gli dà ragione e si scusa, ma gli scatti rimangono nella memoria digitale.

con Kanita a Sarajevo (maggio 2005)

nella moschea

Nella sinagoga Kanita trova un amico. Parlano fitto, noi non capiamo niente. Ma arriva anche per noi il tempo delle spiegazioni e della visita guidata. Nemmeno qui, nella guerra fra musulmani e ortodossi, gli ebrei hanno avuto vita facile. E quella che prima della guerra era una grossa e fiorente comunità, dopo si è trovata decimata. La storia si ripete, tristemente.

La basilica ortodossa, imponente e vistosamente ornata, è l’ultima tappa del mattino, dopo la visita a una piccola chiesa, quella di San Michele Arcangelo, ricca di storie e tradizioni, dietro al mercato della strage. Qui andavano a pregare tutte le donne, di qualsiasi religione, che non riuscivano ad avere figli.

con Kanita a Sarajevo

dietro al mercato vecchio, davanti a San Michele, piccola chiesa ortodossa

Kanita parla e parla. Racconta le storie delle persone che ha conosciuto e che non ci sono più. Penso che l’aiutino a ricordare la Sarajevo di quando anche lei viveva felice, prima che il suo bel viso venisse indurito da un’espressione che nessuno le avrebbe più cancellato.

Noi l’ascoltiamo. A volte ridiamo, a volte ci viene da piangere. Ci piace quello che racconta.

Per pranzo ci aspetta la taverna storica di Sarajevo, quella dove si mangiano i cevapcici più buoni. Lo dice Kanita ma pare che lo sappiano tutti.

Un bugigattolo con i tavolini bassi in rame sbalzato e un lavandino di pietra. Sicuramente quando mi lavo le mani non mi sfiora nemmeno da lontano il significato di un gesto tanto rituale per i musulmani.
Poi mi tuffo a capofitto nel piatto alla scoperta di sapori sconosciuti.

Uscendo dalla città vecchia incrociamo una giovane donna che chiede l’elemosina. Il volto di Kanita si fa ancor più duro, gli occhi grigio azzurri si stringono fino a diventare fessure sottili.
D’improvviso le escono dalla bocca parole piene di rabbia, in un fiume incomprensibile di consonanti e suoni gutturali.
Stiamo in disparte e non osiamo chiedere il perché.

Chissà quali strascichi ha lasciato la guerra fra le persone. Ci sarà stato chi ha tradito gli amici, chi ha approfittato di quello che succedeva. Mors tua vita mea. E fra i vivi, quelli rimasti vivi fra tanti morti, chi può dimenticare?

I ragazzi non ricordano niente, dice Kanita. Loro hanno cancellato la guerra, la paura, le privazioni, e ora che i colpi di mortaio sono cessati, che c’è questa pace regalata dall’occidente, che si può camminare per le strade senza esser puntati dai cecchini, loro vogliono solo divertirsi. Li vedi ridere, amoreggiare, bere birra e fumare sigarette. Nei disco bar, alla sera, non si respira fra il fumo, il sudore e la musica a palla.

Il sole illumina le belle donne di Sarajevo che passeggiano sulle strade lastricate della città nuova dagli alti palazzi. Il maresciallo le fissa negli scatti che stavolta nessuno vieta.
Viste così, con i grandi occhiali da sole, i jeans alla moda, le scarpe col tacco e le borsette colorate, potrebbero essere ovunque. A Roma a Parigi a Madrid. Ma a Sarajevo ti provoca un senso dì stupore la normalità ritrovata, quelle camminate ondeggianti e piene di grazia. Non puoi non ammirarle. La loro femminilità riconquistata e esibita è un grido forte contro quella guerra che le ha uccise, umiliate, mortificate, stuprate. Anche le musulmane sono così. Belle, giovani ed eleganti nei loro vestiti colorati e con i capelli velati.

Sarajevo maggio 2005

i colori delle donne musulmane

Ormai non rimane quasi più niente da vedere. Cominciamo anche a essere un po’ stanchi. Kanita ci invita a casa sua a bere un tè. Accettiamo.

Siamo al punto di partenza. Vicini a quella biblioteca diventata il simbolo della cultura di un grande popolo, distrutta dalla piccolezza dello stesso popolo rivoltato contro se stesso.

Mi accorgo solo ora che i miei piedi bruciano. La delicata pelle della pianta, sfregando con la suola delle scarpe senza calzini si è irritata e non riesco più nemmeno ad appoggiarli a terra. Kanita mi fa un massaggio e mi regala un paio di calzini bianchi e nuovi. Sono imbarazzata per tante attenzioni.

E’ bastato aprire il cassetto dei calzini, tanti anni dopo quel maggio del 2005. Quando lo sguardo mi è caduto su quel paio bianco, trapuntato, da calzini della prima comunione, il filo della memoria ha srotolato il ricordo di una domenica di sole a Sarajevo.

(marzo 2011)

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