La notte dell’acqua

Quando da Treviso mi trasferii a Rovigo, sempre per lo stesso giornale, ogni tanto tornavo su, nel giorno libero, per passare un po’ di tempo con i vecchi amici. Poi rimanevo a dormire e la mattina dopo ripartivo per rientrare al lavoro.

In quel periodo gli amici erano perlopiù inglesi e americani che avevo conosciuto grazie al corso di inglese che avevo fatto prima di andare a New York.

Amanda era la mia insegnante, poi c’era Meredith, che ogni tanto la sostituiva, poi Inge, Claudia, mezza italiana, una piccolina bionda che diceva sempre definitely di cui non ricordo il nome e un ragazzo. Intorno a loro gravitavano anche alcuni amici italiani. Roberto, il fidanzato di Amanda, Roberto il fidanzato di Meredith, Livio e altri. 

Facevamo sempre un sacco di cose insieme. Cene in pizzeria o nella casa di questo o di quello, feste. Ricordo un pic nic in montagna e una gita in baita nel Feltrino. Un periodo d’oro per il mio inglese.

Più volte mi hanno anche invitato a parlare di giornalismo in inglese alla International School di Treviso in cui alcune di loro insegnavano.

Quando ero subentrata nella casa bohemien di Amanda, in via Bonifacio, lei si era trasferita in un bell’appartamento al quarto piano di un palazzo ancora più in centro. Per me era sempre disponibile la camera degli ospiti, anche se in casa non c’era nessuno. 

Amanda mi lasciava le chiavi da qualche parte e io andavo.

Una sera tornai verso mezzanotte. Era una di quelle volte che Amanda non c’era.

Non appena uscii dall’ascensore mi resi conto che c’era qualcosa di strano. Nel silenzio della notte sentivo distintamente, troppo distintamente, sgocciolare dell’acqua.

Guardai a terra. Un rivolo si avvicinava verso di me, scivolando dalle scale. Alzai gli occhi. Altra acqua a cascata su dal quinto piano.

Salii le scale di corsa. Il pianerottolo del quinto era un lago. L’acqua usciva da sotto la porta dell’appartamento sulla sinistra. Suonai il campanello, nessuna risposta.

Scesi giù, entrai in casa e telefonai ai vigili del fuoco.

Ma c’è qualcuno in casa? mi chiesero.

Non lo so, io ho suonato ma non mi ha risposto nessuno.

Dopo pochi minuti sentii avvicinarsi le sirene e il cielo cominciò a riempirsi di luci blu. Mi affacciai alla finestra. La strada era piena di mezzi di soccorso. 

I vigili del fuoco avrebbero cercato di risolvere il problema dell’acqua, ma per entrare nell’abitazione forzando la porta c’era bisogno della presenza dei carabinieri. L’ambulanza del Suem, infine, avrebbe garantito il soccorso sanitario nel caso nell’appartamento qualcuno si fosse sentito male. 

Anche i pompieri provarono a suonare il campanello più volte, senza ottenere risposta. Intanto l’acqua scendeva e scendeva, guadagnando poco a poco i piani più bassi.

Temevo il momento in cui, terminato l’intervento, i vigili sarebbero scesi al mio piano, mi avrebbero chiesto i documenti per la registrazione della richiesta di intervento, e mi avrebbero informato del decesso dell’inquilino del quinto piano.

Suonò il campanello. Erano i vigili.

Dissero che alla fine ce l’avevano fatta a svegliare il signore, un anziano, che dormiva della grossa e non aveva sentito niente, né il ripetuto suono del campanello, né tutto il trambusto nel condominio.

Dissero che si era scusato perché la sera prima quando era andato a dormire aveva dimenticato il rubinetto aperto in cucina. Non avrebbe mai immaginato di poter causare un disastro del genere.

Tirai un sospiro di sollievo, diedi i miei dati ai pompieri e augurai loro la buonanotte.

La mattina dopo, prima di lasciare la casa, scrissi ad Amanda una lunga lettera per raccontarle che cos’era successo. In inglese, naturalmente.

La lasciai sul tavolo per quando fosse tornata.

Qualche giorno dopo mi telefonò. Disse che non aveva mai riso tanto in vita sua come quando aveva letto il resoconto di quel flood.

La presi come una promozione. 

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